Questo post torna finalmente a casa sua, dopo essere stato migrante, in una nuova versione aggiornata (aprile 2016).
Maria Giuana è una canzone popolare molto cantata nelle osterie e nelle “piole”, ancora oggi (in quelle poche osterie e piole che restano), dai piemontesi di ogni età.
Come tutte le canzoni, ha avuto delle ave e delle nipoti, ha conosciuto contaminazioni e versioni diverse, ha avuto l’onore di essere interpretata, oltre che da orde di piemontesi alticci, anche da grandi interpreti.
Questo testo vuole ripercorrerne la storia, per narrarla in modo più o meno organico e tentare di lasciarne una memoria storica (per quando ce ne sarà bisogno).
Verrà quindi aggiornato ogni volta che verranno raccolte nuove informazioni.
Il post è stato aggiornato nel 2013 e nel 2014 con successive integrazioni, prima di essere completamente rivisto per la pubblicazione su Medium.
Ad aprile 2016, in coincidenza con la scomparsa di Gianmaria Testa (uno dei migliori interpreti di questa canzone), il post ritorna a casa, sul suo blog di origine.
Per le preziosissime informazioni fornite e per il tempo impiegato nelle ricerche, si ringraziano sentitatamente Walter Pistarini, curatore del blog “Via del campo — Omaggio a Fabrizio De Andrè”, e Dino Tron, fisarmonicista dei Lou Dalfin.
Per la versione veneto/trentina, ringrazio per la segnalazione ed il video Jimi Trotter.
Poichè il testo è di discreta lunghezza, probabilmente è utile disporre di un…
INDICE
LA CANZONE (E I SUOI INTERPRETI ILLUSTRI).
COSTANTINO NIGRA E “ZIA GIOVANNA”. LE VERSIONI DEL XIX SECOLO. LE VERSIONI “MODERNE”. LE VERSIONI DEI LOU DALFIN. MARIA GIUANA DA ESPORTAZIONE.
Se lo guardi da lontano, arrivandoci, è soltanto una delle piccole
macchie scure nel mare di declivi verdissimi della Lessinia - rimasta
senza alberi secoli fa, forse per farne navi o case...
Una faggeta, per esser più esatti.
Ombrosa e fresca, mentre oltre le chiome l'afa si deposita come un sudario sui dolci versanti nudi e privi di acqua.
Una Regina, altissima e indifferente, si erge in mezzo al piccolo bosco: è un faggio secolare (fratello del Grande Faggio del Bosco del Vaj, o della Ru Verda del Bosc Grand).
Son due settimane che mi sparo a nastro i suoi virtuosismi chitarristici accompagnati dal violino di Stèphane Grappelli: quelli della sua epoca d'oro, dagli anni Trenta del secolo scorso alla sua morte (1953).
Sono brani brevi, di tre minuti al massimo: all'inizio entusiasmano, freschi e strabordanti di pura e gioiosa voglia di suonare.
Dopo dieci ascolti non ne puoi più (eccheppalle, sembra tutto uguale...)
Ma dopo venti, se sopravvivi, sono come una droga.
Inizi a vedertelo, il Quintette du Hot Club de France, con Django e Stéphane elegantissimi ed imbrillantinati, i capelli neri e lucidi pettinati all'indietro...sul palco di un piccolo locale, o in quelle stanze piene di fumo...
Partiamo dall'inizio, però?
Ok.
Django Reinhardt nasce nel 1910. In Belgio, ma è un puro caso: perchè Django è un sinti (o un manouche), e vive in un carrozzone.
Un carrozzone che viaggia per Francia, Italia ed Algeria per sfuggire agli orrori della Prima Guerra Mondiale.
E finalmente un bel giorno quel carrozzone, con altri, imbocca la strada di Parigi, ed è con quella città che Django incrocerà definitivamente il suo destino.
Vive per strada, com'è ovvio, e per strada "assorbe" la musica: che è una cosa assai diversa da "impararla".
Django, dice la leggenda, per tutta la vita sarà analfabeta e totalmente incapace di leggere o scrivere uno spartito. Semplicemente, non gliene frega niente dell'aspetto "teorico" della musica: lui la possiede dentro, e tanto basta.
Ben presto, infatti, è in grado di suonare il violino, il banjo e la chitarra.
A 13 anni gira per feste e palazzi, apprezzatissimo dalla Parigi bene: suona per pura passione.
Ed è così bravo a suonare il banjo che a 18 anni registra il suo primo disco e gli viene proposto di andare a suonare in Inghilterra in una orchestra jazz.
Lui si diverte come un matto, a suonare, ed ogni sera fa tardi nei locali. Si sposa con Bella Baumgartner, in un fastoso matrimonio zingaro, ma non smette per questo di fare le ore piccole.
Una sera del 1928 torna, a tarda notte, dal suo giro nei locali fino alla roulotte nella periferia della capitale francese, ubriaco di musica ed alcool, e per non svegliare la sua sposa si muove con circospezione: accende una candela e la oscura con un fazzoletto, per non dar fastidio.
E' un attimo: la stoffa prende fuoco, e le fiamme in poco tempo si propagano prima ai fiori di celluloide e carta che Bella costruiva per tirar su qualche franco, e poi all'intero carrozzone. Django urla, sveglia e mette in salvo la moglie, ma è lui a non farcela in tempo, nonostante cerchi di ripararsi con una coperta.
Rimane gravemente ustionato, la gamba destra e la mano sinistra in pessime condizioni. Rovinato.
Gli arti dovrebbero essere amputati, ma Django - terrorizzato dall'idea - si tiene e si cura per un sacco di tempo le ferite aperte.
Solo nel 1929 si sottopone ad un intervento chirurgico - con la pericolosissima anestesia al cloroformio - che cicatrizza le ferite, bruciandole con nitrato d'argento: l'anulare ed il mignolo della mano sinistra sono però spacciati, inservibili.
La leggenda racconta che il fratello Joseph, a questo punto, gli regala una chitarra per affrontare la convalescenza (mah...in quelle condizioni Django avrebbe potuto spaccargliela in testa, come legittima reazione...), e che in diciotto (o sei , dipende dalle fonti) mesi di sforzi titanici Django sviluppa una tecnica chitarristica originale che gli permette di suonare la chitarra meglio di come suonava il banjo, pur senza due dita.
In realtà gli ci vogliono anni, ma il livello raggiunto è incredibile.
Quando Django è in convalescenza, scopre il jazz.
Ascolta Duke Ellington, Lang, Armstrong, e sente che la sua chitarra può essere protagonista insieme agli altri strumenti.
Che Django-ottodita suonasse il jazz da dio, è provato dai video (qui ne potete ammirare un po') e dalle registrazioni. La sua musica è principalmente figlia dell'improvvisazione, della strada e della passione per lo swing, ma ha una tale forza ed una tale identità che viene catalogata come "gipsy jazz".
Dunque, nei primi anni '30 Django torna ad essere un grande musicista, nonostante abbia dimenticato il banjo.
Torna a suonare in giro (e ad ubriacarsi, e a far tardi, e a dimenticarsi gli appuntamenti: sempre un manouche resta!), a fare ed ascoltare musica.
E incontra il violinista Stéphane Grappelli: musicista a tutto campo, colto e raffinato, ma anch'egli affascinato dalla musica che nasce dalla strada. Lui lo racconta così, l'incontro, e non poteva essere diversamente:
"Quella sera ero a suonare il sassofono in un club di Montparnasse e ad un certo momento vidi entrare dal fondo dei loschi individui... io ed i miei colleghi pensammo subito a degli strozzini venuti a riscuotere il pizzo... nella pausa mi vennero incontro... fu lì che incontrai Django e i suoi fratelli... mi chiesero di suonare il violino... io lo feci e da lì a pochi giorni dopo nacque il Quintette."
E' l'inizio di un'esperienza, chiamata appunto "Quintette du Hot Club de France" che dura dal 1934 al 1948. Il Quintetto, che ruota intorno a Django e Stéphane come elementi fissi, gira l'Europa e l'America diffondendo il gipsy jazz. Django si conferma come uno dei migliori chitarristi del mondo.
Arriva nel frattempo la guerra, e ovviamente la paura delle persecuzioni. Nonostante tutto, Django resta in Francia, mentre Stéphane ripara in Inghilterra.
Nel 1946 Django ottiene un contratto americano e - come si erano ripromessi i due durante un incontro nel 1939 - va a suonare negli States con Duke Ellington.
E' un vero disastro: Django adora suonare ma detesta la ritualità, e la critica stronca i suoi continui ritardi, i rifiuti di concedere bis, la sua bizzosità. Una sera si presenta persino alla Carnegie Hall in ritardo e senza chitarra (perdeva regolarmente gli strumenti nei locali e sui taxi), trovando normale che qualcuno possa imprestargliene una. Non conosce l'inglese, ed i brani di Ellington non sono ripensati per accogliere la sua chitarra; così suona alla fine, come attrazione.
Nel 1947 torna in Europa, ma è tempo di sazietà. Di successo e di vita. Suona sempre, ma non gliene frega più nulla di farlo in pubblico: lo fa poco e male.
Torna a fare vita nomade, la sua vita.
Spesso non va a suonare perchè non ha voglia di alzarsi dal letto. O perchè preferisce fare una passeggiata sulla spiaggia. O annusare l'odore della rugiada.
Dipinge: ma non ha lasciato nessun quadro, così come nessuno spartito.
Va a pesca, gioca a biliardo, fuma e beve.
Ciò non gli impedisce di suonare ancora con Grappelli, quando si presenta l'occasione.
Nel 1951 gli torna la voglia e l'ispirazione, e torna regolarmente ai concerti in formazione con i migliori musicisti jazz francesi. Prova anche la chitarra elettrica, con buoni risultati.
Si compra una casa nei pressi di Fontainebleu e ne fa un "buen retiro".
Nel 1953 registra ancora un disco, ma si sente che Django si sta dissolvendo in una nuvola.
A primavera, se ne va.
Ma la sua musica resta, oh se resta...e basta andare per le strade del mondo per sentirla ancora...