giovedì, febbraio 11, 2016

Cracovia

A metà gennaio abbiamo trascorso qualche giorno a Cracovia, con una bella compagnia di amici.
Per me era la terza volta (la prima nel 2005, la seconda nel 2009), ed ha coinciso con la terza volta che ho visitato Auschwitz I e la seconda in cui ho visto (molto velocemente, ahimè) Auschwitz II- Birkenau (i due campi si trovano ad una sessantina di km da Cracovia).
La sinistra silhouette di Birkenau al tramonto
Cracovia, che fu la prima capitale storica del regno polacco, è una città bella ed elegante.
Ha una zona elevata, affacciata sul fiume Vistola,  su cui sorge il cosiddetto "castello":

poi, una zona storica a livello del fiume il cui centro è la splendida, ampia Piazza del Mercato.
Infine, cinto da un'ansa della Vistola,  Kazimierz, l'antico villaggio poi inglobato nella città, che divenne noto come "quartiere ebraico".

All'inizio della seconda guerra mondiale, il quartiere ospitava 68.000 ebrei; scesero a 5000 (per motivi tragicamente noti) dopo la fine della guerra: oggi, la comunità ebraica di Cracovia è di sole 150 persone.
Quando i nazisti presero la città, decisero di sradicare la comunità ebraica, e crearono un Ghetto al di là del fiume per controllarlo meglio.
In quello che divenne il ghetto, prima vivevano meno di 4000 polacchi, che presero possesso delle case degli ebrei a Kazimierz, mentre nel quartiere vennero stipati, in condizioni immaginabili, più di 15,000 ebrei (gli altri furono costretti ad andarsene dalla città).
Il quartiere fu cinto da un "muro" costruito con lastre simili alle pietre tombali di un cimitero ebraico. Il messaggio era tragico ed esplicito: siete tutti morti. Infatti, nel 1943 giunse la "liquidazione" del ghetto, ed i suoi abitanti furono divisi tra un campo di lavoro ed il campo di sterminio di Birkenau.

I muri dell'ex Ghetto di Cracovia con la lapide commemorativa.
La piazza centrale dell'ex Ghetto è oggi dedicata agli eroi del ghetto, ed ospita una installazione artistica che, con 68 sedie, ricorda i 68.000 ebrei di Cracovia ed un episodio accaduto il giorno della liquidazione del ghetto.
In un angolo della piazza sorgeva la Farmacia dell'Aquila, dove il farmacista polacco Tadeusz Pankiewicz rimase, con i suoi collaboratori, ad aiutare gli ebrei, guadagnandosi il titolo di "Giusto delle Nazioni" come il concittadino Oskar Schindler. (Ora, sia la farmacia di Pankiewicz che la fabbrica di Schindler, non molto distante dal Ghetto, sono musei. A Kazimierz, inoltre. è possibile vedere l'edificio in cui Spielberg girò le scene della liquidazione del ghetto).

Un posto splendido, a Cracovia, è la Università Jagellonica, la più antica del paese (fondata nel 1364 dal re Casimiro il Grande, il cui nome riecheggia in quello del quartiere di Kazimierz).
La sua splendida sede ricorda una piccola Hogwarts:-): splendide le sale, i refettori, i luoghi dove si riunivano e si riuniscono rettori e professori - con le lunghe file di ritratti alle pareti.
E ' tradizione, per i polacchi illustri che hanno frequentato l'Università (che annovera tra i suoi studenti e docenti Copernico, Wisława Szymborska, Wojtila e Zanussi), o che semplicemente ne riconoscono l'importanza, lasciare qualche "memorabilia" di grande valore.
E' il caso, ad esempio, di Andrzej Wajda, che pur non avendo studiato qui ha lasciato all'Università i prestigiosi premi vinti nella sua fulgida carriera (l'Oscar, un Leone d'Oro, una Palma d'Oro ed un Orso d'Oro), o di Wisława Szymborska che ha donato la medaglia d'oro consegnatale in occasione del ricevimento del Premio Nobel per la Letteratura nel 1996.
I premi vinti dal regista Andrzej Wajda
Cracovia offre dunque molti motivi di visita (tra cui le vicine miniere di sale), di riflessione e di piacere.
Ci si cammina con piacere, si mangia bene, si beve dell'ottima birra.
E si raggiunge da Orio al Serio, con RyanAir, in un'ora e mezza circa, spendendo solo 50 euro andata e ritorno. (gennaio 2016).
Pensateci, se avete qualche giorno libero e volete passarlo in modo interessante.



mercoledì, febbraio 03, 2016

Un nord est che sembra un far west...

Il sindaco di un paesino della bassa veneta, rozzo e volgare, con una specie di Lady Macbeth come moglie, elimina tutti gli avversari che si pongono sulla sua strada verso la carica di "Assessore agli Sghei" e poi Unico della Regione Serenissima, e al culmine del suo delirio di onnipotenza invaderà la regione vicina. Processato da una giudice assai ricattabile, rimarrà clamorosamente impunito.
La trama di questa commedia è assai leggera, al limite della inconsistenza. Il personaggio di Toni Sartana è ringhioso e irascibile (spesso al limite della stucchevolezza), e molte volte sembra un Cetto Laqualunque in salsa rovigotta.



Sinceramente, nel primo tempo non ho riso granché.

La parodia di questo Veneto infetto e senza valori, molto simile a quello raccontato da Massimo Carlotto (ma anche alla realtà: non dimentichiamo, ai suoi esordi, le cattive compagnie di ultrà neonazisti a cui si accompagnava Flavio Tosi), risulta un po' troppo facilona e semplicistica.

Nel secondo tempo le cose migliorano: rassegnato al fatto che lo spettacolo è quello che è, uno inizia a godersi le battute e la bravura di tutta la compagnia, lasciando da parte le aspettative.

E paradossalmente, la parte più divertente arriva a sipario chiuso, quando Balasso torna sul palco a presentare i singoli attori e a dare utili indicazioni su come rivederli in giro da queste parti.
Opera meritoria, perchè - come dice Balasso - il fatto che quelli che fanno televisione vanno a far teatro, non deve far dimenticare che nel teatro ci sono già gli altri, quelli che lo fanno normalmente:-)
Qui Balasso, liberato dalla costrizione della narrazione e della regia, si rivela il mostro di bravura e di improvvisazione che è, impazza e strapazza, e le risate diventano ovazioni.

Tutti gli attori che lo accompagnano (la moglie, Francesca Botti, l'ultrà nazi del Rovigo, Andrea Pennacchi, la improbabile PR Marta Dalla Via, nonchè Silvia Piovani e Stefano Scandaletti) meritano senza dubbio un applauso convinto.

"La cativissima" è alle Fonderie Limone di Moncalieri (TO) fino al 7 febbraio.

http://www.teatrostabiletorino.it/portfolio-items/la-cattivissima-balasso/



lunedì, febbraio 01, 2016

Il mio Iran/3

Yazd è una città antica, ed il suo centro storico interamente fatto di Adobe (paglia e argilla) ricorda il colore del deserto che la accerchia. Le due cose più belle da fare a Yazd sono perdersi nei vicoli e salire sui tetti per vedere la città vecchia dall’alto. Entrambe le cose vanno fatte al tramonto, quando l’argilla dei muri e delle case si tinge di rosso, e i minareti delle due moschee principali si accendono di verde e di azzurro.

I vicoli sono autentici labirinti. Spesso si incontrano vertiginose scalinate che sembrano scendere agli inferi, e conducono ai condotti di irrigazione, i qanat, che portavano l’acqua per decine di chilometri sotto il deserto e sotto le città. I costruttori di qanat di Yazd erano considerati i migliori in tutto l’Iran: questa capacità è documentata nel museo dell’acqua della città, ma anche in alcuni luoghi dove si può scendere a vedere dal vivo i canali che passano sotto la città.
Dai tetti, invece, il panorama è dominato da una serie infinita di torri del vento, con le quali si garantiva la climatizzazione in modo naturale ed a costo energetico zero in una città dal clima torrido in estate.

Se gironzolate un po’, la sera, troverete di certo un locale che vi permetterà di mangiare e bere qualcosa (di analcolico, eh!) con tavolini sui tetti. Non perdete l’occasione. Noi abbiamo trovato una galleria d’arte, gestita da alcuni ragazzi, che univa l’esposizione delle opere alla preparazione di cibo iraniano fatto in casa, inclusi i deliziosi biscotti di Yazd. Eravamo soli su questo tetto, a godere il panorama e a mangiare piccole cose deliziose, con il clima mite di questo ottobre iraniano: ed è stato uno dei molti momenti memorabili di questa vacanza.
Ottobre è il tempo dell’ashura, la festa in cui si ricorda il martirio dell’imam Husseini durante la battaglia di Kerbala, che segnò la definitiva frattura, nell’Islam, tra sunniti — cioè seguaci della tradizione — e sciiti — cioè “frazionisti”. Sono passati circa 1200 anni, da allora, e nessuno probabilmente è nemmeno più in grado di raccontare per quale diavolo di motivo reale le due fazioni si siano divise. Comunque da allora si detestano (è nota la forte inimicizia storica tra l’Arabia Saudita sunnita e l’Iran sciita, che episodi come la recente strage di pellegrini alla Mecca non ha fatto che acuire), anche se le differenze vengono volutamente sottolineate rispetto ai punti di contatto tra le due interpretazioni.
L’ashura, dunque, è una festa sciita che dura diverse settimane: le moschee vengono addobbate, nelle città appositi botteghini vendono materiale di colore verde e nero da usare nelle manifestazioni e nei cortei che percorrono le strade, con cavalli e cammelli. Molti, per ricordare il sacrificio dell’Imam, simulano la flagellazione — quella reale è stata proibita per le troppe ferite che provocava.