Corona è il (celebre) scultore-alpinista-scrittore di Erto, il paese della montagna al limite del Friuli occidentale cancellato - e poi, in qualche modo, riportato artificialmente in vita - dopo la catastrofe del Vajont nel 1963.
Il libro, di oltre 800 pagine, racconta la vita di una bambina “magica” nata ad Erto nel 1919, e morta ventinove anni dopo: e l’incredibile racconto (a cui Corona, nelle ultime pagine, vuol dare patente di autenticità) diventa pretesto per un epico affresco della vita di una comunità di montagna, in un arco di tempo che parte dal primo conflitto mondiale e termina ai giorni nostri, seguendo le ultime tracce di una memoria inquietante ed oscura, al punto che nessuno sembra più volerla custodire.
La scrittura di Corona è nodosa e contorta come i rami dei vecchi alberi; a mio avviso scrive male, malissimo. Ma l’irritazione per quelle parole che non filano, che si avvitano, che si annodano, che si attorcigliano, che girano su se stesse come un gorgo nella corrente di un fiume, è presto dimenticata e superata dall’incanto e dallo stupore per tutto quel che Corona sa e racconta di un mondo perduto per sempre.
Come in “Moby Dick” si entra affascinati ed in profondità nel mondo della tecnica baleniera, qui si apprendono, restandone colpiti, il valore ed il contenuto accumulato nei secoli dei mestieri e dei saperi “di montagna”, saperi che la modernità ha ormai ucciso in modo irreversibile.
Si comprende quanto quel mondo arcaico, primordiale, antico, fosse in realtà fatto di uomini che sapevano cavarsela in ogni situazione, fronteggiando gli eventi e la natura con equilibrio, costruendo con le proprie mani e con quel che avevano a disposizione quel (poco) che era necessario per vivere e per cavarsela.
(E ne ricaviamo, di conseguenza, l’idea precisa di quanto noi “moderni” siamo invece fragili, vulnerabili, piccoli e incapaci, completamente immersi nella complessa rete delle nostre dipendenze, completamente perduti se manca la corrente elettrica per un giorno o non ci parte l’automobile.)
Corona ci racconta la professionalità dei boscaioli, dei falegnami, dei maestri d’ascia: ci ricorda che esisteva chi sapeva fare una carbonaia o tirare una teleferica tra i boschi ed il paese in pochi giorni, e di come il legname si facesse arrivare a valle creando e distruggendo opportunamente gigantesche dighe di tronchi.
Ci spiega (come ha già fatto in altri libri) come quegli uomini avessero ereditato (lentamente, nel corso di generazioni) ed approfondito una conoscenza profonda della natura: e ci racconta il loro rispetto per essa, vitale per la loro esistenza, ed il loro rapporto corretto con le risorse disponibili – il legno, l’acqua, la terra…
L’oste, il becchino, il falegname specializzato nelle casse da morto (di cui il paese ha – nella storia narrata – uno smodato bisogno), il mugnaio, il fabbro sono altre figure indispensabili in quella comunità. Ognuno ha un ruolo necessario e per il quale è necessario crescere, prima o poi, un giovane che prenda il suo posto al momento opportuno.
Si prova simpatia per ognuno di essi e per il ruolo che ricoprono con piena consapevolezza e senso del dovere, anche se sono farabutti e bestemmiatori incalliti, anche se odiano con facilità e sono vendicativi.
Perchè quel mondo è rozzo, cinico, brutale come la vita di montagna. I caratteri degli uomini (e delle donne) sono tagliati con l’accetta, la solidarietà è mera comprensione del fatto che da soli non si può sopravvivere nelle difficoltà; non c’è poesia nelle ciucche e nelle risse, e le donne (esclusa Neve) sono soltanto streghe, o mogli silenti e maltrattate, o gambe da aprire per il sollazzo di chi ha lavorato duro o non ha ancora bevuto a tal punto da crollare ubriaco sul tavolo dell’osteria.
Le famiglie sono in gran parte luoghi di violenza e di inganno, la chiesa è luogo di vuota ma irrinunciabile ritualità.
Il romanticismo, nella storia, è riservato solo a Neve – una creatura appunto magica, e solo per questo buona, sensibile, non contaminata dalla cattiveria della vita - ed al suo impossibile amore.
Il resto è duro mestiere di sopravvivenza in un ambiente duro ed ostile, è fatica, rabbia, spietato realismo sulla realtà dell’esistenza – senza Dio, senza nessun aiuto da un “fuori” che è per definizione ostile, ingannevole.
La gente di “quella” Erto (tra novanta e sessant'anni fa) è abituata a cavarsela da sola, nei lunghi inverni in cui tutto si ferma sotto metri e metri di neve, e distese implacabili ed infinite di ghiaccio.
Ogni famiglia sa che deve giungere all’inverno provvista di tutto quel che sarà necessario a sopravvivere per mesi, bloccati in casa senza possibilità di muoversi: legna per riscaldarsi, alimenti, attrezzi per il lavoro e la cura degli animali.
Non c’è modo di muoversi dal paese, né di essere raggiunti: non ci sono ovviamente (per i primi decenni dell’arco temporale in cui si dipana la storia) telefono, corrente elettrica, acqua corrente. In questo mondo chiuso e isolato, i rancori e le avidità son le uniche cose che sembrano ravvivarsi e prender forza davanti ai camini incandescenti.
Le osterie sono i luoghi in cui ci si incontra, per inciuccarsi, giocare alla morra e fare baruffa.
Baruffe cruente, spesso, dove volano le accette e ci si bastona a sangue, o a morte.
I due immensi falò di primavera e d’autunno, che segnano rispettivamente il ritorno alla vita dopo l’inverno e l’arrivederci alla vita al ritorno dell’inverno, sono momenti di socialità e di riti tribali segnati dal fuoco e dall’alcool: la comunità si stringe intorno alle tradizioni e conferma la distribuzione dei ruoli (dall’anziano all’accenditore del falò, ai giovani che diverranno adulti sfidando la forza devastante e purificatrice delle fiamme in una prova di coraggio).
Quando in questo mondo
Qui il romanzo assume una decisa deriva splatter, ed il numero e la modalità delle morti diventa impressionante, spaventosa: quasi ci si abitua a vedere il biancore delle ossa dell’ennesimo sventurato divorato dal milione di topi e pantegane che abitano, inquietanti, nelle fondamenta di un mulino, e diventano all’imbrunire lo spietato esercito del farabutto di turno, o il nero delle ossa dell’ennesimo sventurato divorato dal fuoco o dal calore.
Il numero di sepolture nel racconto è eccessivo, e son sempre sepolture di miseri resti ossei, quasi mai di corpi integri…così come numerosi e “naturali”, nel contesto, sono ahimè anche gli stupri.
Talvolta Corona le spara davvero troppo grosse e si lascia andare a sfottere il lettore, come quando immagina che un corpo travolto dalla fuga del milione dei roditori diventi una sorta di tappetino in cui avvolgere altri resti umani - come potrebbe accadere in un cartone animato -, o descrive un omicidio compiuto gettando un corpo a tutta velocità dentrò un falò usando una teleferica per il legname…
In questo è poco credibile come quasi tutti i protagonisti della storia, ma resta l’inquietante sensazione che uomini di quella fatta dimostrassero una forte coerenza tra le proprie rozze espressioni omicide e le proprie azioni.
Si procede, dunque, schifandosi a volte abbastanza, ma rimanendo avvinghiati alla storia, se non altro per capire quale sarà la punizione riservata al cattivo, che ci si aspetta spaventosa almeno in proporzione alla quantità ed alla qualità dei misfatti compiuti: perché, sull’altro versante del racconto, il destino di Neve è segnato e previsto sin dai primi capitoli, e – a parte una piccola eccezione, non particolarmente felice, negli ultimi capitoli - non ci sono colpi di scena che diano alla storia altri motivi di eccitazione.
Ma il principale valore di questo libro non è la storia in sé - Corona avrebbe dovuto lavorarci assai di più per donarle una parvenza di credibilità-, ma lo sfondo ed la descrizione del contesto in cui essa si svolge: in questo Corona è magistrale, didattico, prezioso, e forse non ci avrebbe fatto questo dono se non avesse avuto la velleità di scrivere un “vero romanzo”.
Perché un vero regalo, quando gli riesce, è la descrizione di quel mondo ormai perduto che ha vissuto in parte di persona, o conosciuto ascoltando con pazienza, davanti a centinaia di quarti di rosso in fumose osterie, le storie raccontate dagli uomini che a quei tempi ed a quelle storie sono sopravvissuti: e di questa fatica, e di questo racconto dobbiamo essergli profondamente grati, anche se non ha la meravigliosa e solida scrittura di Rigoni Stern, anche se non ha la accattivante capacità di raccontare di Marco Paolini.
2 commenti:
Ricordo la sensibilità e la particolarità della persona quando vidi Corona intervistato dalla Bignardi.
PS: ti chiedo di passare da me quando puoi per una importante azione di solidarietà e soprattutto di accertamento della verità.
Grazie di cuore
Daniele
Ciao.
Peccato che un impostore (che adesso scrive "fantasy) abbia tanto credito.... immeritato.
Vi piace leggere??
Storie forti??
Prego:
(copia/incolla per i links, se non va altrimenti)
http://punto-informatico.it/2088913/PI/News/denunciato-vajontorg-si-auto-oscura.aspx
Cercalo in libreria, è l'unico su questo TEMA (la + grande STRAGE di MAFIA italiana):
http://deastore.com/libro/vajont-l-onda-lunga-quarantacinque-anni-lucia-vastano-ponte-alle-grazie/9788879289702.html#top
IL LIBRO
Dell’onda alta duecento metri che la sera del 9 ottobre 1963 si abbatté su Longarone, Erto e Casso, Castellavazzo e altri comuni fra Veneto e Friuli, sappiamo quasi tutto [ma in realtà, del "dopo", gli italiani non ne sanno proprio nulla...].
Lucia Vastano prende le mosse da quella notte e in questo libro racconta cosa ne è stato delle tante persone che l’onda non uccise ma sconvolse per sempre, decimandone le famiglie, distruggendone le ragioni di vita, le tradizioni, i pochi beni.
- Racconta della loro rabbia e del loro dolore, della loro speranza di giustizia continuamente delusa;
- racconta le indecenti trame che grandi potentati industriali come piccole cricche del malaffare hanno ordito alle loro spalle, gestendo i colossali finanziamenti per la ricostruzione; racconta le complicità della politica locale e nazionale;
- racconta le truffe ai danni della povera gente, indotta con le minacce o l’inganno a firmare tregue con l’enel in cambio di pochi spiccioli;
- racconta degli attentati continui alla sensibilità dei sopravvissuti e alla corretta memoria storica della tragedia.
Una tragedia che non è mai finita, una tragedia che è l’emblema di tutte le tragedie ecologiche e industriali, causate dall’avidità e dalla cecità dell’uomo. E di qualche approfittatore (M. Corona)
Un GIUDIZIO:
"Questo libro-inchiesta restituisce la parola alle vittime: i morti e i sopravvissuti; l’umanità ferita, traumatizzata, umiliata. Lucia Vastano racconta una storia di vinti, da mettere vicino a quelle scritte da Nuto Revelli. E, come quelle, a permanente monito contro i soprusi, l’arroganza, la violenza del potere."
(dalla prefazione di Paolo Cacciari)
Petizione Vajont online: http://www.petitiononline.com/vajont05/
Segnalo questo video all'indirizzo Le IENE/GOLIA: Vajont2007
http://www.iene.mediaset.it/video/video_3818.shtml?flv
Buon divertimento.
Tiziano Dal Farra, UD.
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