giovedì, aprile 30, 2009

Irene e le rose (racconto)

(Un racconto del 2007 rivisto sulla base dei consigli dei lettori dei Quindici.)

Era una caldissima mattina di luglio del 2022, quando Irene finalmente decise di trasferirsi nella piccola casa in collina che un tempo era appartenuta ai suoi nonni.

Lasciare la città in cui era vissuta sin da bambina non sarebbe stato facile, ma – finita l’università – Irene là non aveva più nessuno.

I suoi genitori erano tornati da tempo al paese di origine, ed i suoi amici erano andati via da mesi: da quando fu chiaro che la situazione, nonostante le assicurazioni del Governo, non sarebbe più migliorata.

Là, nel modesto appartamento del quartiere in cui era nata, Irene non sopportava più il silenzio delle lunghe giornate afose, rotte solo dagli altoparlanti montati sulle auto della polizia.

Percorrendo a bassa velocità le strade deserte del quartiere, quelle voci ricordavano ai cittadini che le razioni di acqua venivano distribuite solo una volta al giorno presso i punti di raccolta, e che la corrente elettrica ci sarebbe stata solo di notte, per poche ore.

Irene finì di preparare la valigia, con pochi abiti leggeri e qualche libro. Guardò l’ora, calcolando che per prendere l’autobus che l’avrebbe portata in collina c’era ancora una discreta quantità di tempo. Si sedette al tavolo della cucina, sfogliando distrattamente il quotidiano acquistato poco prima.

Era leggero, e di carta di pessima qualità: a causa delle Grande Crisi Idrica il numero di pagine era stato drasticamente ridotto per decreto, per risparmiare energia. In prima pagina era evidenziato, come ogni giorno, il riepilogo delle severissime misure prese dal Governo per fronteggiare la Crisi: il razionamento dell’acqua potabile, la proibizione di tutti gli usi diversi dall’agricoltura e dal consumo umano.

Una foto sgranata mostrava il panorama della pianura padana, ormai un’immensa piana desolata, arida, con l’orizzonte sfocato da nuvole di polvere ocra. Irene la guardò distrattamente, perché a quel paesaggio si era abituata nel corso degli ultimi anni, guardandolo dalla finestra della casa in collina durante le estati passate a studiare.

Viste dall’alto, solo le coltivazioni e gli allevamenti splendevano di un verde intenso, ma si trattava ormai di piccole macchie cromatiche, in un deserto di prati ingialliti e fiumi ridotti a esili fili argentei.

Anche il Po, poco a poco, era praticamente scomparso. Irene sorvolò distrattamente con gli occhi un articolo che raccontava delle decine di tendopoli sorte nel letto del fiume: erano centinaia coloro che speravano di sfuggire alla fame coltivando qualsiasi cosa nascesse vicino alle poche, residue pozze putride di quello che un tempo era considerato un Grande Fiume.

Irene guardò l’orologio a muro: ancora dieci minuti, poi avrebbe abbandonato per sempre quelle stanze, quel tavolo di legno su cui aveva preparato, china, un incredibile numero di esami. Appallottolò il giornale gettandolo nel cestino dell’immondizia, finì lentamente di vestirsi e uscì, chiudendosi per sempre quella porta alle spalle.

*

L’autobus uscì lento dalla città, ed imboccò la strada ai piedi della collina, da cui si vedeva in distanza la pianura arrossata dalle polveri e dai fumi di carbone: ai bordi delle poche coltivazioni rimaste risaltavano gli scintillii delle recinzioni di filo spinato e delle garitte da cui l’esercito sorvegliava ed impediva alle popolazioni assetate di avvicinarsi agli impianti di irrigazione.

Irene volse lo sguardo fuori dal finestrino, e guardò in lontananza, oltre l’orizzonte offuscato, le montagne senza neve.

Le ultime precipitazioni nevose si erano verificate oltre dieci anni prima, poi tutto era stato abbandonato: i paesi, le località turistiche, gli impianti di risalita restavano immobili e deserti a testimonianza di un tempo che non sarebbe più tornato.

La gente era fuggita dapprima in città, dove molti avevano iniziato a vivere sotto i ponti cercando umidità e riparo dal calore asfissiante. Ma quando anche in città i controlli del Governo sull’uso dell’acqua si fecero strettissimi, ed i primi sciacalli -che scavavano danneggiando le tubature dell’acquedotto per rubare il prezioso liquido e rivenderlo al mercato nero- furono uccisi dalle Forze dell’Ordine, molte famiglie decisero che l’unica speranza di sopravvivenza fossero i boschi delle colline intorno alla metropoli.

Si attendarono in molti, allora, sotto i faggi ed i castagni, ritornando ad una vita primordiale, vivendo di frutti di bosco e di baratti , ricevendo acqua e viveri dalle popolazioni locali che ancora disponevano di pozzi non esauriti. In cambio davano quel poco di prezioso che avevano salvato dalla fuga – gioielli, denaro – o si offrivano, finito questo e nella maggior parte dei casi, come forza lavoro disperata e sfruttata.

Irene aveva la fortuna di avere ancora un luogo dove andare, e tra pochi minuti sarebbe scesa nella piazza del piccolo paese in cui, d’estate, passava le vacanze: ora sarebbe stato il suo rifugio.

Scese in piazza, quando l’autobus si fermò cigolando ed aprì le porte: era passato da poco mezzogiorno, ed il caldo era anche lì intollerabile. La sua attenzione fu attratta da un manifesto rosso appeso al muro: il Sindaco invitava i paesani alla vigilanza, ed a chiudersi in casa di notte.

La collina, si leggeva, era popolata di sbandati e di persone poco raccomandabili che vivevano alla macchia. La gente aveva paura, soprattutto dei profughi che giungevano dalla Russia: nel 2015 gli Stati Uniti d’America l’avevano invasa per assicurarsi le immense risorse idriche del paese, anticipando di poco un analogo piano di occupazione da parte di India e Cina.

L’Unione Europea non si schierò con nessuno dei contendenti, ma il suo territorio fu invaso da centinaia di migliaia di profughi russi.

La casa era a poche centinaia di metri dalla piazza.Irene la raggiunse quasi correndo, aprì sferragliando la porta di ingresso con la grande chiave lasciatale in eredità, ed entrò aspirando a pieni polmoni il familiare odore delle vecchie mura, che la difendevano dalla calura esterna. Aprì una delle imposte e guardò fuori, sul giardino e sulla valle sottostante.
Il frutteto, il vecchio roseto e le ortensie, che i suoi nonni coltivavano, prima di morire, negli anni in cui non c’era ancora lo stato di emergenza, erano ormai morti e mummificati da tempo.
Da oltre cinque anni era assolutamente proibito usare l’acqua per scopi di giardinaggio. I vivai erano stati tutti chiusi, ad eccezione di pochi considerati di “interesse nazionale”, in cui si tentava di salvare dalla scomparsa – con uno specifico progetto governativo – le specie floreali e le piante originarie del paese. Qui, la coltivazione era ovviamente sorvegliata dalla polizia, come capitava per qualsiasi attività in cui l’acqua era disponibile in quantità normali – ed avrebbe quindi potuto attirare l’interesse delle popolazioni o della criminalità.

Lo sguardo di Irene spaziò da destra a sinistra, accarezzando quei colli amati.

La collina aveva quindi perso il suo aspetto vivace di molti decenni prima, ed erano scomparsi i vasi di gerani alle finestre, e dai giardini gli arbusti, le rose e le ortensie, gli orti, ed anche gli alberi da frutta non fiorivano più e seccavano in seguito alla lunga siccità. Anche se qualcosa fosse sopravvissuto, le leggi speciali della Grande Crisi Idrica impedivano severamente ogni forma di coltivazione autonoma ed individuale. Qualcuno lo faceva lo stesso, in clandestinità, nonostante le severe pene previste, per produrre qualche frutto stentato o qualche ortaggio rachitico – che aveva comunque un valore altissimo sul mercato nero.
Dal 2010 gli effetti dei cambiamenti climatici si erano fatti sempre più evidenti ed irreversibili, e la serie di inverni senza freddo e senza precipitazioni era continuata facendo capire che non si sarebbe trattato di episodi. I governi delle maggiori potenze mondiali (Stati Uniti, Unione Europea, Russia, Cina, India) si erano riuniti per giungere ad un accordo che stabilisse un battuta di arresto nelle attività che avevano influenza sul clima, ma senza successo. Le potenze occidentali non intendevano ridiscutere il tenore di vita delle proprie popolazioni, le potenze emergenti non intendevano fermare i propri piani di sviluppo.
La situazione delle risorse idriche divenne così critica che ogni governo europeo dovette varare delle leggi speciali. La scarsità di acqua dolce impose una sorta di economia di guerra, che ebbe riflessi immediati sull’attività industriale e sulla economia.

Si interruppe l’erogazione dell’acqua via rubinetto, ed ogni famiglia aveva diritto ad una quantità giornaliera di acqua – erogata con le autobotti nelle diverse località – sulla base del numero dei componenti e della loro età.

Le lunghe code nelle piazze, con le taniche in mano, divennero presto familiari, ed in molti casi la principale attività quotidiana di molti componenti delle famiglie.

La quantità di acqua disponibile era così ridotta che presto divenne impossibile tenere pulite le case, lavare bene i piatti e farsi il bagno: l’acqua veniva usata esclusivamente per calmare la sete.

L’acqua minerale, nei negozi, era diventata rarissima ed a prezzi proibitivi: un genere di lusso che veniva comprato dai pochi privilegiati quasi di nascosto, ed a rischio di rapina.

Le piscine all’aperto, in stato di abbandono, si erano trasformate in polverosi parchi giochi per i ragazzi.

*

Gli amici di Irene si erano dispersi tutti, nel corso degli anni. Molti di loro si erano trasferiti nel Nord Europa, dove il clima era diventato quasi mediterraneo. La Norvegia, ad esempio, aveva quasi raddoppiato la sua popolazione nel giro di pochi anni, anche grazie al fatto che la neve ed il gelo – in inverno – erano sempre più limitati a poche settimane di vero inverno.

Irene, in quella piccola casa in collina, custodiva da sempre un segreto: ed una delle prime cose che fece, dopo essere arrivata, fu di andare, con il cuore in gola, a riappropriarsene.

Nel piccolo giardino ormai in abbandono, tra il capanno degli attrezzi ed il muro che divideva la casa dal terreno del vicino, in uno spazio di un metro quadro illuminato di rado dal sole, era sopravvissuto – seminascosto, clandestino, sovversivo - un cespuglio di rose Alba.

Irene soffocò un grido di gioia, nonostante le condizioni del cespuglio.

Miracolosamente e misteriosamente sfuggito alla morte per sete, il cespuglio non era più cresciuto in altezza da anni, ma conservava la capacità di emettere ancora due o tre rose l’anno – bianche, a fiore semplice, dal profumo forte ed intenso – che spuntavano come gioielli tra il rado fogliame, spesso decimato dal mal bianco.

Irene amava quelle rose, le amava pazzamente: rappresentavano per lei la vita, la speranza, il ricordo di tutto quello che di bello, profumato e dolce c’era nel mondo – il suo mondo – prima della Crisi, della polvere, della scomparsa della vita e dei colori.

Per qualche tempo dopo l’inizio delle leggi speciali, Irene aveva con ogni cautela (se l’avessero vista, sarebbe stata arrestata ) utilizzato l’acqua di un vecchio, piccolo pozzo presente nel giardino.

Una volta ogni due o tre settimane, in estate, tirava su un secchio di acqua, ormai verde e salmastra, per diffonderlo amorevolmente attorno al colletto del vecchio cespuglio, attorno al quale aveva scavato una piccola fossetta circolare in cui concentrare le poche forme di energia – acqua salmastra, appunto, residui di foglie secche e polverose, qualche manciata di erba strappata per strada… - che ancora poteva fornire alla pianta.

Irene aveva paura: che qualcuno la scoprisse.

Che le Forze dell’Ordine sentissero quel profumo, che qualcuno gettasse passando uno sguardo di là dal muro e la tradisse. Che qualcuno la vedesse al pozzo, o peggio ancora nell’atto di versare l’acqua alla base del cespuglio.

Poi, il vecchio pozzo si asciugò irrimediabilmente.

Per qualche tempo, Irene condivise la propria razione d’acqua con le rose. Ma la sete era spaventosa, e spesso dalla sua tanica, appena dopo averla ritirata, Irene donava parte della sua razione a famiglie del paese con figli piccoli, ammalati e piangenti.

Per lei ne restava pochissima, ed anche metterne da parte a sufficienza per le rose, ed innaffiarle ogni due settimane, divenne presto impossibile.

Così, Irene fu costretta a fare quel che non avrebbe mai voluto fare.

In paese, tra la gente in coda, tutti sapevano che il vecchio Robelli vendeva acqua al mercato nero.

Disponeva di un pozzo di acqua dolce che attingeva da una falda non ancora estinta, e poi aveva certi legami con qualche potente che gli consentivano – diceva la gente – di avere persino l’acqua corrente in casa per qualche ora al giorno.

Robelli, un settantenne dal viso prosciugato dall’avidità che viveva in una grande casa poderale ai margini del paese, accettava in pagamento qualsiasi cosa: denaro, preziosi, gioielli, ma anche capi di vestiario, lenzuola, asciugamani.

Non disdegnava il baratto con qualche giornata di lavoro forzato – il taglio della legna, principalmente. Ma si sapeva, si sapeva che lo si poteva pagare anche con il proprio corpo.

Molte donne del paese lo avevano già fatto, per disperazione, e soprattutto lo facevano le cittadine sfollate in collina, sperando che con il ritorno alla normalità ed alle case, quando la Crisi fosse finita, tutto sarebbe stato dimenticato come un brutto incubo.

In una sera di quella lunga estate, dopo aver atteso il tramonto e osservato con apprensione il cespuglio sempre più sofferente, Irene partì, nel buio, e si recò a casa di Robelli.

Irene, camminando verso la grande casa, ignorò le persone che, fuori dalla soglia, trattavano sommessamente con i dipendenti di Robelli – aveva dovuto assumere qualcuno per gestire i suoi traffici -; ignorò le loro occhiate sarcastiche e laide, e chiese di vedere il vecchio.

Due ore dopo, era di ritorno a casa con cinque litri d’acqua in tre bottiglie di plastica che nascose sotto la camicia. Aveva gli occhi colmi di lacrime ed il cuore in rivolta.

Lo scambio con Robelli era così insopportabile, per Irene, che tentò di evitarlo il più possibile. Ma vedere il cespuglio morire lentamente era una vista insopportabile, ed avrebbe fatto qualunque cosa – qualunque cosa – per evitarlo.

Le foglie cadevano inesorabilmente, una ad una, attaccate dalla malattia, ed alla fine dell’estate solo un’ultima, piccola rosa bianca stava per fiorire.

Irene la vide, nel giro di pochi giorni, sbocciare, rilasciare il suo delizioso profumo e poi, lentamente, ripiegare, abbandonarsi, sfiorire.

Quando l’ultimo petalo cadde a terra, Irene li raccolse delicatamente tra le mani: tuffò il suo viso in quel soffice profumo, lo inspirò a fondo ad occhi chiusi.

Capì d’un tratto, e irrimediabilmente, che il cespuglio aveva perso vita, speranza: che sarebbe stato, da quel momento, null’altro che un pezzo di legno contorto e morto.

Che tutto era finito.

Lasciò cadere i petali a terra, senza preoccuparsi – come aveva sempre fatto con estrema attenzione – di sotterrarli, per evitare che un refolo di vento potesse tradire l’esistenza delle rose ad occhi estranei.

Afferrò forte con le mani i rami nudi, sentì le spine morderle la carne, e il cuore sanguinare, e le lacrime roventi scivolare lungo la guance arrossate.

Stette lì, a lungo, immobile, ad aspettare che l’aria diventasse meno rovente, e il cielo rosso, ed infine stellato.

*

Poi, improvviso, si alzò il vento: un vento forte, impetuoso, selvaggio.

Strappo’ i petali caduti al suolo, li rialzò, li fece turbinare nella notte chiara.

Scompigliò i capelli di Irene, le sollevò la gonna fino a costringerla a muoversi.

Lei si alzò con difficoltà, e rivolse gli occhi verso il cielo, a guardare i petali bianchi che salivano a spirale, sempre più su.

Li vide passare, come uccelli, di fronte alla luna che si era fatta luminosa, immensa, spaventosamente vicina.

Irene sorrise: forse la speranza non era morta, non era scomparsa per sempre;aveva solo bisogno di trovare un nuovo luogo, una nuova casa, qualcuno – o qualcosa - che se ne prendesse cura.

Forse, semplicemente, non era più qualcosa che gli esseri umani potessero comprendere.

martedì, aprile 28, 2009

Qiu Xiaolong e l'ispettore Chen Cao

Mi sono appena bevuto d'un fiato, e con estremo piacere, l'ultimo ("Ratti rossi",2006) dei quattro libri di Qiu Xiaolong fino ad ora tradotti in italiano.
Avevo iniziato con "Visto per Shangai" (2002), e poi proseguito con il primo, bellissimo romanzo dell'intera serie, dedicata all'ispettore capo della polizia di Shangai Chen Cao: "La misteriosa morte della compagna Guan" (2000).
Amo il genere poliziesco: in questo caso, poterlo unire con una descrizione così dettagliata della Cina di oggi consente insieme di godersi l'intreccio ed imparare molte più cose su quel paese di quante se ne otterrebbero da uno degli innumerevoli saggi sulla Cina contemporanea scritti da Federico Rampini.
Chen Cao non è solo un ispettore capo, ma è anche un importante membro in ascesa del Partito Comunista, nonchè poeta e traduttore dell'amato Thomas Stearn Eliot (e qui il personaggio coincide con l'autore).
E' dunque combattuto tra la fedeltà all'organizzazione ed al Partito, in cui crede nonostante le continue delusioni che giungono dalla politica di "modernizzazione" (e qui pare di cogliere, nell'amarezza e nella delusione di Chen, una certa assonanza con alcuni tratti che Camilleri assegna spesso a Montalbano), e la curiosità verso la cultura del resto del mondo.
Il suo mondo è popolato di vecchi e prestigiosi compagni, protagonisti della rivoluzione, e giovani pescecani perfettamente a proprio agio nella più spericolata ed esagerata ricchezza, spesso incoraggiata dal Partito; da poliziotti tenaci e poveri costretti in case minuscole (da 8-10 metri quadri!) e vecchi vestiti lisi; da nuovi eroi della televisione commerciale e anziani funzionari di partito.
I dialoghi, in particolar modo quelli tra Chen ed i suoi superiori, sono spettacolari: in "Ratti rossi", ad esempio, il colloquio iniziale dell'ispettore con il compagno Dong, pezzo grosso del partito implicato in un caso di corruzione, è un capolavoro di comunicazione implicita, trasversale, mafiosa.
Noi giudicheremmo questi dialoghi allusivi ed evasivi, soprattutto per l'abitudine di citare versi risalenti ai tempi delle antiche dinastie imperiali, ma Chen ne trae motivi di riflessione utili per capire come il Partito intende procedere (ed in genere non sbaglia mai, anche quando decide di agire comunque di testa sua ignorando i messaggi che tentano di fermarlo).
Come in Montalbano ed in Vazquez Montalban, il cibo ha una grande importanza ed una grande attrazione sui personaggi dei romanzi. E' fondamentale, e segna i passaggi salienti dell'inchiesta, si tratti del menù tradizionale di un lussuoso ristorante sul fiume o di un piatto di spaghetti da asportare in un semplice chioschetto nei quartieri più popolari di Shangai.
(Raffaele Miraglia offre qui una bella e succulenta dissertazione sul rapporto tra Chen Cao - e gli altri personaggi dei romanzi- e la cucina cinese.)
Per quanto riguarda l'amore...Chen, persona colta ed attraente, non è per questo più fortunato dei suoi colleghi di carta di tutto il mondo (impossibile trovare un poliziotto, Maigret a parte, che possa vantare una vita sentimentale - o, addirittura matrimoniale - serena e "regolare").
Non ha una situazione disastrosa come il Kurt Wallander di Henning Mankell, o come il commissario Eberhard Mock del polacco Marek Krajewski: ma nessuna delle sue relazioni si compie, tantomeno quella - complicata dalla diversità culturale, che permane nonostante le infinite affinità - con la collega statunitense esperta di cultura cinese.
Il ritmo dei romanzi è tranquillo, ma non impedisce che i colpi di scena sorprendano il lettore con una discreta frequenza: e rendano impossibile abbandonare la vicenda e le pagine che la raccontano.
Chen non è propriamente un vincitore: nella sua ultima inchiesta, capisce di essere stato usato dal Partito come diversivo, sente il peso di due morti provocate dal suo agire, ma riesce comunque a colpire, con un atto di giustizia, un attimo prima di essere definitivamente esautorato.
Il suo ruolo nel partito è sempre in bilico, perchè la sua modernità è insieme necessità e pericolo per l'organizzazione. Chen si muove con attenzione tra i pericoli, usa con moderazione le sue conoscenze nel mondo di confine che ha contatti con le Triadi, riesce a mantenersi integro e degno di rispetto.
Ed anche se Qiu-Xialong non descrive mai l'aspetto fisico di Chen, alla fine ne ricaviamo comunque un'immagine gentile ed antica, ed al tempo stesso solida e moderna, di fronte alla quale viene spontaneo inchinarsi (e magari sedersi allo stesso tavolo per condividere una zuppa di ravioli).

lunedì, aprile 27, 2009

Milano, 25 aprile

E' il pomeriggio di un sabato radioso e caldo, a Milano , quando spuntiamo davanti ai bastioni di Porta Venezia in mezzo alla folla colorata e di ogni età convenuta per la manifestazione nazionale del 25 aprile promossa dall'ANPI.
Risaliamo lentamente il corteo antifascista, assai corposo ("Repubblica" dirà che eravamo sessantamila: non male per chi, come l'ANPI, non ha nè la struttura organizzativa nè il richiamo di un partito o di un sindacato).
Sfioriamo gli striscioni, le bandiere, i corpi delle persone che sono per l'ennesima volta scese in piazza per manifestare fisicamente la loro esistenza e la loro appartenenza: e ci sentiamo a casa, perchè siamo tra la nostra gente, sorridente e tranquilla.
I labari e gli striscioni, e soprattutto i partigiani dell'ANPI sono giustamente applauditi con calore dalla folla (almeno altrettanto numerosa) che fa da cornice al corteo lungo il suo percorso: c'è commozione, rispetto, riconoscenza, ed anche qualcosa che stringe il cuore, quando di tanto in tanto sorge spontaneo, lanciato da qualche voce che subito viene accompagnata amorevolmente da altre voci, un canto partigiano.
Giungono nel corteo Franceschini e Di Pietro, anch'essi applauditi e riconosciuti come "nostri".
Qualche problema in più ce l'ha la Brigata Ebraica, dal cui spezzone (accudito saggiamente ai lati dalla polizia) si erge anche un vessillo americano.
Ma la cosa, a differenza di altri partecipanti, non mi indigna nè mi turba: il nostro 25 aprile è stato possibile anche grazie (e non solo "malgrado") a quella bandiera, che in questo corteo ha molto più diritto di cittadinanza di altre entità che hanno molti più problemi a relazionarsi con questa ricorrenza.
Il corteo attraversa simbolicamente Piazza Fontana, a quasi 40 anni dalla Strage di Stato impunita, e si scioglie infine nell'immensità di Piazza Duomo, dove dilaga, occupandola tutta, ed ascolta ed applaude i relatori dell'ANPI, della FAIP e dell'ANED.
Qualche fischio per interposta persona, all'inizio del suo intervento, lo prende un Assessore del Comune di Milano, ma visto che in realtà ad essere fischiata è l'assenza della Moratti la contestazione finisce quasi subito.
Non così bene va, qualche intervento più tardi, al Presidente della Regione Formigoni. La piazza (TUTTA la piazza) copre interamente le sue parole con fischi ed urla.
Io tengo un atteggiamento sobrio, ma quando, in un attimo di abbassamento del livello sonoro della contestazione, lo sento dire che "il 25 aprile è diventata una data simbolo non solo della Liberazione dal nazifascismo, ma da ogni totalitarismo", allora scappa un urlo anche a me, perchè le ricorrenze non vanno riscritte a proprio piacimento, e questa deve rimanere quel che è: la Festa della Liberazione.
Ci rinfranchiamo con le parole di Epifani ("si può anche arrivare tardi, per ultimi, a capire il significato di questa data: ma bisogna farlo con la dovuta umiltà"), e poi del Presidente Emerito Oscar Luigi Scalfaro, che ci rimbrotta un po' per non aver ascoltato Formigoni e ci ricorda che "gli italiani sono eccezionali nei momenti eccezionali, ma nei momenti normali a volte avrebbero bisogno di una botta in testa".
Un ultimo applauso, e si va: con la consapevolezza che questa non potrà mai essere "la festa di tutti", ma solo di chi ha capito e scelto.

venerdì, aprile 24, 2009

Terremoto/2

Ricevo e pubblico:

"Ciao a tutti. Oggi è il 20 aprile 2009.

Per molti Abruzzesi lo sguardo è congelato all'alba del 6 aprile 2009.

Io, fisso il mio sull'ennesimo sorriso paterno e rassicurante del nostro Presidente del Consiglio, che campeggia sul paginone centrale de Il Centro, quotidiano locale e che ancora una volta (pure quando un minimo di decenza richiederebbe moderazione), fa sfoggio di capacità ed efficienza facendo grandi promesse nella speranza che si dimentichi il prima possibile (si sa gli italiani hanno memoria moooolto corta), che fino al 5 aprile nel meraviglioso piano casa che si intendeva vararare a imperitura soluzione della crisi economica, di norme antisismiche nemmeno l'ombra..


Vi scrivo da Colle di Roio (AQ) uno dei paesini colpiti dal sisma del 6 aprile 2009.
Il mio paese.
Trovo molto difficile fare ordine nel turbinio di pensieri che mi gonfiano la testa, ma ci proverò.
E scrivo questa nota perchè credo che solo uno strumento quale la rete permetta di conoscere altre verità, senza mediazioni se non dell'autore.

Il nostro campo è abitato da circa trecento persone, distribuite in una quarantina di tende.
Tornati da una vacanza mai iniziata, assieme a Laura, abbiamo cercato di dare un contributo alle attività di gestione della tendopoli che, nel frattempo, (era passata già una settimana dall'inaspettato evento), era andata sviluppandosi.

Come sapete non sono un tecnico, nè ho una qualche esperienza di gestione logistica e di personale in situazioni di emergenza e quanto vi racconto può essere viziato da uno stato di fragilità emotiva (immagino mi si potrà perdonare). Il fatto è, che a fronte di uno sforzo impagabile profuso da molte delle persone presenti nel nostro campo, (volontari della protezione civile, della croce verde/rossa, vigili del fuoco, forze di polizia etc...) , inarrestabili fino allo sfinimento, ci siamo trovati, o sarebbe meglio dire ci siamo purtroppo imbattuti, nella struttura ufficiale della Protezione Civile stessa e nel suo sistema organizzativo.

La splendida macchina degli aiuti, per quanto ho visto io, poggia le sue solide e certamente antisismiche basi, sulle spalle e sulle palle dei volontari; il resto da' l'impressione di drammatica improvvisazione. E non perchè non si sappia lavorare o non si abbiano strumenti e mezzi, ma semplicemente ed a mio parere, perchè si è follemente sottovalutato il problema fin dall'inizio.
Se vero che il terremoto non è prevedibile è altrettanto vero che tutte le scosse precedenti (circa trecento più o meno violente prima dell'inaspettato evento) dovevano rappresentare un serio monito. Perchè non è servito il fatto che due settimane prima del sisma alcuni palazzi presenti in via XX settembre a L'Aquila, poi miseramente sventrati, erano già stati transennati perchè le scosse che si erano susseguite fino a quel momento (la più alta di 4° grado, quindi poca cosa...) avevano fatto cadere parte degli intonaci e dei cornicioni...
Una persona minimamante intelligente, a capo di una struttura così grande quale la protezione civile, avrebbe dovuto schierare i propri uomini alle porte della città, come un esercito, pronto a qualsiasi evenienza.

Ed invece mi trovo a dover raccontare che le prime venti tende del nostro campo se le sono dovute montare i cittadini del paese (ancora stravolti del sisma), con l'aiuto di una manciata di instancabili volontari, che manca un coordinamento tra i singoli gruppi presenti, che la segreteria del campo (che cerchiamo di far funzionare), è rimasta attiva fino a ieri con un Pc portatile di mia proprietà, acquistato "sia mai dovesse servire", e con quello di un volontario; che siamo stati dotati di stampante e telefono ma per la linea Adsl (in Italia ancora uno strano coso...) stiamo ancora aspettando e quello che siamo riusciti a mettere in piedi è merito dell'intelligenza di qualche giovane del posto e dei suoi strumenti tecnici; che abbiamo dovuto chiamare chi disinfettasse e portasse via mucchi di vestiti perchè arrivati sporchi e non utilizzabili; che che fino dieci giorni dal sisma avevamo un rubinetto per trecento persone, nessuna doccia, circa 20 bagni chimici e nessun tipo di riscaldamento per le tende. Vi ricordo che in Abruzzo ed a L'Aquila in particolare la primavera fatica ad arrivare e che anche in queste notti la temperatura continua ad essere prossima prossima allo zero. Non ci si può quindi stupire che molte persone, la maggior parte delle quali anziane (e non tutte con la dentiera...), cocciutamente ed in barba alle direttive che vietano di rientrare nelle case, contiunano a fare la spola dalla tenda al bagno di casa.
Potreste obbiettare che tutto sommato e visti i risultati raggiunti nel seguire più di quarantamila sfollati questi problemi sono inevitabili e bisogna solo avere pazienza.
Condivido il ragionamento.

Quello che mi lascia stupito, che la gente non sa e che gli organi di informazione si guardano bene dal dire è che tutta la macchina si basa all'atto pratico, sulla volontà ed il cuore di persone che lasciano le loro case e le loro famiglie e che non pagate, cercano di ridare un minimo di dignità e conforto a chi, a partire dalla propria intimità, ha perso tutto o quasi. La protezione civile che molti immaginano (alla Bertolaso per intenderci) non esiste nei campi, almeno non nel nostro. I volontari si alternano, perchè obbligati ad andarsene dopo circa 7 giorni.

Cosa comporta tutto questo?
Che ogni settimana si vedono facce nuove con la necessità di ricominciare a conoscersi ed imparare a coordinarsi, che il capo campo cambia anche lui con gli altri e quindi può avere esperienza o meno, che spesso, ed è il nostro caso, la gestione di alcune attività è affidata ai terremotati perchè non viene inviato personale apposito, con inevitabili problemi, invidie acrimonie e litigate tra...poveri.
Volete un esempio cristallino della disorganizzazione?
La nostra psicologa, giunta al campo per propria cocciuta volontà, è rimasta anche lei solo una settimana. Vi immaginate quale può essere l'aiuto ed il sostegno che una persona addetta può dare e quale fiducia può risquotere per permettere alle persone di aprirsi, se cambia con cadenza domenicale???
A questo si aggiungano l'inesperienza di molte persone (spesso e per fortuna sconfitta dalla volontà di far bene) e le tristi e umilianti dimostrazioni di miseria umana che ci caratterizzano e che risultano ancora più indecenti ed inaccettabili in casi di emergenza.

Qualcosa di buono però ragazzi l'ho imparato.

Ho imparato che per la richiesta di materiale devo inviare un modulo apposito e che a firmare lo stesso non deve essere il capo campo, la cui responsabilità, fortuna sua, è solo quella di gestire trecento vite, trecento anime, più tutti coloro che ci aiutano dalla sera alla mattina, ma serve il visto del Sindaco, oppure del presidente di circoscrizione oppure di un loro delegato (pubblico ufficiale). Noi dopo aver speso due giorni per individuare chi dovesse firmare questi benedetti moduli, sappiamo che dobbiamo prendere la macchina e quando serve (ovviamente più volte al giorno), raggiungerlo al comune.

Un'ultima noticina.
Due giorni fa la Protezione
Civile si è riunita con gli esperti, ed ha ritenuto che non vi siano motivi di preoccupazione relativamente alle dighe abruzzesi (la terra trema ogni giorno). Ora ricordandomi che analoga sicurezza era stata espressa all'alba di una scossa di quarto grado e pochi giorni prima che il nostro inaspettato evento facesse trecento morti e azzerasse l'economia e la vita di migliaia di persone...ho provveduto, poco elegantemente, ad eseguire il noto gesto scaramantico...

Però dei regali li ho ricevuti.
Sono le lacrime di molte delle persone che hanno lavorato alla tendopoli, trattenute a stento nel momento dei saluti; sono le parole e gli sguardi dei vecchi del paese, che mescolano dignità e paura, coraggio e rasseganzione, senza mai un lamento.

Un'altra cosa.

Vi prego chiunque di voi possa, prenda il treno l'areo o la macchina e si faccia un giro per L'Aquila e d'intorni. Le tendopoli non sono tutte come quelle a Collemaggio. Scoprirete il livello di falsità che viene profuso a piene mani dagli organi di comunicazione oramai supini e del livello di indecenza del ns presidente del consiglio che prima con lacrime alla cipolla e poi con sorrisi di plastica distribuisce garanzie e futuro a chi, vivendo in tenda e saggiando sulla pelle la situazione sa, che sono tutte palle.
I morti sono serviti subito per mostrarsi umano e vicino alle famiglie, ma ora è meglio dimenticarli in fretta..Via via..nessuna responsabilità, nessun dolo. I pm sono dei malvagi.. ricostruiamo in fretta.. forza la vità e bella, vedrete, tra un mese sarete tutti a casa...
Conoscete i nomi delle famiglie che doveva ospitare nelle sue ville?

Le virtù umane travalican
o gli eventi, le sue miserie non hanno confini.

Se volete vi prego fortemente di inviare questa mail a quanti vi sono amici.
La stampa nazionale si è guardata bene dal pubblicarla.


Un saluto a tutti.

Pierluigi"

mercoledì, aprile 22, 2009

Schizzi di fango sul 25 aprile

So che Franceschini si rivolgeva all'Istituzione, al Presidente del Consiglio, quando ha avuto l'idea di invitare l'Istituzione stessa ad una doverosa presenza alle manifestazioni del 25 aprile.
Purtroppo l'Istituzione è oggi posseduta da chi sappiamo, e prima di parlare all'Istituzione occorrerebbe un esorcismo: perchè sennò la risposta viene sempre, sgraziata e stridula, dal demone del leader più amato del mondo dopo Kim Jong Il.
Ed ovviamente è andata così anche stavolta: la risposta è stata provocatoria, così come sarà provocatoria la presenza dell'Istituzione Posseduta, ovunque essa decida di andare.
Uno dei bollettini parrocchiali di quella fazione preannuncia infatti che l'omaggio principale dell'Istituzione Posseduta avverrà al cimitero americano di Nettuno, con una chiara, visibile scelta di ignorare la parte più sgradita dei "liberatori".
Ciò mi consola, perchè partecipando alla manifestazione di Milano avrei provato un fortissimo imbarazzo rispetto ad un eventuale presenza di costui. Avrei voluto applaudire l'Istituzione e contemporaneamente sputare in faccia al demone, e probabilmente avrei scelto infine il silenzio: ma la rovina della manifestazione sarebbe stata garantita.

Ma ecco che il risultato è stato ottenuto anche questa volta: invece di parlare del 25 aprile e di quello che rappresenta, parliamo degli schizzi di fango e dei fastidiosi rumori prodotti da chi odia la Repubblica del 25 aprile. L'ennesima arma di distrazione di massa, dopo una provvidenziale catastrofe nazionale, è usata per distrarre da quel che siamo diventati (per fortuna c'è chi riesce ancora a vederlo benissimo, e lo racconta senza specchi deformanti: non perdetevi il post odierno di Artemisia su come viene vista l'Italia dai corrispondenti dei giornali esteri!).

UPDATE: il bollettino parrocchiale non era ben informato: non andrà a Nettuno ma ad Onna, teatro nel 1944 di una strage nazista che costò la vita a 16 persone.


lunedì, aprile 06, 2009

Con Berlusconi, c'è sempre di peggio di quel che si vede

Ieri pomeriggio Lucia Annunziata ha segnalato una notizia presente sulla prima pagina del New York Times, chiedendosi se oggi sarebbe apparsa sui quotidiani nazionali.

Mentre verifico, intanto ve la do.

Dal New York Times (http://www.nytimes.com/2009/04/05/world/europe/05prexy.html?_r=1&scp=1&sq=erdogan%20berlusconi&st=cse):

"Efforts to sway Turkish officials over the leaders’ lavish dinner Friday at a casino in Baden-Baden, Germany, failed, as did a telephone call by Prime Minister Silvio Berlusconi of Italy to Turkey’s prime minister, Recep Tayyip Erdogan.

But behind closed doors, the deal was done. According to senior European diplomats, Turkey was given at least two NATO jobs, including a deputy to the deputy secretary general, who is an Italian."

Insomma: secondo la fonte del NYT, la Turchia ha accettato la candidatura di Rasmussen alla Segreteria della NATO non per la telefonata del Gran Giullare, ma in cambio di due posti nell'organizzazione, di cui uno tolto all'Italia:-)))

Ebbravo il telefonista!:-)))

PS: un applauso convinto ai ragazzi italiani che ieri, durante il discorso di Obama davanti al Castello di Praga, hanno innalzato lo striscione "Obama, sorry 4 Berlusconi!": l'ho visto apparire d'improvviso durante il servizio del Tg3, provando un moto di orgoglio (naturalmente la scena non si è vista su nessun altro telegiornale Rai...)

venerdì, aprile 03, 2009

Scomparire nel rumore più assordante

Mai, come in tempi di crisi, si fa così forte il dispiegamento delle "armi di distrazioni di massa".
La quantità di rumore artificiale è sempre più forte: persino Berlusconi deve portare all'estremo le sue spregevoli doti da giullare, affinchè oggi si parli della sua ennesima vergognosa performance da italiano in vacanza, e si dimentichi cosa sta accadendo, fuori, nella vita reale (obbligando anche il povero Obama a fare una figura peregrina: la foto di oggi con i leader del mondo obbligati a diventare clown sorridenti grazie al Nostro è una delle cose più tristi che sia dato di vedere).

Di Brunetta, insultatore e provocatore professionista di intere categorie di lavoratori, non parliamo nemmeno più: ma di certo sa come fare rumore anch'egli, e della qualità peggiore.

Molto meno rumore fanno le vetrine in frantumi, o il rumore dei manganelli sulle teste di chi scompare dalla vita insieme al proprio lavoro, da Riga a Londra a Strasburgo...e speriamo non domani a Roma, o il 25 aprile a Milano, anche se a chi non è più visibile non resta che offrire in sacrificio mattoni e teste da rompere, per invocare il diritto di esistere.

Assolutamente nessun rumore, invece, fanno le non-persone, gli altri, gli inesistenti per definizione.

Provate a cercare traccia, sui giornali, dei migranti dispersi solo tre giorni fa, al largo della Libia, in un naufragio che ha coinvolto almeno uno dei barconi della speranza (e della disperazione).
237 persone, è già un miracolo che di loro resti un numero preciso: uomini, donne, bambini scomparsi nel nulla, nel silenzio e nell'indifferenza, mentre i Gran Giullari ridono e spergiurano che tutto è a posto.


Dall'agenzia ASCA: