giovedì, marzo 29, 2007

Genocidi e no

La contabilità dei morti è un esercizio che su questo blog si è sempre visto con raccapriccio, ma questo articolo segnalato da Mirumir è assolutamente da leggere.

mercoledì, marzo 28, 2007

Quando ti esplode dentro.

Quando ti esplode dentro quello che conosci e riconosci molto bene, e capisci che d'improvviso sei caduto in un buco nero.
Quando un'immagine che avevi dentro da tempo diventa una storia che ti sembra di conoscere da sempre, ti si rivela e ti riempie, e non hai più spazio dentro di te per nient'altro.
Quando tutto il resto diventa d'improvviso irrilevante, secondario, noioso.
Quando ti si stampa sul viso quel sorriso ebete, e dentro di te si svolgono in contemporanea tre o quattro chiassosi spettacoli circensi.
Quando vorresti salire in auto, divorare i chilometri ed il tempo ed essere lì, in quell'altrove che adesso percepisci come le porte del Paradiso.
Quando...

venerdì, marzo 23, 2007

Sogno una rivoluzione di silenzio.

Dunque, la notizia della settimana avrebbe dovuto essere: si stima che entro il 2025, tra il 56 ed il 65% degli abitanti del pianeta non vedrà soddisfatta la propria necessità di ACQUA.
In realtà è una notizia di parecchi mesi fa, una stima di un gruppo di scienziati americani, ma è stata riproposta ieri nell'ambito della Giornata Mondiale dell'Acqua.
Due terzi della popolazione mondiale, tra meno di vent'anni non avrà acqua a sufficienza.
Se ci pensate un attimo, è una notizia così terribile che bisognerebbe fermarsi tutti e ripetersela fino a quando non l'abbiamo capita bene.
E, subito dopo, iniziare subito a fare qualche cosa. Smettere di consumare 8 litri d'acqua potabile ogni volta che ci si lava i denti. Impedire agli imbecilli di lavarsi l'automobile tutte le settimane consumando centinaia di litri di acqua potabile. Impedire ai ricchi di riempirsi la piscina personale con 50-100 metri cubi di acqua potabile, cioè 50.000-100.000 litri per volta: possono usare le piscine pubbliche, non c'è pericolo di contagio.
L'acqua è una risorsa straordinariamente preziosa, e noi ce ne fottiamo. Come di tutto il resto, peraltro. Stanchi di pensare, ci siamo già rassegnati a respirare un'aria infame, a mangiare porcate cancerogene, a passare il nostro tempo migliore in auto.
Siamo ammalati, o destinati ad ammalarci.
Infelici, aggressivi, fottuti.
Competitivi anzichè solidali, ringhiosi anzichè sorridenti.
Senza futuro, perchè facciamo lavori idioti che servono ed hanno senso solo in una società senza senso: se d'improvviso rimanessimo senza corrente elettrica, senza supermercati e senza lavoro, non sapremmo più sopravvivere, schiavi come siamo del nostro insensato "modello di sviluppo".
Siamo decadenti, cretini, fatui: basta confrontarsi con i popoli dell'est Europa o con quelli africani ed asiatici per capire quanto siamo ormai privi di forza vitale.
Basterebbe guardare per cinque minuti la realtà, se il cervello ci servisse e funzionasse ancora, per mettere in moto una colossale rivoluzione: dovremmo dire basta a tutto, e ripartire da capo.
Spegnere gli oggetti che ci schiavizzano, usare i piedi, le mani, il corpo: tacere a lungo, annusare, riprendere il controllo di sè. Capire, agire, muoversi, ribellarsi a questo spreco che è diventato il nostro modo di vivere.
Sogno una rivoluzione di silenzio, perchè tanto le parole che ci scambiamo sono solo rumore. Non veicolano più nulla al di fuori di superficiali stati d'animo.
Bisognerebbe stare zitti, per ascoltare il grido che ci viene da dentro.
Ma non ne siamo più in grado. Continuiamo così, alla deriva. A consumare, sprecare risorse senza motivo.
Ad aspettare passivi la prossima guerra, il prossimo disastro, il prossimo gioco che il potere - un potere trasversale, assoluto, globale, al di là delle finzioni e dei teatrini nazionali - deciderà di riservarci.

giovedì, marzo 15, 2007

La cosa più ridicola della giornata...

...è sentire il direttore de "Il Giornale", Belpietro, parlare di "deontologia professionale".

In breve: i giornali ieri hanno pubblicato alcune intercettazioni telefoniche tra due tristi figuri che usano le foto per ricattare persone famose. In queste intercettazioni, che fanno venire il voltastomaco, uno dei due dice all'altro che ha delle splendide foto di un personaggio importante della politica mentre in auto passa in rassegna una sfilata di transessuali.
Al "deontologo" Belpietro, in questa fanghiglia nauseabonda in cui evidentemente si trova perfettamente a proprio agio, non è parso vero di poter pubblicare - in assoluta solitudine, per fortuna - il nome dello sventurato.

La seconda cosa più ridicola della giornata, relativa allo stesso putridume, è la dichiarazione di Barbara Berlusconi, il cui famoso papi versò alcune decine di migliaia di euro ai ricattatori per evitare la diffusione di alcune foto della figlia durante una serata di sacrosanti affaracci suoi.
La emerita figlia afferma che il papi comprò le foto non perchè fossero "compromettenti", ma esclusivamente perchè erano BRUTTE. Sti cazzi!!!

mercoledì, marzo 14, 2007

Irene e le rose (un racconto) - versione 2.0

Reenginering del racconto di qualche giorno fa. Con finale cambiato (non piaceva quasi a nessuno:-))).

Irene e le rose.

Era una caldissima mattina di luglio del 2022, quando Irene finalmente decise di trasferirsi nella piccola casa in collina che un tempo era appartenuta ai suoi nonni.

Lasciare la città in cui era vissuta sin da bambina non sarebbe stato facile, ma – finita l’università – Irene là non aveva più nessuno.

I suoi genitori erano tornati da tempo al paese di origine, ed i suoi amici erano andati via da mesi: da quando fu chiaro che la situazione, nonostante le assicurazioni del Governo, non sarebbe più migliorata.

Là, nel modesto appartamento del quartiere in cui era nata, Irene non sopportava più il silenzio delle lunghe giornate afose, rotte solo dagli altoparlanti montati sulle auto della polizia.

Percorrendo a bassa velocità le strade deserte del quartiere, quelle voci ricordavano ai cittadini che le razioni di acqua venivano distribuite solo una volta al giorno presso i punti di raccolta, e che la corrente elettrica ci sarebbe stata solo di notte, per poche ore.

Irene finì di preparare la valigia, con pochi abiti leggeri e qualche libro. Guardò l’ora, calcolando che per prendere l’autobus che l’avrebbe portata in collina c’era ancora una discreta quantità di tempo. Si sedette al tavolo della cucina, sfogliando distrattamente il quotidiano acquistato poco prima.

Era leggero, e di carta di pessima qualità: a causa delle Grande Crisi Idrica il numero di pagine era stato drasticamente ridotto per decreto, per risparmiare energia. In prima pagina era evidenziato, come ogni giorno, il riepilogo delle severissime misure prese dal Governo per fronteggiare la Crisi: il razionamento dell’acqua potabile, la proibizione di tutti gli usi diversi dall’agricoltura e dal consumo umano.

Una foto sgranata mostrava il panorama della pianura padana, ormai un’immensa piana desolata, arida, con l’orizzonte sfocato da nuvole di polvere ocra. Irene la guardò distrattamente, perché a quel paesaggio si era abituata nel corso degli ultimi anni, guardandolo dalla finestra della casa in collina durante le estati passate a studiare.

Viste dall’alto, solo le coltivazioni e gli allevamenti splendevano di un verde intenso, ma si trattava ormai di piccole macchie cromatiche, in un deserto di prati ingialliti e fiumi ridotti a esili fili argentei.

Anche il Po, poco a poco, era praticamente scomparso. Irene sorvolò distrattamente con gli occhi un articolo che raccontava delle decine di tendopoli sorte nel letto del fiume: erano centinaia coloro che speravano di sfuggire alla fame coltivando qualsiasi cosa nascesse vicino alle poche, residue pozze putride di quello che un tempo era considerato un Grande Fiume.

Irene guardò l’orologio a muro: ancora dieci minuti, poi avrebbe abbandonato per sempre quelle stanze, quel tavolo di legno su cui aveva preparato, china, un incredibile numero di esami. Appallottolò il giornale gettandolo nel cestino dell’immondizia, finì lentamente di vestirsi e uscì, chiudendosi per sempre quella porta alle spalle.

*

L’autobus uscì lento dalla città, ed imboccò la strada ai piedi della collina, da cui si vedeva in distanza la pianura arrossata dalle polveri e dai fumi di carbone: ai bordi delle poche coltivazioni rimaste risaltavano gli scintillii delle recinzioni di filo spinato e delle garitte da cui l’esercito sorvegliava ed impediva alle popolazioni assetate di avvicinarsi agli impianti di irrigazione.

Irene volse lo sguardo fuori dal finestrino, e guardò in lontananza, oltre l’orizzonte offuscato, le montagne senza neve.

Le ultime precipitazioni nevose si erano verificate oltre dieci anni prima, poi tutto era stato abbandonato: i paesi, le località turistiche, gli impianti di risalita restavano immobili e deserti a testimonianza di un tempo che non sarebbe più tornato.

La gente era fuggita dapprima in città, dove molti avevano iniziato a vivere sotto i ponti cercando umidità e riparo dal calore asfissiante. Ma quando anche in città i controlli del Governo sull’uso dell’acqua si fecero strettissimi, ed i primi sciacalli -che scavavano danneggiando le tubature dell’acquedotto per rubare il prezioso liquido e rivenderlo al mercato nero- furono uccisi dalle Forze dell’Ordine, molte famiglie decisero che l’unica speranza di sopravvivenza fossero i boschi delle colline intorno alla metropoli.

Si attendarono in molti, allora, sotto i faggi ed i castagni, ritornando ad una vita primordiale, vivendo di frutti di bosco e di baratti , ricevendo acqua e viveri dalle popolazioni locali che ancora disponevano di pozzi non esauriti. In cambio davano quel poco di prezioso che avevano salvato dalla fuga – gioielli, denaro – o si offrivano, finito questo e nella maggior parte dei casi, come forza lavoro disperata e sfruttata.

Irene aveva la fortuna di avere ancora un luogo dove andare, e tra pochi minuti sarebbe scesa nella piazza del piccolo paese in cui, d’estate, passava le vacanze: ora sarebbe stato il suo rifugio.

*

Scese in piazza, quando l’autobus si fermò cigolando ed aprì le porte: era passato da poco mezzogiorno, ed il caldo era anche lì intollerabile. La sua attenzione fu attratta da un manifesto rosso appeso al muro: il Sindaco invitava i paesani alla vigilanza, ed a chiudersi in casa di notte.

La collina, si leggeva, era popolata di sbandati e di persone poco raccomandabili che vivevano alla macchia. La gente aveva paura, soprattutto dei profughi che giungevano dalla Russia: nel 2015 gli Stati Uniti d’America l’avevano invasa per assicurarsi le immense risorse idriche del paese, anticipando di poco un analogo piano di occupazione da parte di India e Cina.

L’Unione Europea non si schierò con nessuno dei contendenti, ma il suo territorio fu invaso da centinaia di migliaia di profughi russi.

*

La casa era a poche centinaia di metri dalla piazza.

Irene la raggiunse quasi correndo, aprì sferragliando la porta di ingresso con la grande chiave lasciatale in eredità, ed entrò aspirando a pieni polmoni il familiare odore delle vecchie mura, che la difendevano dalla calura esterna. Aprì una delle imposte e guardò fuori, sul giardino e sulla valle sottostante.

Il frutteto, il vecchio roseto e le ortensie, che i suoi nonni coltivavano, prima di morire, negli anni in cui non c’era ancora lo stato di emergenza, erano ormai morti e mummificati da tempo.

Da oltre cinque anni era assolutamente proibito usare l’acqua per scopi di giardinaggio. I vivai erano stati tutti chiusi, ad eccezione di pochi considerati di “interesse nazionale”, in cui si tentava di salvare dalla scomparsa – con uno specifico progetto governativo – le specie floreali e le piante originarie del paese. Qui, la coltivazione era ovviamente sorvegliata dalla polizia, come capitava per qualsiasi attività in cui l’acqua era disponibile in quantità normali – ed avrebbe quindi potuto attirare l’interesse delle popolazioni o della criminalità.

Lo sguardo di Irene spaziò da destra a sinistra, accarezzando quei colli amati.

La collina aveva quindi perso il suo aspetto vivace di molti decenni prima, ed erano scomparsi i vasi di gerani alle finestre, e dai giardini gli arbusti, le rose e le ortensie, gli orti, ed anche gli alberi da frutta non fiorivano più e seccavano in seguito alla lunga siccità. Anche se qualcosa fosse sopravvissuto, le leggi speciali della Grande Crisi Idrica impedivano severamente ogni forma di coltivazione autonoma ed individuale. Qualcuno lo faceva lo stesso, in clandestinità, nonostante le severe pene previste, per produrre qualche frutto stentato o qualche ortaggio rachitico – che aveva comunque un valore altissimo sul mercato nero.

*

Dal 2010 gli effetti dei cambiamenti climatici si erano fatti sempre più evidenti ed irreversibili, e la serie di inverni senza freddo e senza precipitazioni era continuata facendo capire che non si sarebbe trattato di episodi. I governi delle maggiori potenze mondiali (Stati Uniti, Unione Europea, Russia, Cina, India) si erano riuniti per giungere ad un accordo che stabilisse un battuta di arresto nelle attività che avevano influenza sul clima, ma senza successo. Le potenze occidentali non intendevano ridiscutere il tenore di vita delle proprie popolazioni, le potenze emergenti non intendevano fermare i propri piani di sviluppo.

La situazione delle risorse idriche divenne così critica che ogni governo europeo dovette varare delle leggi speciali. La scarsità di acqua dolce impose una sorta di economia di guerra, che ebbe riflessi immediati sull’attività industriale e sulla economia.

Si interruppe l’erogazione dell’acqua via rubinetto, ed ogni famiglia aveva diritto ad una quantità giornaliera di acqua – erogata con le autobotti nelle diverse località – sulla base del numero dei componenti e della loro età.

Le lunghe code nelle piazze, con le taniche in mano, divennero presto familiari, ed in molti casi la principale attività quotidiana di molti componenti delle famiglie.

La quantità di acqua disponibile era così ridotta che presto divenne impossibile tenere pulite le case, lavare bene i piatti e farsi il bagno: l’acqua veniva usata esclusivamente per calmare la sete.

L’acqua minerale, nei negozi, era diventata rarissima ed a prezzi proibitivi: un genere di lusso che veniva comprato dai pochi privilegiati quasi di nascosto, ed a rischio di rapina.

Le piscine all’aperto, in stato di abbandono, si erano trasformate in polverosi parchi giochi per i ragazzi.

*

Gli amici di Irene si erano dispersi tutti, nel corso degli anni. Molti di loro si erano trasferiti nel Nord Europa, dove il clima era diventato quasi mediterraneo. La Norvegia, ad esempio, aveva quasi raddoppiato la sua popolazione nel giro di pochi anni, anche grazie al fatto che la neve ed il gelo – in inverno – erano sempre più limitati a poche settimane di vero inverno.

Irene, in quella piccola casa in collina, custodiva da sempre un segreto: ed una delle prime cose che fece, dopo essere arrivata, fu di andare, con il cuore in gola, a riappropriarsene.

Nel piccolo giardino ormai in abbandono, tra il capanno degli attrezzi ed il muro che divideva la casa dal terreno del vicino, in uno spazio di un metro quadro illuminato di rado dal sole, era sopravvissuto – seminascosto, clandestino, sovversivo - un cespuglio di rose Alba.

Irene soffocò un grido di gioia, nonostante le condizioni del cespuglio.

Miracolosamente e misteriosamente sfuggito alla morte per sete, il cespuglio non era più cresciuto in altezza da anni, ma conservava la capacità di emettere ancora due o tre rose l’anno – bianche, a fiore semplice, dal profumo forte ed intenso – che spuntavano come gioielli tra il rado fogliame, spesso decimato dal mal bianco.

Irene amava quelle rose, le amava pazzamente: rappresentavano per lei la vita, la speranza, il ricordo di tutto quello che di bello, profumato e dolce c’era nel mondo – il suo mondo – prima della Crisi, della polvere, della scomparsa della vita e dei colori.

Per qualche tempo dopo l’inizio delle leggi speciali, Irene aveva con ogni cautela (se l’avessero vista, sarebbe stata arrestata ) utilizzato l’acqua di un vecchio, piccolo pozzo presente nel giardino.

Una volta ogni due o tre settimane, in estate, tirava su un secchio di acqua, ormai verde e salmastra, per diffonderlo amorevolmente attorno al colletto del vecchio cespuglio, attorno al quale aveva scavato una piccola fossetta circolare in cui concentrare le poche forme di energia – acqua salmastra, appunto, residui di foglie secche e polverose, qualche manciata di erba strappata per strada… - che ancora poteva fornire alla pianta.

Irene aveva paura: che qualcuno la scoprisse.

Che le Forze dell’Ordine sentissero quel profumo, che qualcuno gettasse passando uno sguardo di là dal muro e la tradisse. Che qualcuno la vedesse al pozzo, o peggio ancora nell’atto di versare l’acqua alla base del cespuglio.

Poi, il vecchio pozzo si asciugò irrimediabilmente.

Per qualche tempo, Irene condivise la propria razione d’acqua con le rose. Ma la sete era spaventosa, e spesso dalla sua tanica, appena dopo averla ritirata, Irene donava parte della sua razione a famiglie del paese con figli piccoli, ammalati e piangenti.

Per lei ne restava pochissima, ed anche metterne da parte a sufficienza per le rose, ed innaffiarle ogni due settimane, divenne presto impossibile.

Così, Irene fu costretta a fare quel che non avrebbe mai voluto fare.

In paese, tra la gente in coda, tutti sapevano che il vecchio Robelli vendeva acqua al mercato nero.

Disponeva di un pozzo di acqua dolce che attingeva da una falda non ancora estinta, e poi aveva certi legami con qualche potente che gli consentivano – diceva la gente – di avere persino l’acqua corrente in casa per qualche ora al giorno.

Robelli, un settantenne dal viso prosciugato dall’avidità che viveva in una grande casa poderale ai margini del paese, accettava in pagamento qualsiasi cosa: denaro, preziosi, gioielli, ma anche capi di vestiario, lenzuola, asciugamani.

Non disdegnava il baratto con qualche giornata di lavoro forzato – il taglio della legna, principalmente. Ma si sapeva, si sapeva che lo si poteva pagare anche con il proprio corpo.

Molte donne del paese lo avevano già fatto, per disperazione, e soprattutto lo facevano le cittadine sfollate in collina, sperando che con il ritorno alla normalità ed alle case, quando la Crisi fosse finita, tutto sarebbe stato dimenticato come un brutto incubo.

In una sera di quella lunga estate, dopo aver atteso il tramonto e osservato con apprensione il cespuglio sempre più sofferente, Irene partì, nel buio, e si recò a casa di Robelli.

Ignorò la persone che, fuori dalla casa, trattavano sommessamente con i dipendenti di Robelli – aveva dovuto assumere qualcuno per gestire i suoi traffici -, ignorò le loro occhiate sarcastiche e chiese di vedere il vecchio.

Due ore dopo, era di ritorno a casa con cinque litri d’acqua in tre bottiglie di plastica che nascose sotto la camicia. Aveva gli occhi colmi di lacrime ed il cuore in rivolta.

Lo scambio con Robelli era così insopportabile, per Irene, che tentò di evitarlo il più possibile. Ma vedere il cespuglio morire lentamente era una vista insopportabile, ed avrebbe fatto qualunque cosa – qualunque cosa – per evitarlo.

Le foglie cadevano inesorabilmente, una ad una, attaccate dalla malattia, ed alla fine dell’estate solo un’ultima, piccola rosa bianca stava per fiorire.

Irene la vide, nel giro di pochi giorni, sbocciare, rilasciare il suo delizioso profumo e poi, lentamente, ripiegare, abbandonarsi, sfiorire.

Quando l’ultimo petalo cadde a terra, Irene li raccolse delicatamente tra le mani: tuffò il suo viso in quel soffice profumo, lo inspirò a fondo ad occhi chiusi.

Capì d’un tratto, e irrimediabilmente, che il cespuglio aveva perso vita, speranza: che sarebbe stato, da quel momento, null’altro che un pezzo di legno contorto e morto.

Che tutto era finito.

Lasciò cadere i petali a terra, senza preoccuparsi – come aveva sempre fatto con estrema attenzione – di sotterrarli, per evitare che un refolo di vento potesse tradire l’esistenza delle rose ad occhi estranei.

Afferrò forte con le mani i rami nudi, sentì le spine morderle la carne, e il cuore sanguinare, e le lacrime roventi scivolare lungo la guance arrossate.

Stette lì, a lungo, immobile, ad aspettare che l’aria diventasse meno rovente, e il cielo rosso, ed infine stellato.

*

Poi, improvviso, si alzò il vento: un vento forte, impetuoso, selvaggio.

Strappo’ i petali caduti al suolo, li rialzò, li fece turbinare nella notte chiara.

Scompigliò i capelli di Irene, le sollevò la gonna fino a costringerla a muoversi.

Lei si alzò con difficoltà, e rivolse gli occhi verso il cielo, a guardare i petali bianchi che salivano a spirale, sempre più su.

Li vide passare, come uccelli, di fronte alla luna che si era fatta luminosa, immensa, spaventosamente vicina.

Irene sorrise: forse la speranza non era morta, non era scomparsa per sempre;aveva solo bisogno di trovare un nuovo luogo, una nuova casa, qualcuno – o qualcosa - che se ne prendesse cura.

Forse, semplicemente, non era più qualcosa che gli esseri umani potessero comprendere.

Quando l’ultimo petalo scomparve oltre la luna, il pianeta Terra, silenziosamente, esplose.

martedì, marzo 13, 2007

Dico: prima di parlare, siate coerenti!


Qualcuno afferma che chiunque vive l'affettività a modo suo, al di fuori della famiglia "canonica", esercita un diritto che mina alla base l'esistenza delle famiglie regolari.
E' un modo di ragionare assai bizzarro (come se quelli che preferiscono il risotto alla pastasciutta fossero nemici giurati degli spaghetti alla carbonara e volessero impedire a chiunque di mangiarli): ma se lo prendiamo per buono, appare evidente a tutti che i peggiori nemici della famiglia sono gli esponenti della Chiesa Cattolica.
Questi signori con sai, zuccotti e tonache rifiutano di sposarsi, rifiutano di procreare, rifiutano insomma di mettere in pratica gli stessi dogmi che vogliono imporre agli altri.
Una vecchia battuta di Daniele Luttazzi al riguardo diceva più o meno: "come fa a fare l'arbitro uno che non ha mai giocato a calcio?".
Diventate concreti alfieri di quella "famiglia" che neppure voi volete, e poi forse ne riparliamo.
Per adesso, avete la stessa credibilità di un baro che protesta perchè sta perdendo a poker.

lunedì, marzo 05, 2007

Macelleria occidentale in Afganistan

"Stamane un raid aereo nella Nato, ieri la rappresaglia americana dopo un attacco suicida dei talebani: venti civili morti in Afghanistan tra le macerie delle loro case e per le strade, vittime di un conflitto strisciante che si fa sempre più aspro. Le violenze hanno scatenato nel Paese dure proteste anti-Usa." (Il Sole 24 ore, 5 marzo 2007)

Si, ma mica stiamo lì a sentirle, le proteste.
Capita di sbagliare, no? Chi non fa, non falla. Noi Occidente siam lì a...garantire la sicurezza, può succedere che si ammazzino per sbaglio o per vendetta famiglie con bambini.
Chiedere scusa? Inorridire? Cambiare? No, guardate: non è proprio nel nostro stile.

venerdì, marzo 02, 2007

Irene e le rose (un racconto)

Nell’estate del 2022 la Grande Crisi Idrica aveva raggiunto il culmine, ed il Governo non potè fare altro che imporre misure severissime – dal razionamento alla proibizione di tutti gli usi diversi dall’agricoltura e dal consumo umano.

Era stata razionata anche la distribuzione dell’energia elettrica, erogata solo per poche ore durante la notte, poiché la grandi centrali elettriche della pianura non disponevano più dell’acqua dei fiumi per il raffreddamento.

Il panorama della Pianura Padana era ormai una immensa desolazione arida, polverosa e ocra. Viste dall’alto, solo le coltivazioni e gli allevamenti splendevano di un verde intenso, ma si trattava ormai di piccole macchie cromatiche, in un deserto di prati ingialliti e fiumi ridotti a esili fili argentei.

Anche il Po era praticamente scomparso, anche se sulle sue rive erano sorte decine di tendopoli erette nella speranza di rubare, alle poche pozze putride, l’energia necessaria per qualche coltivazione che consentisse di sfuggire alla fame.

Ai bordi di queste macchie verdi risaltavano gli scintillii delle recinzioni di filo spinato e delle garitte da cui l’esercito sorvegliava ed impediva alle popolazioni assetate di avvicinarsi agli impianti di irrigazione.

Guardando l’orizzonte, offuscato dalle polveri sottili, si vedevano ergersi le montagne senza neve.

Le ultime precipitazioni nevose si erano verificate oltre dieci anni prima, poi tutto era stato abbandonato: i paesi, le località turistiche, gli impianti di risalita restavano immobili e deserti a testimonianza di un tempo che non sarebbe più tornato.

La gente era fuggita dapprima in città, dove molti vivevano sotto i ponti cercando umidità e riparo dal calore asfissiante. Ma quando anche in città i controlli del Governo sull’uso dell’acqua si fecero strettissimi, ed i primi sciacalli -che scavavano danneggiando le tubature dell’acquedotto per rubare il prezioso liquido e rivenderlo al mercato nero- furono uccisi dalle Forze dell’Ordine, molte famiglie decisero che l’unica speranza di sopravvivenza fossero i boschi delle colline intorno alla metropoli.

Si attendarono in molti, allora, sotto i faggi ed i castagni, ritornando ad una vita primordiale, vivendo di frutti di bosco e di baratti , ricevendo acqua e viveri dalle popolazioni locali che ancora disponevano di pozzi non esauriti. In cambio davano quel poco di prezioso che avevano salvato dalla fuga – gioielli, denaro – o si offrivano, finito questo e nella maggior parte dei casi, come forza lavoro disperata e sfruttata.

Irene aveva conservato in collina la piccola casa appartenuta ai suoi nonni, e quando la situazione si era fatta drammatica aveva abbandonato la città per trasferirsi lì. Il frutteto, il vecchio roseto e le ortensie, che sua madre coltivava negli anni in cui non c’era ancora lo stato di emergenza, erano ormai morti e mummificati da tempo: da oltre cinque anni era assolutamente proibito usare l’acqua per scopi di giardinaggio. I vivai erano stati tutti chiusi, ad eccezione di pochi considerati di “interesse nazionale”, in cui si tentava di salvare dalla scomparsa – con uno specifico progetto governativo – le specie floreali e le piante originarie del paese. Qui, la coltivazione era ovviamente sorvegliata dalla polizia, come capitava per qualsiasi attività in cui l’acqua era disponibile in quantità normali – ed avrebbe quindi potuto attirare l’interesse delle popolazioni o della criminalità.

La collina aveva quindi perso il suo aspetto vivace di molti decenni prima, ed erano scomparsi i vasi di gerani alle finestre, e dai giardini gli arbusti, le rose e le ortensie, gli orti, ed anche gli alberi da frutta non fiorivano più e seccavano in seguito alla lunga siccità. Anche se qualcosa fosse sopravvissuto, le leggi speciali della Grande Crisi Idrica impedivano severamente ogni forma di coltivazione autonoma ed individuale. Qualcuno lo faceva lo stesso, in clandestinità, nonostante le severe pene previste, per produrre qualche frutto stentato o qualche ortaggio rachitico – che aveva comunque un valore altissimo sul mercato nero.

Irene si era appena laureata in scienze della comunicazione. Non aveva un fidanzato, ma molti amici con cui aveva condiviso una lunga battaglia, da quando frequentava il liceo, per sensibilizzare il mondo sulla necessità di cambiare stili di vita.

Dal 2010 gli effetti dei cambiamenti climatici si erano fatti sempre più evidenti ed irreversibili, e la serie di inverni senza freddo e senza precipitazioni era continuata facendo capire che non si sarebbe trattato di episodi. I governi delle maggiori potenze mondiali (Stati Uniti, Unione Europea, Russia, Cina, India) si erano riuniti per giungere ad un accordo che stabilisse un battuta di arresto nelle attività che avevano influenza sul clima, ma senza successo. Le potenze occidentali non intendevano ridiscutere il tenore di vita delle proprie popolazioni, le potenze emergenti non intendevano fermare i propri piani di sviluppo.

La situazione peggiorò quando, nel gennaio 2015, gli Stati Uniti d’America invasero la Russia per assicurarsi il controllo delle sue ancora notevoli risorse idriche, anticipando di poco un analogo piano di invasione congiunto predisposto da Cina e India.

L’Unione Europea non si schierò con nessuno dei contendenti, ma il suo territorio fu invaso da centinaia di migliaia di profughi russi.

La situazione delle risorse idriche divenne così critica che ogni governo europeo dovette varare delle leggi speciali. La scarsità di acqua dolce impose una sorta di economia di guerra, che ebbe riflessi immediati sull’attività industriale e sulla economia.

Si interruppe l’erogazione dell’acqua via rubinetto, ed ogni famiglia aveva diritto ad una quantità giornaliera di acqua – erogata con le autobotti nelle diverse località – sulla base del numero dei componenti e della loro età.

Le lunghe code nelle piazze, con le taniche in mano, divennero presto familiari, ed in molti casi la principale attività quotidiana di molti componenti delle famiglie.

La quantità di acqua disponibile era così ridotta che presto divenne impossibile tenere pulite le case, lavare bene i piatti e farsi il bagno: l’acqua veniva usata esclusivamente per calmare la sete.

L’acqua minerale, nei negozi, era diventata rarissima ed a prezzi proibitivi: un genere di lusso che veniva comprato dai pochi privilegiati quasi di nascosto, ed a rischio di rapina.

Le piscine all’aperto, in stato di abbandono, si erano trasformate in polverosi parchi giochi per i ragazzi.

Gli amici di Irene si erano dispersi tutti, nel corso degli anni. Molti di loro si erano trasferiti nel Nord Europa, dove il clima era diventato quasi mediterraneo. La Norvegia, ad esempio, aveva quasi raddoppiato la sua popolazione nel giro di pochi anni, anche grazie al fatto che la neve ed il gelo – in inverno – erano sempre più limitati a poche settimane di vero inverno.

Irene, nella sua casa in collina, aveva un segreto.

Nel piccolo giardino ormai in abbandono, tra il capanno degli attrezzi ed il muro che divideva la casa dal terreno del vicino, in uno spazio di un metro quadro illuminato di rado dal sole, era sopravvissuto – seminascosto, clandestino, sovversivo - un cespuglio di rose Alba.

Miracolosamente e misteriosamente sfuggito alla morte per sete, il cespuglio non era più cresciuto in altezza da anni, ma conservava la capacità di emettere ancora due o tre rose l’anno – bianche, a fiore semplice, dal profumo forte ed intenso – che spuntavano come gioielli tra il rado fogliame, spesso decimato dal mal bianco.

Irene amava quelle rose, le amava pazzamente: rappresentavano per lei la vita, la speranza, il ricordo di tutto quello che di bello, profumato e dolce c’era nel mondo – il suo mondo – prima della Crisi, della polvere, della scomparsa della vita e dei colori.

Per qualche tempo dopo l’inizio delle leggi speciali, Irene aveva con ogni cautela (se l’avessero vista, sarebbe stata arrestata ) utilizzato l’acqua di un vecchio, piccolo pozzo presente nel giardino.

Una volta ogni due o tre settimane, in estate, tirava su un secchio di acqua, ormai verde e salmastra, per diffonderlo amorevolmente attorno al colletto del vecchio cespuglio, attorno al quale aveva scavato una piccola fossetta circolare in cui concentrare le poche forme di energia – acqua salmastra, appunto, residui di foglie secche e polverose, qualche manciata di erba strappata per strada… - che ancora poteva fornire alla pianta.

Irene aveva paura: che qualcuno la scoprisse.

Che le Forze dell’Ordine sentissero quel profumo, che qualcuno gettasse passando uno sguardo di là dal muro e la tradisse. Che qualcuno la vedesse al pozzo, o peggio ancora nell’atto di versare l’acqua alla base del cespuglio.

Poi, il vecchio pozzo si asciugò irrimediabilmente.

Per qualche tempo, Irene condivise la propria razione d’acqua con le rose. Ma la sete era spaventosa, e spesso dalla sua tanica, appena dopo averla ritirata, Irene donava parte della sua razione a famiglie del paese con figli piccoli, ammalati e piangenti.

Per lei ne restava pochissima, ed anche metterne da parte a sufficienza per le rose, ed innaffiarle ogni due settimane, divenne presto impossibile.

Così, Irene fu costretta a fare quel che non avrebbe mai voluto fare.

In paese, tra la gente in coda, tutti sapevano che il vecchio Robelli vendeva acqua al mercato nero.

Disponeva di un pozzo di acqua dolce che attingeva da una falda non ancora estinta, e poi aveva certi legami con qualche potente che gli consentivano – diceva la gente – di avere persino l’acqua corrente in casa per qualche ora al giorno.

Robelli, un settantenne dal viso prosciugato dall’avidità che viveva in una grande casa poderale ai margini del paese, accettava in pagamento qualsiasi cosa: denaro, preziosi, gioielli, ma anche capi di vestiario, lenzuola, asciugamani.

Non disdegnava il baratto con qualche giornata di lavoro forzato – il taglio della legna, principalmente. Ma si sapeva, si sapeva che lo si poteva pagare anche con il proprio corpo.

Molte donne del paese lo avevano già fatto, per disperazione, e soprattutto lo facevano le cittadine sfollate in collina, sperando che con il ritorno alla normalità ed alle case, quando la Crisi fosse finita, tutto sarebbe stato dimenticato come un brutto incubo.

In una sera di quella lunga estate, dopo aver atteso il tramonto e osservato con apprensione il cespuglio sempre più sofferente, Irene partì, nel buio, e si recò a casa di Robelli.

Ignorò la persone che, fuori dalla casa, trattavano sommessamente con i dipendenti di Robelli – aveva dovuto assumere qualcuno per gestire i suoi traffici -, ignorò le loro occhiate sarcastiche e chiese di vedere il vecchio.

Due ore dopo, era di ritorno a casa con cinque litri d’acqua in tre bottiglie di plastica che nascose sotto la camicia. Aveva gli occhi colmi di lacrime ed il cuore in rivolta.

Lo scambio con Robelli era così insopportabile, per Irene, che tentò di evitarlo il più possibile. Ma vedere il cespuglio morire lentamente era una vista insopportabile, ed avrebbe fatto qualunque cosa – qualunque cosa – per evitarlo.

Le foglie cadevano inesorabilmente, una ad una, attaccate dalla malattia, ed alla fine dell’estate solo un’ultima, piccola rosa bianca stava per fiorire.

Irene la vide, nel giro di pochi giorni, sbocciare, rilasciare il suo delizioso profumo e poi, lentamente, ripiegare, abbandonarsi, sfiorire.

Quando l’ultimo petalo cadde a terra, Irene li raccolse delicatamente tra le mani: tuffò il suo viso in quel soffice profumo, lo inspirò a fondo ad occhi chiusi.

Capì d’un tratto, e irrimediabilmente, che il cespuglio aveva perso vita, speranza: che sarebbe stato, da quel momento, null’altro che un pezzo di legno contorto e morto.

Che tutto era finito.

Lasciò cadere i petali a terra, senza preoccuparsi – come aveva sempre fatto con estrema attenzione – di sotterrarli, per evitare che un refolo di vento potesse tradire l’esistenza delle rose ad occhi estranei.

Afferrò forte con le mani i rami nudi, sentì le spine morderle la carne, e il cuore sanguinare, e le lacrime roventi scivolare lungo la guance arrossate.

Stette lì, a lungo, immobile, ad aspettare che l’aria diventasse meno rovente, e il cielo rosso, ed infine stellato.

Poi si alzò, entrò in casa. Si curò le ferite. Prese dal cassetto della credenza un lungo coltello affilato, che nascose con cura tra le pieghe interne della gonna.

E infine uscì, dirigendosi – per l’ultima volta – verso l’abbraccio disgustoso di Robelli.

(fine)

giovedì, marzo 01, 2007

Sanremo

Ci casco tutti gli anni, ahimè.
Arriva il festival di Sanremo, ed ogni anno io sono gioiosamente indifferente. Anzi, con quel pizzico di indignazione dovuti agli assurdi compensi corrisposti alle star. E con un atteggiamento irridente quando leggo chi canterà: Albano, Milva, Johnny Dorelli. Me li ricordo da piccolo, e ci sono ancora.

Poi, passano i giorni e la quantità di gossip, di stronzate, di facezie relative al Festival iniziano a contaminarmi, ed a trasmettermi una curiosità morbosa, insana.

E così, finisce sempre che me ne guardo una serata.
E non capisco. Non capisco come facciamo, noi occidentali evoluti e colti, a passare ore davanti ad una cagata del genere.
Già Pippo Baudo mi fa senso con quei capelli che partono a metà del cranio: mi inquieta, è orribile.
La Hunziker è bellissima e simpatica, indubbiamente, ma poi inizia pure lei con le battute da parrocchietta sul sesso, che in quel contesto (e con Baudo al posto di Bisio) fanno solo tristezza.
Vabbè, son dettagli, mi dico, vediamo la musica.
Prima entra Paolo Meneguzzi, un tizio inutile come le canzoni che canta: da anni si ostina a fare il giovane e a venire a Sanremo, ed ogni volta mi chiedo chi diavolo lo ascolti, chi diavolo lo produca e persino chi diavolo possa andarlo a vedere dal vivo, visto che il Nostro non si risparmia generose tourneè live in provincia.
Dopo un po' arrivano gli Stadio, che solitamente a me piacciono molto per testi e mestiere: eppure qui persino Curreri riesce a perdersi in una esibizione opaca e afona che mette tristezza.
Poi, Marcella Bella riesumata di fresco con suo fratello: stessa voce di sempre, stesso look da bonazza mediterranea.
E dopo questo sono già ipnotizzato e stufo, ma non riesco a smettere: e mi cucco una Tosca che urlazza come Gabriella Ferri, un insegnante di chitarra che presenta una canzone scout finto scandalosa, un giovane tamarro che presenta un rap antimafia, una borgatara bionda e commossa che tenta di imitare Giorgia.
Un Albano imbolsito e senza la voce di un tempo, un gruppo che Fa Schifo Completamente, anche se afferma di suonare con Battiato, un Johnny Dorelli con la voce di un tempo ma l'impossibilità fisica di cantare per più di due secondi di fila senza una lunga pausa.

Una desolazione senza fine, in cui forse brillano soltanto Ficarra e Picone in uno stacchetto serio ed anche commovente che ricorda Don Pino Puglisi, e soprattutto ricorda che la vita è fuori da lì.
Per fortuna.