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lunedì, maggio 14, 2012

Difendere la democrazia dagli assalti della speculazione e dalla dittatura dello spread!

Lo spread rappresenta ''una dittatura'' e le classi dirigenti europee hanno il dovere di ''tutelare il sistema democratico dal continuo assalto della speculazione''. Questo il messaggio che Mister X decide di lanciare al termine della sua relazione in occasione di (omissis).

Per chiarire il proprio pensiero, Mister X parte da una massima di Epitteto: ''Quel che turba gli uomini non sono le cose, bensi' i giudizi che essi formulano intorno alla cose''. E' il caso dello spread, che ''si basa sui fondamentali dell'economia'' ma che nello stesso tempo ''incorpora un giudizio di valore sintetico soggettivo che, spesso, li travalica''. Ecco perche', secondo Mister X, ''in molti Paesi europei va crescendo l'insofferenza nei confronti della dittatura dello spread, vista come ostacolo alle aspirazioni dei popoli'', dato che ''i cittadini non accettano di pagare per scelte su cui non sono chiamati a decidere''. 
In un conteso democratico, basato sul diritto-dovere di ciascun cittadino europeo di ''partecipare democraticamente all'assunzione delle decisioni che ci riguardano'', lo spread ''dipende in sostanza dalle scelte di un soggetto invisibile, il mercato'' che per Mister X ''attribuisce ogni potere decisionale a chi detiene il potere economico, nei fatti vanificando il principio del suffraggio universale''. Lo dimostra ''l'eccezionalita' di quanto e' accaduto nell'ultimo anno'', un fenomeno che ''pone le classi dirigenti di fronte alla necessita' di tutelare il sistema democratico dal continuo assalto della speculazione''.

Chi è Mister X? Chi ha rilasciato queste lucide dichiarazioni? Chi invita - di fatto - alla lotta ed alla mobilitazione?

Vendola? Ferrero? Grillo?

No.


Ora, va tutto bene.

Picchiateci.
Schiacciateci.
Opprimeteci.
Impoveriteci.

Ma, almeno, non pigliateci per il culo.
Grazie.

mercoledì, ottobre 12, 2011

"La storia del PCI è fatta di assassinii..."

Da Il Fatto Quotidiano di oggi:


"Dopo la proposta di cancellazione del 25 aprile, dopo quella di portare i militari a presidiare Bologna per l’anniversario della Strage alla Stazione, dopo la lezione di storia impartita al Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, un “ex comunista” innamorato della Resistenza per motivi di parte, il deputato bolognese del Popolo della libertà Fabio Garagnani lancia la sua prossima idea: una contro mostra in opposizione alla mostra sul Partito comunista italiano allestita in questi giorni a Bologna. Oggi alla presentazione lui non c’era, ma i suoi confermano: l’evento anti Pci è farina del suo sacco.
Di che cosa tratterà l’evento non è ben chiaro. Sabato mattina alle 10, nella centralissima Piazza del Nettuno verranno allestiti alcuni pannelli fotografici che smaschereranno quelle che secondo il vice coordinatore cittadino del Pdl, Galeazzo Bignami, sono state le nefandezze del partito. Un partito, quello fondato da Antonio Gramsci e Amedeo Bordiga 90 anni fa, che secondo Bignami avrebbe sempre negato la stessa idea di patria: “Se si tiene una agiografia del Pci soprattutto nell’ambito delle celebrazioni dell’Unità d’Italia, noi reagiamo, soprattutto perché loro la hanno negata da quando esistono”, ha detto Bignami presentando la contro-mostra.
“La vera storia del Pci – ha spiegato Bignami – è fatta di assassinii, sangue e prelevamenti che avvenivano di notte per tutti i non comunisti. Di una sistematica battaglia alla patria e all’unità nazionale. Ma di queste cose nessuno parla”, ha proseguito il giovane consigliere regionale vicino al ministro della Difesa, Ignazio La Russa."

Incommentabile. Rende evidente il punto (irreversibile) di malvagità, malafede, menzogna, miseria a cui sono giunti costoro.

Da un altro punto di vista, assai più cinico, verrebbe voglia di dargli ragione.

Questa notte stessa.

lunedì, ottobre 26, 2009

La giornata di un presidente di seggio (tra il PD Pride Day ed Ernesto Che Guevara)

Sveglia alle 5,15 (e meno male che è cambiata l'ora!): alle 6 sono davanti al seggio, con il buio.
Arrivano gli scrutatori ma il compagno coordinatore del circolo non si vede: alle 6,35 lo chiamiamo svegliandolo, ha fatto casino con le sveglie ed il cambio d'ora...:-)

Alle 7,15 siamo pronti: il kit per il seggio è perfetto, completo; non hanno dimenticato nulla e l'effetto è di forte di serietà ed efficenza.
Le operazioni scorrono tranquille, con alcuni momenti di particolare affollamento, ma la gente è paziente, gentile, anche se non risparmia i propri commenti sulla necessità di mandare a casa Berlusconi e la propria rabbia sul caso Marrazzo.

Il clima è bellissimo, al seggio un sacco di gente si trattiene a chiacchierare (fuori il tempo, decisamente primaverile, aiuta: come diceva Gaber, "chissà perchè non piove mai- quando ci sono le elezioni").

L'affluenza è superiore a quella delle primarie del 2007 (dato che si confermerà anche alla fine), e questo significa che la nostra gente ci dà fiducia ancora una volta (sperando non sia l'ultima).


Alle tre e un quarto del pomeriggio mi faccio dare il cambio e volo ad assistere alla conferenza di Alberto Granado: all'ingresso
ritrovo L., la mia ex-prof di inglese ed ora pittrice innamorata di Cuba.
E' lei -
capita spesso - ad ospitare a casa sua il vecchio mito in questa piccola trasferta piemontese. Poi arriva mia figlia, con un sacco di suoi compagni, e amici che non si vedevano da tempo, perchè Granado, in quanto amico e compagno di sellino del Mito, è mito egli stesso e tutti desideriamo ascoltarlo.

(Quello nella foto qui accanto con il Che è appunto Alberto Granado, e non Fidel come potrebbe sembrare...i rivoluzionari cubani con la barba si somigliano tutti...)

E' un omino che ha superato abbondantemente gli ottanta (L. lo chiama "il nonno"), simp
atico e consumato dal tempo (ed il suo tempo è stato molto più ricco del nostro...): è piccino, fa tenerezza.

Guardandolo, viene istintivo pensare: ma come sarebbe oggi il Che, se fosse ancora vivo?

Sarebbe un simpatico e lucido vecchietto alla Granado od alla Pertini, o continuerebbe a raccontare ai nipoti sempre lo stesso episodio di guerriglia, ormai obnubilato dal tempo?
Per fortuna il destino e la storia ci consentono di eludere la domanda...
Parte l'intervista (condotta da un giornalista di Repubblica) e la platea, che riempie la grande sala, si commuove ovviamente quando Granado, con semplicità, parla "dell'amico Ernesto", del socialismo, dell'uomo al centro dell'azione, del Che come essere umano in carne ed ossa, nè icona nè eroe, ma uomo che semplicemente faceva quel che pensava fosse giusto.
Racconta delle visite del Che a Santiago de Cuba, dove Granado dirigeva il centro di formazione per i medici cubani dopo la rivoluzione.
Narra aneddoti di quel viaggio avventuroso, racconta l'entusiasmo del Che conosciuto quando Granado aveva vent'anni e Guevara 14, dice che il viaggio, la rivoluzione ed il Che sono interconnessi, non ci sarebbero forse stati gli ultimi due senza il primo, in cui Guevara costrui la sua visione rivoluzionaria.

La conferenza dura quasi un'ora, nonostante l'età Granado è arzillo ed incontenibile, mette spesso in crisi la traduttrice perchè "ha troppe cose da dire ma poco è il tempo rimasto", e noi applaudiamo, lo sentiamo vicino, semplice ma grande.

Ci accoglie dicendo "grazie per essere venuti a sentire un vecchietto", ci lascia dicendo "ricordate che bisogna sempre percorrere la via del socialismo, e imparare a dire NOI invece di IO".


Ho la fortuna di appartarmi con il grande Alberto dopo la conferenza, mentre giovani e leggiadre fanciulle si recano a rendergli omaggio (e lui apprezza, sornione, persino quando i ruoli si rovesciano ed è lui che riceve il baciamano...).

Una ragazza romena, esplosiva per fisicità e comunicazione, gli chiede di parlare dell'amore. Granado è stanco ma non si ritrae e filosofeggia: "L'amore è pace, non può esistere senza la pace"; la ragazza gli regala una poesia.


Saluto il grande Alberto ed L., dopo una mezz'oretta di chiacchiere, e me ne torno al seggio verso le sei "de la tarde".


Dove intanto son finite le schede, e c'è una coda immensa (anche se paziente e disciplinata) in attesa che un compagno vada a raccattarle in un altro seggio (per le nazionali ce la siamo cavata con le fotocopie, ma le schede per il regionale con sei liste sono un formato misto tra A4 e A3...)

Quando le schede arrivano, pian piano la coda si scioglie, ed alla fine della giornata abbiam anche fatto due tessere...
Alle 20 chiudiamo: iniziamo con ordine lo scrutinio delle nostre 228 schede, ci aggiungiamo le 75 del seggio volante; nel secondo seggio del circolo han votato in oltre 200.
Alla fine più di 500 votanti nel nostro territorio, siamo al 10% in più rispetto alle scorse primarie del 2007.
In linea con il resto del paese i risultati: vince Bersani con il 50%, Marino è sul 10/12 e Franceschini prende il resto.
Contiamo i soldi (quante monetine!), firmo verbali e tabelle di scrutinio, comunicazioni, mando gli sms con l'affluenza finale e con i voti dei candidati segretari, imbusto, sigillo...
Chiudiamo alle 22, salutando il compagno che deve portare (ahilui) le infinite buste alla Commissione Provinciale di Torino.


A casa, mi attacco a RaiNews 24 e mi godo in rapida successione il riconoscimento dei risultati da parte di Franceschini (che si dimostra un grande anche in questa occasione), le dichiarazioni di Marino ed il primo discorso di Bersani: che apprezzo per la sua sobrietà, ed al tempo stesso per il contenuto delle sue dichiarazioni, peraltro solide conferme di quanto aveva già detto durante la campagna elettorale.


Per una volta, vado a dormire esausto ma con una dote di speranza fortemente rinnovata.


PS: Marrazzo? Mah...io non sono molto dell'idea che "sono fatti suoi, se non interferiscono con il suo ruolo pubblico".
La "passione per i transex" (che è comunque, nel caso in oggetto, una cosa squallida: non stiamo parlando di amore tra persone, ma di sesso considerato merce e pagato non per necessità ma per sfizio), nascosta dietro la facciata rispettabile di una famiglia perfetta è una ipocrisia, comunque la si voglia girare: e ad un uomo pubblico non concedo il privilegio dell'ipocrisia.

Tantomeno se è uno dei nostri, tantomeno se comunque a toglierti le voglie ci vai con l'auto blu, tantomeno se neghi disperatamente quel che sei costretto ad ammettere il giorno dopo.

Io, in Bersani, lo convincerei a dimettersi subito, uscendo dal trucchetto furbetto dell'autosospensione.

Non vorrei essere nei panni di Marrazzo, ora, per tutto l'oro del mondo: non tanto per il fatto che ha dissolto in poche ore un discreto patrimonio di credibilità sua e del partito che rappresenta (e quindi patrimonio anche "nostro"), ma perchè essere costretto a leggere, negli occhi di sua figlia e di sua moglie, il crollo della sua credibilità, deve essere la punizione più terribile e dura del mondo.

giovedì, febbraio 19, 2009

Dell'ipocrisia perduta

Io credo che NoiSappiamoChi sia - ahimè - sinceramente convinto di far ridere, quando esibisce in pubblico il suo agghiacciante campionario di battute sugli ebrei, sui desaparecidos o sulle donne come oggetti sessuali.
E che creda davvero che chi rabbrividisce e s'indigna sia una persona triste e tetra.

Il problema più grave non è nemmeno che egli ed i suoi più violenti cortigiani- da Gasparri a Cicchitto a Bocchino- difettino di sensibilità e di rispetto verso gli altri: ma il fatto che non sentano più il bisogno di mascherare, nascondere qualcosa che potrebbe offendere un sentimento diffuso.
Stessa cosa dicasi per i Maroni, i Bricolo, i Cota, che da sempre (ma in particolare negli ultimi tempi) non fanno distinzione tra sbraitare al bar del paese e parlare a Montecitorio.

Mi piace riprendere e riproporre, al riguardo, parti di un articolo su questo tema che Nadia Urbinati pubblicò sulla Repubblica del 28 settembre scorso.

"La politica (quella del governo) è non soltanto insensibile al giusto ma è colpevole di non perseguirlo.
È colpevole di violare i diritti fondamentali promuovendo una legislazione e un' ideologia che sono razziste nei contenuti e nello spirito, perché escludono e criminalizzano chi ha come unica colpa quella di non essere "uno di noi".
La parola razzismo spaventa, ma deve essere pronunciata, ha scritto molto giustamente Stefano Rodotà su Repubblica di qualche giorno fa.
Deve essere pronunciata anche perché questa, solo questa, è la parola che riesce a descrivere quello che sta succedendo con sempre più frequenza nelle nostre città.
"

"Non è necessario che al linguaggio segua la violenza perché ci sia razzismo e perché ci sia comportamento violento.
Il linguaggio può fare violenza oltre che istigare alla violenza. E il razzismo è un linguaggio violento. È una forma di violenza che è prima di tutto un modo di pensare che riceve energia dalla pigrizia mentale.
Il pregiudizio (del quale il razzismo si alimenta), vive della nostra inettitudine mentale e della nostra faciloneria, perché è poco faticoso associare molte persone sotto un' unica idea: tutte insieme senza distinzioni individuali, solo perché nere o asiatiche o mussulmane.
Al razzista questi aggettivi dicono da soli tutto quello che egli vuole sapere senza fare alcuno sforzo ulteriore di conoscenza, osservazione, distinzione, analisi. «Sei nero, allora sei anche A, B, C». Questa faciloneria rende il razzismo un codice di riconoscimento: i razzisti vanno d' accordo, si riconoscono e si attraggono; rinforzano le loro credenze a vicenda e accorgendosi che non sono soli a pensare in quel modo concludono che hanno ragione, perché la maggioranza ha ragione.
Proprio perché genera emulazione il razzismo è facilmente portato a espandersi; l' atteggiamento razzista non è mai "un fenomeno isolato" perché se una persona ha il coraggio di rivelarsi razzista in pubblico è perché sa di poter contare sull' appoggio dell' opinione pubblica.
Ecco perché quando si legge a commento di un fatto di razzismo che si tratta di "un fenomeno isolato" si resta allibiti (io resto allibita): perché il commento è sbagliato e figlio della stessa faciloneria di chi ha commesso il fatto.
Questa è una osservazione di grande importanza, un' osservazione che si può comprendere prestando attenzione a quello che con superficiale supponenza molti osservatori italiani criticano degli Stati Uniti: il "politically correct".
L' idea che ci si debba vergognare di usare un linguaggio razzista in pubblico (questo è il "politically correct") riposa sull' osservazione ben documentata che l' escalation di comportamenti riprovevoli è indotta dal consenso (anche implicito o tacito) da parte degli altri. Se so di essere in minoranza quando dico "sporco negro" mi guardo bene dal dirlo in pubblico.
I moralisti tacciano questa strategia educativa di ipocrisia dimostrando così di non capire che molto spesso i vizi privati (e l' ipocrisia è un vizio) sono facitori di virtù pubbliche.
Ha scritto Jon Elster che una delle molle psicologiche che ha reso la deliberazione pubblica possibile (e con essa il radicamento della democrazia) è stata proprio l' ipocrisia, la quale ha per questo, quando esercitata nella sfera pubblica, una funzione civica. Qual è infatti quel deputato che in Parlamento ha il coraggio di dire apertamente di essere lì a rappresentare un interesse fazioso o l' interesse di qualcuno, che vuole fare leggi per se stesso e i suoi interessi? Sappiamo che questi comportamenti sono tutt' altro che rari eppure è raro che vengano così pubblicamente confessati.
Anche chi è lì a rappresentare solo se stesso giustificherà le proprie proposte di legge con l' argomento dell' "interesse generale". Certo, è ipocrita; ma è un' ipocrisia che mentre mostra che quel deputato è inaffidabile denota anche un fatto di grande valore: che l' opinione generale ritiene ancora che sia l' interesse generale a dover essere perseguito dai rappresentanti non quello privato o della propria fazione.
Insieme alla doppiezza del deputato, l' ipocrisia rivela, se così si può dire, una certa solidità della cultura etica democratica.
Il problema sorge quando non c' è più ipocrisia, quando il deputato non ha alcun ritegno a dire apertamente la ragione vera della sua elezione.
L' autocensura del "politically correct" presuppone una società nella quale il razzismo non è un' abitudine mentale della maggioranza. Ma una società nella quale ciascuno sa di poter apertamente essere razzista senza venir mal giudicato o redarguito (punito cioè con la disapprovazione pubblica) è a rischio di barbarie.
L' Italia ha di fronte a sé questo rischio. Sarebbe sbagliato mettere la testa sotto la sabbia o rifiutare di vedere.
E ancora più sbagliato scegliere la strada assolutoria.
Prima che alla violenza, e proprio affinché questa venga scongiurata, è quindi al linguaggio che occorre prestare attenzione, perché esso è il veicolo primo e più potente del razzismo, proprio a causa della natura del linguaggio, un mezzo con il quale costruiamo l' oggetto di riferimento e il suo significato, una costruzione che è condivisa da altri e imitativa, non privata e personale. Il linguaggio può essere usato per deumanizzare o onorare, per spogliare della dignità o per dare dignità. Per stimolare comportamenti violenti o comportamenti civili.
Per questa ragione tutti coloro che svolgono servizi di responsabilità collettiva - dai politici agli insegnanti ai giornalisti agli operatori dello spettacolo - devono sentire tutta la gravità del loro ruolo: perché le loro parole circolano più estesamente e velocemente di quelle di tutti gli altri cittadini e perché essi creano modelli di comportamento.
Il fatto gravissimo è che in Italia, sui giornali, in televisione e perfino in Parlamento, si fa a gara per tirar fuori la parola più razzista o l' espressione più volgare e intollerante. E il pubblico ride, senza rendersi conto che ridicolizza se stesso per l' insipienza con la quale questa sua noncuranza trascina la società in una spirale di disunione e violenza, con prezzi altissimi per tutti, anche per i razzisti.
"