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martedì, maggio 10, 2016

Another TED in the city...


E dopo Verona, Torino. Anzi, l'Università di Torino.

L'edizione del TEDx del 7 maggio, nello splendido campus Einaudi, non ha avuto la magnificenza organizzativa di TEDxVerona: ma per essere la prima edizione, è stata una gran bella storia:-)

Il tema era "Internet of People": ovvero come usare i nuovi strumenti allo scopo di creare nuove connessioni tra le persone.
Con alcuni esempi pratici: Boosta dei Subsonica, per l'occasione, ha lanciato nelle settimane precedenti un piccolo appello a musicisti (e non) per farsi inviare pezzi di suono e frasi con i quali ha composto un brano (eseguito "on stage") che può davvero dirsi una produzione collettiva, e simbolica del modo in cui oggi persone che stanno a distanza (e magari nemmeno si conoscono) possono cooperare per creare qualcosa insieme.

Lidia Schillaci (che è simpatica, bella, ma soprattutto ha una splendida voce e una grande capacità interpretativa) ha iniziato ad usare Periscope per far conoscere in modo diretto ed immediato la sua musica, ed organizza normalmente concerti di strada con i suoi musicisti usando semplicemente il suo cellulare per renderli disponibili in tempo reale a chiunque, nel mondo, la voglia ascoltare.

Derrick De Kerckhove, dopo aver esplorato le opportunità, ci ha messo in guardia dai pericoli della Internet of People. Ad esempio, la nostra reputazione ora dipende da fattori spesso incontrollabili. Nell'uso di questa cosa meravigliosa, ci vuole dunque una sempre maggior consapevolezza.

Pietro Schirano ci ha raccontato come non si riesca a raccontare alla propria madre che razza di lavoro sia disegnare le interfacce grafiche di Facebook.:-)

Gli interventi interessanti sono stati ovviamente molti di più, ma per fortuna confido sul fatto che la formula di TEDx obblighi a pubblicarli, visto che sono notoriamente troppo pigro per raccontare tutto:-))






sabato, aprile 02, 2016

Maria Giuana: storia di una canzone popolare.

Questo post torna finalmente a casa sua, dopo essere stato migrante, in una nuova versione aggiornata (aprile 2016).

Maria Giuana è una canzone popolare molto cantata nelle osterie e nelle “piole”, ancora oggi (in quelle poche osterie e piole che restano), dai piemontesi di ogni età.
Come tutte le canzoni, ha avuto delle ave e delle nipoti, ha conosciuto contaminazioni e versioni diverse, ha avuto l’onore di essere interpretata, oltre che da orde di piemontesi alticci, anche da grandi interpreti.
Questo testo vuole ripercorrerne la storia, per narrarla in modo più o meno organico e tentare di lasciarne una memoria storica (per quando ce ne sarà bisogno).
Verrà quindi aggiornato ogni volta che verranno raccolte nuove informazioni.
Ultimo aggiornamento: aprile 2016.
AVVISO E RINGRAZIAMENTI
Questo testo nasce da un post (“Maria Giuana”) pubblicato originariamente sul mio vecchio blog nel 2009. Nel 2012 il post viene riaggiornato (“Maria Giuana, il ritorno”) con pubblicazione in piemontese sul sito di Gianni Davico, che ringrazio per la traduzione.
Il post è stato aggiornato nel 2013 e nel 2014 con successive integrazioni, prima di essere completamente rivisto per la pubblicazione su Medium. 
Ad aprile 2016, in coincidenza con la scomparsa di Gianmaria Testa (uno dei migliori interpreti di questa canzone), il post ritorna a casa, sul suo blog di origine.
Per le preziosissime informazioni fornite e per il tempo impiegato nelle ricerche, si ringraziano sentitatamente Walter Pistarini, curatore del blog “Via del campo — Omaggio a Fabrizio De Andrè”, e Dino Tron, fisarmonicista dei Lou Dalfin.
Per la versione veneto/trentina, ringrazio per la segnalazione ed il video Jimi Trotter.
Poichè il testo è di discreta lunghezza, probabilmente è utile disporre di un…
INDICE
LA CANZONE (E I SUOI INTERPRETI ILLUSTRI).
COSTANTINO NIGRA E “ZIA GIOVANNA”.
LE VERSIONI DEL XIX SECOLO.
LE VERSIONI “MODERNE”.
LE VERSIONI DEI LOU DALFIN.
MARIA GIUANA DA ESPORTAZIONE.
MARIA GIUANA E’ ARRIVATA DALLA PERSIA?

sabato, novembre 22, 2014

Mitico Peter!

Giovedì 20 novembre, Torino, PalaAlpitour: primo concerto italiano di Peter Gabriel per il Back To The  Front Tour 2014.



Sono passati 25 anni da "SO", e il vecchio Peter (siamo a 64 primavere) ne ha fatta molta, di strada. 

Noi ci ricordiamo persino di quando era la voce dei Genesis che abbiamo amato di più, ma sarebbe ingeneroso non riconoscere che Gabriel non è mai campato di rendita: non ha mai smesso di esplorare, di percorrere sentieri musicali innovativi, di cercare e offrire cose in sintonia con i tempi. 

Allora, ha senso un'operazione che riporta sul palco, dopo 25 anni, la stessa band a rifare (per la parte finale del concerto) tutte le canzoni di quel vecchio disco?

Domanda leziosa: non so la risposta, e mi è anche indifferente:-)
E penso che non fregasse granchè nemmeno agli altri diecimila che riempivano il pala, tutti posizionati anagraficamente tra i cinquanta ed i sessanta...
So che quando Gabriel ripercorre la sua esperienza musicale, nessuna di quelle canzoni è invecchiata o è diventata opaca. 

La band è mostruosa, perfetta, senza una sbavatura: Tony Levin, uno dei migliori bassisti e suonatore di qualsiasicosaproducaunsuono del mondo; David Rhodes alle chitarre, Manu Katchè a tastiere e fisarmonica, David Sancious alle percussioni,  Jennie Abrahamson alla voce, una altra fatina bionda di cui non so il nome al violoncello e voce...

Gli arrangiamenti sono deliziosi (la versione acustica di "Shock the Monkey": che sballo!!!), gli effetti tecnologicissimi ma mai invadenti (quelle cinque torri di luci e camere, un po' giraffe un po' dinosauri, che inseguono la band in giro per il palco, sono una gran bella idea...)



Quando Gabriel intona la struggente "Don't give up", anche se al suo fianco non c'è Kate Bush ma una deliziosa corista dalla voce giusta, la svedese Jennie Abrahamson, la lacrima è li in agguato, il cuore scaldato da vibrazioni antiche, buone e giuste. 

E quindi si fa poi il coro nel tripudio di luci di Red Rain, in Solsbury Hills, In Your Eyes, SlegdeHammer...

Un torrente di musica ed effettoni fino al grande, ovvio finale con Biko, prima del quale Gabriel ricorda (leggendo in italiano) i 43 studenti scomparsi da poco in Messico. 

E poi, in una luce rosso sangue, si ritornella insieme il nome di Biko, fin quando la band scompare, elemento dopo elemento, lasciando solo il batterista a tenere il ritmo...

Concerto bellissimo, perfetto, emozionante.




La scaletta:
? (sconosciuta)
Come Talk To Me
Shock The Monkey
Family Snapshot
Digging In The Dirt
Secret World
The Family And The Fishing Net
No Self Control
Solsbury Hill
Why Don’t You Show Yourself?
Red Rain
Sledgehammer
Don’t Give Up
That Voice Again
Mercy Street
Big Time
We Do What We’re Told (Milgram’s 37)
This Is The Picture (Excellent Birds)
In Your Eyes
The Tower That Ate People
Biko


venerdì, novembre 21, 2014

I 100 anni di "Cabiria": la mostra.

In questo manifesto di "Cabiria", il Moloch la cui copia troneggia oggi al Museo del Cinema presso la Mole Antonelliana, e il nome di Gabriele D'Annunzio che servì a dare al kolossal una fama mondiale.
"Cabiria" ha compiuto 100 anni: il più famoso film kolossal della storia primigenia del cinema italiano debuttò in prima nazionale il 18 aprile 1914 al Teatro Vittorio Emanuele, in Via Rossini, a Torino (quello che ora è l'Auditorium RAI, dove ha casa l'Orchestra Sinfonica Nazionale).

Per festeggiarlo, la Biblioteca Nazionale Universitaria ed il Museo del Cinema hanno promosso una piccola, ma deliziosa e preziosa mostra che rimarrà aperta fino al 30 novembre presso il locale espositivo della stessa Biblioteca.

Il bel catalogo della mostra.
(Se avete in programma una visita cinefila a Torino, magari in concomitanza con il 32° Torino Film Festival, è consigliato accoppiarla alla visita al Museo del Cinema...)


"Cabiria", che è il secondo kolossal cinematografico al mondo dopo l'americano "Quo Vadis", rappresenta il culmine della stagione gloriosa del cinema italiano che nasce a inizio Novecento, ha il suo momento di gloria nella stagione dei "peplum" e delle dive del muto, e decade allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, con il fallimento ed il tracollo delle numerose case cinematografiche nate tra Torino (capitale del cinema europeo con Parigi, a quei tempi), Firenze, Roma, Napoli e la Sicilia.

L'artefice di questo capolavoro lungo 3 ore e 3400 metri di pellicola, che fonda la narrazione cinematografica moderna con le riprese in movimento dal carrello, i continui cambi di visione e prospettiva al posto dei precedenti "quadri fissi", è un genio a tutto tondo che risponde al nome di Giovanni Pastrone.

Un personaggio eclettico, nato ad Asti nel 1882: figlio di commercianti, trasferitosi a Torino sarà violinista di fila, progettista di un biplano, contabile, prima di innamorarsi del cinema e acquistare quella che diventerà la Itala Film, di cui sarà non solo proprietario ma deus ex machina, sceneggiatore, regista, tecnico, eccetera eccetera.

Con Cabiria tenta l'operazione di elevare il cinema da spettacolo popolare ad arte: e ci riesce, perbacco se ci riesce.

Sganciando cinquantamila lire dell'epoca a Gabriele D'Annunzio, a cui si attribuì la sceneggiatura del film (ma in realtà prestò solo il nome, scrisse le pompose didascalie e inventò i nomi dei personaggi), e rimanendo nell'ombra, Pastrone, che era in toto il padre del film, riuscì a sdoganare per la prima volta un'opera cinematografica come oggetto di culto anche per la maggior parte degli intellettuali, allora come oggi un po' restii ad occuparsi di ciò che è anche popolare.

Sia ben inteso: non sarebbe certo bastato il nome di D'Annunzio a creare il mito di Cabiria, se il film non fosse stato davvero un capolavoro.
Una storia lunga, complessa ed avvincente ambientata ai tempi delle guerre puniche, nel III secolo avanti Cristo.: effetti speciali come se piovesse (l'eruzione dell'Etna, i sacrifici umani, Annibale che valica le Alpi, le battaglie...), e poi personaggi finalmente in grado di assumere una dimensione propria e durature, come Maciste (un camallo genovese che lascerà definitivamente le banchine per dedicarsi a tempo pieno al cinema, con un personaggio duraturo, il buono fortissimo che lotta contro i cattivi).

Il film, per questi motivi, conoscerà un meritato trionfo di livello mondiale:  sei mesi fisso a Parigi, un anno continuo di proiezioni a New York, poi l'Est, fino alla Russia ed al Giappone: piacerà agli intellettuali ed al popolo, pronto a identificarsi con Maciste.
"Cabiria" costituirà ispirazione per la nascita del moderno cinema hollywoodiano, ed anche Fritz Lang gli renderà omaggio  nel mitico "Metropolis" con una aperta citazione del Moloch divorapersone.

Negli anni '30 del Novecento, quando i fasti del cinema italiano sono ormai un lontano ricordo ed egli stesso ha abbandonato il cinema per attività più remunerative, Pastrone rimetterà mano alla sua opera per farne una versione sonorizzata (quella del 1914 è muta, e le sue  proiezioni avvenivano con l'accompagnamento in diretta di orchestre da 80-90 elementi ed un cantante solista).

Pastrone morirà nel 1959, non prima di aver donato la maggior parte delle reliquie della sua avventura cinematografica a Maria Adriana Prolo, autentica vestale del cinema e prima ad aver avuto l'idea del Museo (se potesse vedere quale meraviglia si è sviluppata oggi, nella Mole, a partire dalla sua idea originale, quell'appunto sul suo diario: "Pensato al Museo"..!).

La pellicola, recuperando a Torino e in giro per il mondo le copie ancora reperibili, viene sottoposta ad un profondo restauro nello scorso decennio e riportata all'onor del mondo nel 2006, con una proiezione al Teatro Regio.

La mostra alla Biblioteca esibisce i meravigliosi manifesti, i costumi originali dell'epoca miracolosamente conservati, partiture ed oggetti di culto. E' stato predisposto inoltre un delizioso catalogo, dal quale sono state reperite quasi tutte le informazioni di questo post.

Una parte dei costumi originali utilizzati nel 1914.
Qui una mia piccola galleria fotografica della Mostra:

sabato, settembre 13, 2014

Tra poco si ricomincia...

...con la stagione del Teatro Stabile di Torino. Paolini, Pirandello, i fratelli Servillo, il Falstaff di Shakespeare e Battiston, Mozart, Starnone, Jack London, Moliere, Cyrano de Bergerac, Teennessee Williams, Iaia Forte, Gaber, L'amore ai tempi del colera?
Non importa, purchè la magia abbia di nuovo inizio.
Non vedo l'ora!!!

venerdì, luglio 11, 2014

Rebel without a cause

"Gioventù bruciata" è di fatto un film sulla (e direi contro) la famiglia americana degli anni '50.
Ognuna delle quali, per dirla con Tolstoi, è infelice a modo suo.
James Dean è l'improbabile figlio diciassettenne di una di queste.  
Benestante ed annoiato, ancora privo di un retroterra di valori o di idee su cui canalizzare l'insoddisfazione e la ribellione contro la generazione dei genitori, il ragazzo sbatte sulla vita nello stesso modo insulso in cui una falena si ostina a relazionarsi con una lampadina accesa.
Dean aveva studiato all'Actor Studio, il cui motto era "Do it, dont show it": recitando, mostra semplicemente quello che sei.
Tormentato e fragile, sembra che nei film fosse semplicemente se stesso - un ragazzo dall'adolescenza tormentata dalla solitudine, a causa della morte della madre quando aveva 9 anni e abbandonato poi dal padre, di cui scoprirà - in età adulta - che non è nemmeno il suo vero padre.
Dean, come noto, morirà a 24 anni schiantandosi con la sua Porsche, dopo aver girato soltanto tre film (oltre a questo, "La Valle dell'Eden" - sempre nel 1955 - e "il Gigante").

La sceneggiatura di questo film non riesce a trattare in modo credibile i due eventi tragici che segnano il film, a meno che non volesse dare della gioventù americana di quegli anni un ritratto di assoluta vacuità: sta di fatto che ai momenti tragici seguono momenti grotteschi o umoristici.

Dean, nel film, è un buono, un sensibile. Che viene a confliggere con i "duri" di una scuola (un "istituto tecnico" nella traduzione italiana)che tutti frequentano ma in cui non vanno praticamente mai.
Duri un po' da operetta anch'essi, visto che - a parte l'atteggiamento arrogante - nei fatti sono quasi innocui.

Terrà testa ai ragazzacci, manterrà intatto il suo onore; si innamorerà, ricambiato, della ragazza del capo, e darà amicizia ad un giovane nerd che tutti snobbano.

Trama esilina, ma James fa la sua porca figura, indubbiamente, soprattutto con le magliette bianche ed il suo famoso giubbottino rosso.

Visto nella suggestiva cornice del cortile di Palazzo Reale, a Torino.



domenica, luglio 06, 2014

Elizabeth...

Un paio di giorni fa sono andato a Palazzo Chiablese a vedere la mostra sui Preraffaelliti:

Corrente pittorica inglese del XIX secolo, ha prodotto opere di grande bellezza ed interesse, la più nota delle quali è certamente Ofelia (1852) di John Everett Millais, scelta come icona della mostra:

Il quadro è splendido, sia per i precisi dettagli botanici che per la modella scelta per Ofelia, la pittrice e poetessa Elisabeth Eleanor Siddal (1829-1862).
Si racconta che, per realizzare il dipinto, Millais costrinse la Siddal a stare per quattro mesi, per diverse ore al giorno, in una vasca colma d'acqua e riscaldata da lampade e candele.
Un giorno in cui la vasca non fu riscaldata, ma modella si ammalò gravemente, al punto che suo padre chiese un indennizzo al pittore, ma soprattutto la sua salute rimase minata per sempre.

Bella, geniale, dal forte carattere e dai lunghi capelli rossi, la Siddal rappresentò l'ideale femminile per i Preraffaelliti, e fu moglie del fondatore della Confraternita, Dante Gabriel Rossetti, che la ritrasse in "Beata Beatrix", presente alla mostra e considerato uno dei capolavori del Simbolismo:


Alla mostra sono presenti due opere di Elisabeth Siddal. 

Nel 1862, caduta in depressione per la nascita di un figlio morto, decise di suicidarsi ingerendo una grande quantità di laudano.
Il marito, seppellendola, 
"fece porre accanto al corpo anche l'unica copia dei manoscritti d'amore che lo stesso Rossetti aveva dedicato alla Siddal, scritti nel corso degli anni: il quaderno che li conteneva venne infilato fra i suoi capelli rossi.
Nel 1869 Rossetti, piegato da alcool e droga e convinto di diventare cieco, fu ossessionato dal desiderio di pubblicare le proprie poesie accompagnate da quelle della moglie. Insieme al proprio agente C. Howell, ottenne il permesso di aprire la tomba della Siddal per recuperare il quaderno di poesie: il tutto venne svolto di notte, per evitare lo sdegno della gente. Howell (che viene ricordato come noto mentitore) raccontò che il corpo della Siddal aveva mantenuto intatta la propria bellezza, e che i capelli avevano continuato a crescerle a dismisura." (Wikipedia)

Alla vita della Siddal (ed al contesto artistico in cui si svolse) è stato dedicato un fumetto di Marco Tagliapietra ("Elizabeth").

Vedasi anche, qui, il post che il blog "Lande di Carta" ha dedicato alla biografia di Elisabeth Siddal scritta da Lucinda Hawskley.

La mostra è aperta fino a domenica 13 luglio: qui i dettagli su orari e prenotazioni.

venerdì, novembre 08, 2013

"Gli aerei stanno al cielo come le navi al mare..."

Si, lo so che questo post poteva intitolarsi semplicemente "Renoir", ma visto che mi è tornata in mente la splendida canzone che De Gregori propose in ben due versioni nell'album del '78 che porta il suo nome (album bellissimo!), non ho saputo resistere...

Il post dovrebbe raccontare le sensazioni che ho provato alla visita della mostra su Renoir che si è aperta il 23 ottobre alla Galleria di Arte Moderna di Torino (per vederla c'è tempo fino al 23 febbraio 2014).

(Per una descrizione dettagliata del contenuto della mostra, vi rimando invece a questo perfetto post di Roberta.)

Come al solito, quando visito una mostra d'arte, parto da un livello di ignoranza quasi assoluto.

Nel caso di Renoir, sapevo più o meno che era un pittore francese dell'Ottocento, e che avesse vagamente a che fare con l'impressionismo (che, nella mia mente, è un concetto dai contorni abbastanza indefiniti come la pittura che lo caratterizza).

Ora ne so molto di più su questo personaggio, anche se so bene che l'80% delle nozioni scomparirà entro pochi giorni.

La mostra presenta una sessantina di quadri provenienti dai musei parigini (è, sembra, la più importante esposizione di Renoir finora organizzata in Italia).

Ce ne sono alcuni che adoro in particolare.

"L'altalena", quadro impressionista del 1876, è straordinario e magico per il modo in cui viene resa la luce che filtra attraverso le foglie (l'immagine qui sopra non restituisce neppure in minima parte la bellezza del quadro, rispetto alla visione dal vero).


E poi, ad esempio
"Ragazze al piano" del 1892: dopo il viaggio in Italia negli anni '80, affascinato da Raffaello e Tiziano, Renoir supera l'impressionismo.

Le altre opere in esposizione garantiscono un altissimo livello di emozione.

C'è tempo...ma non perdetevi la mostra!

lunedì, ottobre 14, 2013

Nella piccola pozzanghera padana...

Sabato 12 ottobre, in occasione della manifestazione nazionale contro l'immigrazione convocata a Torino dalla Lega Nord, ho sentito il bisogno di essere in piazza per manifestare pubblicamente e fisicamente la mia avversione.
Sapevo che c'era un presidio promosso da un certo numero di associazioni e movimenti, e così mi sono recato in centro, nel luogo di cui avevo letto al mattino sulla "busiarda" (1) - più o meno a metà del percorso previsto dal corteo della Lega Nord, il che mi sembrava un po' strano.
Infatti, quando sono giunto lì, non ho trovato nessuno, a parte una dimostrante solitaria con un cartello che ricordava come anche gli italiani fossero un popolo di migranti, e pochi altri cercatori del presidio.
Quando poi ho scoperto che, per ragioni di ordine pubblico, la posizione dei presidii era stata spostata fuori dal raggio di azione del corteo, era ormai troppo tardi: la città era blindata e tra i due mondi si ergeva ormai una barriera impenetrabile di poliziotti. Aggirarla sarebbe stato complicato, quindi mi sono rassegnato a starmene lì.
Prima sono però andato un attimo a vedere da vicino i Padani. Mezz'ora prima dell'inizio previsto del corteo erano ancora poche decine.
Una signorina bionda mi ha porto un volantino della Lega, dicendo "è per la difesa dei valori antichi, dei valori cristiani". Quando le ho chiesto cosa c'entrassero questi valori con le campagne di odio contro gli immigrati, mi ha invitato a rivolgermi al numero di telefono indicato sul volantino, "le spiegheranno tutto".

Ho fatto un giro da Feltrinelli, dove ho trovato una copia superscontata di questo bellissimo libro di Bruno Munari, e mi son messo lì, seduto sul bordo di una delle due fontane di piazza CLN, a leggere.
(La dove ha inizio il film "Profondo Rosso", per dire...)


Finalmente, verso le 17, il corteo si è mosso.
Intorno a me, intanto, nella piazza, il numero di persone con sentimenti antileghisti era aumentato a una ventina.
Quando il corteo si è avvicinato a piazza CLN, una coppia matura ha sfoderato uno striscione del Movimento Nonviolento e ha cercato di mettersi sul percorso del corteo, ma i funzionari di polizia l'hanno considerata una provocazione e li hanno costretti a ripiegare e a ripiegarlo.
Purtroppo, quando il corteo è passato lì davanti, i pacifisti non hanno saputo resistire alle proprie pulsioni ed hanno iniziato ad insultare, abbastanza pesantemente, i leghisti che passavano.
I quali, ovviamente, ci sono andati a nozze ed hanno iniziato a rispondere per le rime.
I due gruppi si sono pericolosamente avvicinati, le voci e le mani hanno iniziato ad alzarsi ed i due branchi - a dir la verità - in quel momento sembravano abbastanza indistinguibili.
I poliziotti, messisi immediatamente in mezzo e abbastanza innervositi dal fatto di non aver saputo prevedere la minaccia imprevista, hanno calato i caschi e impugnato i tonfa ed hanno iniziato ad avanzare minacciosi verso i pacifisti, seguiti da orde di giornalisti con le telecamere e le macchine fotografiche - assetati di sangue, a loro volta seguiti da masse di leghisti pronti a menar le mani.

Visto che non ci tenevo ad esibire il mio cranio insanguinato all'edizione serale del TG3 Piemonte, in uno scontro "militare" così asimmetrico ed impari da essere completamente idiota, sono sgusciato via in mezzo ai fazzolettati verdi verso piazza San Carlo, dove sarebbe terminata la manifestazione.





Ho visto dunque sfilare i manifestanti.
Molti pittoreschi, bardati di verde da capo a piedi, o con i soliti confusi richiami a icone celtiche o vichinghe; ma la maggior parte avevano un aspetto normale, erano quella "gggente" che incontri ogni giorno per strada senza mai saper bene se aspettarti un sorriso o una coltellata.
I giovani non erano molti, ma erano l'unico tratto iconicamente aggiornato di un corteo zeppo di immagini uscite dal passato (molte bandiere di San Marco e altre che sembrano uscite paro paro dall'epoca dei Comuni).
Alla fine i partecipanti erano più o meno tremila, di cui - sono cifre fornite dalla organizzazione di quel partito - circa 500 autoctoni.
(Un autentico flop, direi, trattandosi di una manifestazione nazionale: gli antagonisti indigeni, avversi alla manifestazione, erano stimati in almeno il doppio.)



Poi, dal palco, hanno iniziato a parlare i big del partito.

Calderoli, dal vero, mi ha confermato l'impressione di un essere volgare e villano che già avevo di lui.
Inconsistente Giorgetti.
Tosi l'ho trovato deludente: un eloquio povero e tutt'altro che seducente, tanto da chiedersi se davvero abbia qualche chance come candidato del centro destra.
Salvini si presenta meglio (pensa te!): la claque dei Giovani Padani della piazza era tutta per lui (con lo slogan "Più Salvini, meno clandestini" (sic!); è un tipo che sa parlare bene, sa modulare i toni e sa accendere la piazza.
Poi ha parlato Roberto Cota. Personalmente lo trovo già insopportabile ed arrogante quando parla come Presidente (con quel c***o di fazzoletto verde nel taschino che saprei bene dove mettergli, quando dovrebbe rappresentare tutti i piemontesi).
In versione militante, si trasforma di fatto in un botolo ringhiante, rancoroso e traboccante di malvagità.
Con lui, come si dice qui, "ne ho avuto a basta", e non ho avuto cuore di fermarmi a sentire anche l'intero comizio di Maroni e l'eventuale abbaiare triste di Bossi.

La cifra comune dei discorsi dei dirigenti della Lega però è identificabile.
Un po' di immondizia culturale, un po' di paure ignoranti e un po' di rancori da bar.
(Mi ha fatto molto ridere, detto da Cota, il bisogno di "difendere la nostra cultura".
Mi son guardato intorno, a guardare i militanti che applaudivano, e mi son chiesto - senza ironia - che significato avesse per loro questa espressione.)
Il tutto mixato con un linguaggio da trivio, per marcare la distanza dai "salotti radical chic", come li chiama Cota.
Direi che la loro ricetta è sdoganare il peggio dei nostri sentimenti; mentre una volta - complice anche una educazione cattolica che qualche merito ce l'aveva - ci si vergognava di certi pensieri, con la Lega essi si possono ululare insieme sghignazzando e mangiando porchetta.
Si possono insultare i ministri (meglio se donna, ovviamente) sentendosi superiori ad essi, si può ironizzare pesantemente sulla diversità sentendosi compresi.

Liberi, finalmente, di essere se stessi (e di non essere costretti a migliorare mai).

(1) "la Stampa", così come la chiamavano un tempo gli operai della Fiat.

mercoledì, marzo 27, 2013

sabato, febbraio 16, 2013

Il Berlu sopra Torino

In questi ultime settimane, la mia buca delle lettere vomita incubi.
Ieri, il volantino del PDL. Con questa immagine.
Orrore.
Schifo.
Raccapriccio.
Vomito.
Nausea.
Il simbolo della mia città assediato da un immenso Faccione Di.
Fassino, non si può far qualcosa? Chiedere il danno di immagine? Impedire a sto Godzilla di minacciare quello che amiamo?

La Mole mi è cara.
La vedo al mattino, quando vado al lavoro in auto, in rassicurante triangolazione con la Basilica di Superga e il quasi perfetto triangolo del Monviso: un trittico che mi riscalda il cuore.
E, da qualche giorno, in seguito ad un fortunato trasloco di ufficio, la vedo anche, ogni volta che ne ho voglia e bisogno, dalla finestra: 

La cara, vecchia Mole vista dalla finestra del mio ufficio
Grande Bugiardo, non era il caso che mi fornissi un nuovo motivo per detestarti...bastavano già le decine di migliaia precedenti:-)

venerdì, marzo 18, 2011

Torino, diciassettemarzoduemilaundici



Eravamo in duecentomila, nella notte tricolore di Torino, sotto la pioggia battente.
Quel fiume umano ed immenso, che sciamava con entusiasmo e gioia verso piazza Vittorio Veneto, aveva l'energia di una esondazione: travolgeva la città, la fertilizzava di suoni e risate, dissetava le piazze inaridite.
La miseria umana della Lega, annullata da questa potenza popolare, defluiva calpestata nei tombini, verso le fogne: inconsistente, inutile, scema, stonata. Nulla più che piscio di cane.

Questa passione, questa voglia di esserci, di affermare una appartenenza oltre lo schifo in cui il paese versa, è qualcosa di straordinario e bellissimo.

Non so quanto duri, ma non importa: c'è, è reale, vera, palpabile.
Quando, dopo i fuochi d'artificio - quando era l'una e la notte ancor giovane- la fanfara degli alpini ha intonato l'inno di Mameli, ci siamo messi in decine di migliaia a cantarlo a squarciagola, il viso rigato da una pioggia incessante: e la piazza ha tremato, e la città ha tremato, ed i topi son scappati, a nascondersi nelle loro tane.

E poi abbiamo di nuovo affollate le vie e le piazze, e la metro, fino a tarda notte.

Oggi è arrivato il Presidente Napolitano: accolto da affetto sincero e popolare.

Il presidente Cota, ieri, non è andato all'alzabandiera: perchè "aveva da lavorare", il reggiposacenere.
Oggi è riuscito persino, al Regio, a suscitate il brusio in una platea di vip: non è riuscito ad evitare di dire che "qualcuno usa questa festa per strumentalizzarla": probabilmente a casa non ha nemmeno uno specchio.
Mentre il Presidente Napolitano veniva applaudito, andando ad inaugurare il rinnovato Museo del Risorgimento, il presidente Cota si recava là di soppiatto, strisciando contro i muri: ma l'abbiamo visto, ahilui, e gli abbiam detto le sue.

(Con i leghisti, ormai, è necessario esser leghisti: se non vi sentite italiani, allora - in quanto "padani" - siete extracomunitari: secondo le vostre stesse logiche, dovete AN-DAR-VE-NE da questo paese!)

lunedì, marzo 07, 2011

Domandina...

Ma come farà, la Lega, a sostenere come candidato alla carica di sindaco di Torino uno che si chiama COPPOLA?

(Qui sotto, la distribuzione del cognome Coppola in Padania e in Italia...)

lunedì, novembre 03, 2008

giovedì, ottobre 30, 2008

Esserci. In carne ed ossa. Sorridenti.


Giovedì 30 ottobre. Alle 10 e mezza mi sono preso due ore di permesso e sono andato in Piazza Castello: non potevo stare in ufficio mentre la Torino degli studenti, dei docenti e dei genitori portava se stessa in giro per la città, a popolare la realtà di quei corpi, di quei sorrisi e di quelle idee che in televisione non si vedono mai.

Ho coinvolto altri tre colleghi, e via.
Arrivati nei pressi del Teatro Regio, nel vasto atrio, siamo stati avvolti dalle note dell'Aida suonate dagli Orchestrali del teatro, in concerto di solidarietà con gli studenti e per ricordare che la Finanziaria prevede il 30% di tagli per gli spettacoli dal vivo - un altro colpo mortale al teatro e alla cultura.

A cingere d'assedio gli orchestrali ed il coro, una quantità impressionante di PERSONE: passanti, docenti, genitori con i bambini (gli studenti non erano ancora arrivati).

La musica ha creato, come spesso avviene, un legame palpabile, quasi doloroso tra chi esegue e chi ascolta: ma forse questo non spiega i molti occhi lucidi, la commozione. Forse non era solo la musica, ma il senso di ritrovare, d'improvviso, un paese reale diverso da quello che ci fa soffrire.

Fuori, intanto, inizia a fluire l'immensa fiumana degli studenti torinesi: prima i liceali, poi gli universitari.
Mentre il fiume esonda verso via Po - senza autorizzazione, ma con la forza calma e assoluta di un popolo in marcia - , andiamo a vedere l'inizio del corteo verso via Pietro Micca: e l'inizio non finisce mai, ci vorrà più di un'ora prima che si esaurisca la marea di giovani sorridenti e consapevoli.

Dai ragazzi emana una serenità allegra che è contagiosa, porta a sorridere e ad applaudire come bambini: qui si ritrova la forza ancora intatta di un paese altrove stanco ed impaurito, qui risplende il sole tra le nubi angoscianti della notte della ragione, qui risplendono di nuovo le stelle, luminose e vive.

I visi tetri in doppiopetto che abbaiano dalle tv sembrano lontani anni luce: questi ragazzi portano con sè qualcosa che non si può comprare, ed allora al potere non resta che offenderli, negarli, fingere di non vederli, o mascherarli da cattivi.

Voi, lassù, che avete paura, ed allora dite che non hanno capito, che sono strumentalizzati: fate bene, sì, fate bene ad aver paura.
Potete picchiarli, questi ragazzi: respingerli nelle case, cancellarli dalle piazze e dalle aule magne; ma ormai pensano, capiscono, comprendono, non si fanno ingannare, svelano il vostro bieco progetto.

Se non li ascoltate, non li avrete comunque con voi.

Ci sarà sempre un luogo, anche solo un luogo dell'anima, dove non vincerete mai, dove il vostro soldo e le vostre merci non hanno alcun valore, dove un sorriso vi smaschererà.

Dove una risata vi seppellirà.

mercoledì, gennaio 16, 2008

Semplicemente, dei luridi schifosi farabutti

Le carte segrete della Thyssenkrupp - di Giovanna Pavani
(articolo tratto da www.megachip.info)
Lunedì, 14 gennaio 2008
C’è da rabbrividire nel leggere alcuni stralci di un documento, assolutamente riservato agli addetti ai lavori, sequestrato dalla magistratura nel corso di alcune perquisizioni nelle abitazioni di tre fra i massimi dirigenti della Thyssen Krupp di Torino, l'amministratore delegato Harald Espenhahn, Gerald Priegnitz e Marco Pucci, già iscritti nel registro degli indagati per omicidio e disastro colposo. Si tratta di un’analisi interna aziendale della situazione politica italiana, un dossier scritto in tedesco, in modo da non essere immediatamente fruibile da indiscreti occhi italiani, che meglio di ogni altra testimonianza, metterebbe in evidenza l’atteggiamento sprezzante e privo di scrupoli del board della casa madre delle acciaierie di Essen rispetto alla gestione della situazione dopo l’incidente di Torino.

Prodi che specula, a livello mediatico, sulla morte degli operai di Torino per coprire altre emergenze nazionali che metterebbero in cattiva luce il suo governo. Un diverso tipo di trattamento per gli operai a Terni e a Torino e in tutte le altre fabbriche in via di dismissione. Una lunga tradizione sindacale “di stampo comunista” che avrebbe reso molto sfavorevole il mantenimento dell’attività produttiva nel capoluogo piemontese. E, infine, la necessità oggettiva di non colpire gli operai sopravvissuti al rogo della linea 5 con provvedimenti disciplinari in attesa che sia calata la polvere sullo scandalo delle misure di sicurezza dell’acciaieria. Nella nota, secondo quanto emerso da indiscrezioni trapelate dalla Procura, si analizza la storia e la realtà della città di Torino, dove esiste - registrano i funzionari ThyssenKrupp - “una lunga tradizione sindacale di stampo comunista” e dove, già negli anni precedenti alla tragedia, le “condizioni ambientali” apparivano sfavorevoli al mantenimento dell'attività produttiva. Non mancano i cenni remoti alla storia italiana e torinese degli “anni di piombo”, nei quali chi firma l'analisi ricorda come alcune delle pagine più sanguinose del terrorismo brigatista siano state scritte proprio a Torino.

Poi si passa a esaminare la situazione dei 20 giorni di dicembre che hanno fatto seguito alla tragedia, durante i quali il sacrificio degli operai, le loro condizioni di lavoro, le dichiarazioni di dura condanna da parte delle istituzioni e delle forze politiche e sindacali italiane hanno occupato le prime pagine dei giornali e dei telegiornali.

Ai vertici aziendali che dalla Thyssen tedesca hanno evidentemente richiesto elementi per poter meglio valutare la situazione e per poter quindi decidere la propria strategia sia di comunicazione sia legale, lo sconosciuto relatore dell'analisi trasmette i propri commenti.

Commenti che già nel tono fanno ben emergere la visione del lavoro di stampo ottocentesco che permea queste figure manageriali di un’azienda che, per storia antica ma mai sepolta (producevano i cannoni del Terzo Reich e anche i Panzer), è sempre stata poco avvezza a relazioni umane paritarie con i propri sottoposti.

E, infatti, nel dossier trapela il profondo fastidio dei vertici aziendali circa il modo in cui i media italiani enfatizzano la sopravvivenza degli operai scampati al rogo della linea 5.

I sopravvissuti e i compagni di lavoro delle vittime “passano di televisione in televisione “ e vengono rappresentati “come degli eroi”.

Un fatto, quest'ultimo, particolarmente sgradevole, che impedisce ogni possibile misura di censura o di richiamo a questi testimoni, che sono ancora e a tutti gli effetti dipendenti della società, ma che in questo momento sarebbe inopportuno colpire sul piano disciplinare, anche se non si esclude di poter prendere in considerazione questa ipotesi per il futuro, dopo un'attenta analisi degli aspetti formali e delle rassegne stampa cartacee e televisive.

Infine, viene tracciato un affresco a tinte fosche della situazione politica italiana in generale, facendo notare come lo stesso governo guidato da Romano Prodi, che attraverserebbe comunque un periodo di “crisi”, possa trarre vantaggio dall'estrema attenzione dei media sul rogo di Torino, che può esercitare, se non altro, un ruolo di calamita capace di distrarre l'attenzione dei lettori e dei telespettatori da altri e più urgenti problemi di politica interna.

Fin qui le poche righe di indiscrezioni che, anche da sole, hanno innescato una valanga di proteste e commenti. Come quello del leader Fiom, Giorgio Cremaschi: “Sono degli autentici mascalzoni – ha commentato – e tra le righe si intende che si preparano ad intimidire i lavoratori che dovranno testimoniare in tribunale”.

“Un inquietante volta faccia dei vertici Thyssen – è stato invece il commento a caldo del sindaco di Torino, Chiamparino – perché quando l'Ad della Thyssen Italia, Harald Espenhahn, e altri suoi colleghi sono venuti da me, hanno usato ben altre parole nei confronti della citta' e degli operai, bisogna capire ora se i pensieri contenuti in questa nota rappresentato il parere dell' azienda o di qualcuno in specifico.

I riferimenti su Torino e sulla storia democratica e sociale, disegnata come una caricatura - ha concluso, con disappunto, Chiamparino - sono comunque ignoranti e strumentali, e quelli sui lavoratori della Thyssen di Torino gravissimi'”. Piu' duro Giorgio Airaudo, segretario cittadino Fiom: “Sappiano i vertici Thyssen che questi lavoratori non saranno mai lasciati soli e che verranno difesi. E' gravissimo che l'azienda possa dire certe cose e pensare a vendette nei confronti dei suoi operai dopo averli esposti a rischi così pesanti''.

Inutile dire lo sconcerto e il rinnovato dolore che il ritrovamento di questo documento ha destato negli operai della Thyssen: “Dopo il danno, la beffa - ha commentato, con amarezza, Antonio Boccuzzi, un sopravvissuto - nessuno di noi va di in tv in tv, come loro asseriscono, per cercare di diventare un divo; vogliamo solo raccontare cosa non funzionò quella notte e cosa non funzionava in quel periodo. Credo che sia ancora una volta una totale mancanza di sensibilità e di umanità da parte dell'azienda.

Non riesco a capire che tipo di provvedimenti possano prendere perchè nessuno ha raccontato cose non vere”.

E nessuno, davvero nessuno in Italia, ha mai pensato il contrario. Al di là della vergogna morale di queste parole e della inaccettabilità dei giudizi dell'azienda sul clima politico esistente in Italia e dei riferimenti al terrorismo e alla città di Torino, il documento porterebbe a confermare, come subito sottolineato dalla Fiom, il rifiuto di ogni responsabilità aziendale sulla strage e sarebbe, anzi, il tentativo di scaricare colpe sui lavoratori, addirittura minacciandoli di provvedimenti disciplinari per danni all'immagine aziendale.

Un eclatante strategia intimidatoria, dunque, per far si che molti operai, preoccupati per il posto di lavoro, facciano a meno di testimoniare in tribunale ciò che sanno, che hanno visto e forse anche denunciato, inascoltati da padroni troppo impegnati a sfruttarli per il miglio profitto al minimo costo.

Ma ciò che ci si aspetta adesso è un incisivo intervento del governo presso il governo tedesco per avviare, come d’altra parte auspicano i sindacati, “una radicale modifica dei comportamenti di ThyssenKrupp in Italia, comportamenti che rappresentano un danno complessivo, oltre che per i lavoratori, per il sistema industriale italiano”.

E’ bene ricordare, infatti, che nel 2005 il governo italiano intervenne, con congrue sovvenzioni per evitare che la Thyssen desse seguito alla minaccia di abbandonare il polo di Terni per delocalizzare la produzione in Cina. Alla fine di un’estenuante trattativa durante la quale i vertici Thyssen si rimangiarono spesso la parola, il governo ottenne il mantenimento dell’attività ternana a fronte della dismissione di un solo ramo produttivo, ma furono sborsati migliaia di euro in cambio del mantenimento dei posti di lavoro.

Insomma, la storia si ripete ancora. Ma, d’altra parte, come ci si può fidare di un’azienda che non ha vergogna a portare un nome così tristemente pesante nella storia dell’ultimo conflitto mondiale? Cannoni e Panzer del Reich a parte, la storia della famiglia Thyssen è nota soprattutto per un’altra vicenda, per un massacro.

Per chi non lo ricordasse, nella primavera del 45, quando per la Germania la guerra era oramai persa e le truppe russe erano a 15 chilometri da Rechnitz, Margit von Batthyány , moglie del conte Ivan Batthyány e primogenita di Heinrich Thyssen, delfino della dinastia industriale tedesca, organizzò un ricevimento nel castello del paese, invitando trenta-quaranta persone tra cui importanti personalità del partito nazista locale, delle SS, della Gestapo e della gioventù hitleriana.

La festa fu accompagnata da ampie libagioni e durò fino all'alba. Per offrire agli ospiti un "diversivo", intorno a mezzanotte duecento ebrei in stato di denutrizione e valutati come inabili al lavoro vennero caricati su camion e condotti al Kreuzstadel, un fienile raggiungibile a piedi dal castello.

Franz Podezin, un membro della Gestapo e del partito nazista locale, riunì in una stanza del castello una quindicina di ospiti e, dopo aver consegnato loro armi e munizioni, li invitò "uccidere un paio di ebrei".

Le vittime predestinate furono obbligate a svestirsi prima di essere uccise dagli ospiti ubriachi della festa, che poi tornarono al castello e proseguirono i festeggiamenti fino all'alba. All'indomani alcuni di loro si sarebbero addirittura vantati delle loro atrocità, mentre le salme vennero interrate da quindici prigionieri ebrei che erano stati risparmiati esclusivamente per questo lavoro.

Questi ultimi furono poi condotti al mattatoio comunale, dove vennero uccisi da Podezin e Joachim Oldenburg, un membro locale del partito nazista.

Secondo lo storico Josef Hotwagner i russi arrivarono a Rechnitz nella notte tra il 29 e il 30 marzo 1945, e nella stessa notte il castello dei Batthyány fu distrutto dalle fiamme (anche se non è chiaro se furono i russi ad appiccare il fuoco, oppure gli stessi nazisti nell'intento di occultare le prove dell'eccidio).

Nei giorni successivi il misfatto venne tuttavia alla luce: secondo un rapporto redatto dalle autorità sovietiche, vennero trovate ventuno fosse comuni, ciascuna misurante cinque metri per uno e contenente dalle dieci alle dodici persone. I cadaveri erano stati finiti con colpi alla nuca o con armi automatiche e presentavano, oltre ad un generale deperimento, molteplici ematomi, segno di violenze subite immediatamente prima dell'uccisione.

Una storia atroce, vergognosa, che certo non ha nulla a che fare con gli attuali dirigenti della Thyssen, il cui disprezzo per gli altri, soprattutto per i propri operai, dimostra tuttavia un’impostazione ideologica difficile da scalfire, nonostante il trascorrere del tempo e il giudizio della storia. Ma forse è anche per questo se ancora oggi la lunga “tradizione sindacale di stampo comunista” torinese a questa gente fa ancora così tanta paura.

da www.canisciolti.info

martedì, gennaio 08, 2008

Buon anno!

Il ritorno al lavoro è sempre un trauma, da quando lavoro in una multinazionale (non l'ho scelta io, è lei che si è mangiata per motivi meramente finanziari la vecchia, storica, solida società in cui lavoravo prima: e quel che prima contava 100 per noi ora conta 0,8 nel nuovo contesto).

Qui a Torino è ancora forte l'emozione per il dramma della Thyssen, dopo la strage in cui sono morti sette operai (gli invisibili di questo tempo), solo perchè la proprietà tedesca considerava lo stabilimento torinese, e gli uomini che ci lavoravano dentro, alla stessa stregua con cui le proprietà italiane considerano i propri stabilimenti nell'est europeo (inclusi gli uomini che ci lavorano dentro).

Il loro era un lavoro duro ed oscuro, destinato all'estinzione - il destino della siderurgia torinese e italiana in genere, ormai presente solo più a Terni - e malpagato.
Ma forse aveva un senso, come tutto quello che produce e trasforma materia, che produce effetti fisici e visibili, che occupa spazio, che pesa, che esiste, che si può toccare.

Una parte sempre crescente dei mestieri del mondo occidentale, invece, sta alla realtà come il consumismo sta ai bisogni elementari dell'uomo: produce cose in buona parte inutili, non essenziali, di cui si potrebbe benissimo fare a meno.
Quando il mestiere poi rientra nell'ambito dei "servizi immateriali", la sensazione di fare e generare cose superflue si acuisce. Se poi le si fa nel contesto di una organizzazione spaventosamente grande, dare un senso al lavoro quotidiano diventa veramente difficile.
Dal mio punto di vista, posso stimare che l'80% delle attività quotidiane è puramente funzionale alla sopravvivenza dell'organizzazione.
Se improvvisamente smettessimo di farle non accadrebbe nulla di male alla realtà: verremmo pagati per fare nulla anzichè cose palesemente inutili, ma almeno sarebbe un patto più chiaro:-)

Prova ne è che - in queste ultime settimane - decine di colleghi sono andati in mobilità ed in pensione: e con loro è "partito per sempre" il lavoro che facevano, e non si sente la loro assenza; le quattro cose davvero utili vengono ripartite con facilità, o addirittura vengono semplicemente dimenticate:-)

Ho letto ieri "Il Sistema Periodico", un libro che Primo Levi scrisse nei primi anni '80, dopo il bellissimo "La chiave a stella", e raccoglie episodi e aneddoti relativi alla sua attività lavorativa, che Levi proseguì fino alla fine nonostante dal 1956 avesse raggiunto la notorietà come scrittore.

Levi era un chimico, che amava la chimica perchè gli permetteva di entrare nel mistero della materia e tentare di svelarlo: faceva il suo lavoro con passione, tra alambicchi e attrezzature artigianali disponibili nel dopoguerra, anche se col tempo perse l'attitudine al laboratorio occupandosi di assistenza ai clienti e diventando, poi, direttore di una fabbrica di vernici.

Racconta quindi (svelando che lui stesso era il modello per il Faussone della Chiave a Stella) di attività fatte con passione, con gusto, con amore, del lavoro inteso come sfida posta da un problema all'intelligenza ed alla conoscenza di uno specialista, inteso come occasione per superare i proprio limiti, ampliare la conoscenza specifica, raggiungere un orizzonte nuovo.

Lui - il tecnico - era lasciato solo davanti al problema: poteva solo far affidamento su se stesso, sulle proprie intuizioni e sulle proprie esperienze. Ma era libero: libero di sperimentare, di provarci, di tentare, di inventare. La chimica lo permetteva: prendo un frammento di materia, lo sottopongo ad un processo, guardo cosa accade, sperimento, analizzo, imparo, risolvo. E se non ottengo risultati ne prendo un altro, e cambio strada, finchè le esperienze e le intuizioni non mi guidano su quella giusta.

Oggi questa libertà non c'è più, se non in un numero limitato di mestieri. Le procedure aziendali servono a rendere gli uomini intercambiabili, e questo significa voler esplicitamente fare a meno della diversità, della unicità di ogni individuo. Più l'azienda si ingrandisce, più il peso dato all'individuo si assottiglia. Nelle grandi organizzazioni, si è in genere assolutamente inutili in buona parte dei livelli organizzativi, anche se (l'ho già annotata in precedenza con fastidio, questa cosa) è normale che il direttore generale megagalattico dia del tu all'ultimo degli impiegati, con ipocrito familiarismo.

Non c'è spazio per i matti, per l'alzata di ingegno, per l'idea nata al caffè, per le competenze fuori registro, per le conoscenze informali, per il disordine creativo: no, giammai. Tutti a morire sullo stesso foglio excel, a riempire caselline di codici e cifre, a sentirsi imbecilli. A inseguire date definite su criteri irrealistici. A scrivere documenti che nessuno leggerà mai. Ad affogare tra le mail, sepolti da informazioni disperse, frammentarie, incomprensibili, disorganiche, ma sempre caratterizzate dal richiamo all'urgenza ed alla incazzatura di qualcuno in alto.

Insomma, le grandi aziende non sono affatto meglio della società e della politica, al di là dell'immagine che si danno. E quel che producono (o non producono) riflette lo stesso, identico smarrimento di una società che si è perduta e non sa più ritrovarsi.

martedì, ottobre 23, 2007

Nessuna simpatia

Mi hanno prestato un libro che si intitola "Dal basso dei cieli": in copertina la guglia della Mole è costituita da una siringa da cui spunta una goccia di sangue.
Il libro racconta la vita di Peppo Parolini, morto nell'estate 2006, che secondo il risvolto di copertina era un "artista, icona dell'underground torinese...un uomo libero che ha lasciato un grande vuoto in chi ha ascoltato le sue storie e conosciuto la sua voce impastata di alcol e di fumo".

In realtà, 'sto personaggio - noto per essere un elemento fisso dell'arredamento di alcuni famosi locali torinesi - ha percorso gli anni sessanta e settanta della città con una vita tristissima, dedicata alla morfina, all'eroina e ad ogni sorta di sballo chimico.
Furti, galera, una patetica autodefinizione di "rivoluzionario e sognatore" che deriva dall'aver partecipato a rivolte nichiliste nelle carceri.
Per farsi, il nostro si organizzava con lestofanti suoi pari per rubare vaglia negli uffici postali (e chissenefrega se i soldi erano magari di qualche poveraccio: a lui serve un milione al giorno, negli anni settanta, non è che può star lì a sofisticare), documenti e ricette per prelevare migliaia di scatole di porcherie farmaceutiche da spararsi in vena.
Il Parolini ripercorre la storia di una generazione inutile, che passa il suo tempo a non fare un cazzo dalla mattina alla sera fuorchè procurarsi materiale da sballo, a vivere da parassita come gli omologhi ricchi (con cui infatti si trova perfettamente a suo agio), ma non potendo mungere genitori ricchi si accontenta di fottere i poveracci suoi pari...

E son storie tristi di morti nei cessi, in India, di droga e AIDS, di figli abbandonati a se stessi, di amori senza impegno, senza legame fuorchè il dannato buco...di una Torino in fondo assai peggiore di quella che negli anni Settanta era la sua immagine "pubblica", lacerata dal dramma dell'immigrazione e del terrorismo.

Un libro assolutamente da leggere: perchè capisci che una vita così alla fine è davvero cacca distillata, perchè questo approccio bohemienne alla vita provoca il giusto schifo ed il giusto ribrezzo e quindi una reazione positiva, vitale, perchè vien voglia di riascoltare il grande Gaber di "Quando è moda e' moda", ed alla fine ti fa sperare che tuo figlio tutto sommato diventi un grigio impiegato di un ministero, 'che almeno la sua vita la butterà via senza accorgersi di soffrire e senza far soffrire gli altri.

venerdì, settembre 21, 2007

E se lo dice lui...

Da "La Stampa" online, venerdì 21 settembre 2007.
TORINO
Si chiama Mirafiori baby ed è il più grande asilo nido aziendale d’ Italia: lo ha inaugurato questa mattina l’ amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, con il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, all’ interno dello stabilimento di Mirafiori.

L’ asilo rimane aperto 12 ore, dalle 7,30 alle 19,30, con uscite ed entrate flessibili a seconda delle necessità dei dipendenti. Si estende su una superficie di circa mille metri quadrati ed ha un’ area giochi attrezzata esterna di 400 metri quadri in parte coperta. Può ospitare fino a 75 bambini dai tre mesi ai tre anni. Attualmente gli iscritti sono 56, di cui 13 con meno di un anno.
Vi lavorano 16 dipendenti. Davanti all’ ingresso accolgono i bambini due piccole nuove 500 a pedali, una bianca e l’ altra verde:« per i nostri clienti del futuro», ha detto scherzosamente Marchionne.

«Quando sono arrivato alla Fiat - ha aggiunto - sono rimasto allibito delle condizioni dei dipendenti e mi sono posto l’ impegno di umanizzare l’ ambiente di lavoro. Si cominciano a vedere i risultati del nostro impegno con l’ asilo, ma anche con la nuova mensa, le docce e gli spogliatoi e abbiamo intenzione di aprire un supermarket sempre a Mirafiori. A noi stanno molto a cuore le condizioni dei lavoratori».

lunedì, febbraio 12, 2007

Be romantic


Sei lì, con lei, affacciato dai Monte dei Cappuccini su una Torino sempre più bella, ancora segnata dagli shangai giallo evidenziatore delle Universiadi; e avresti voglia di baciarla, di rapirla e di fuggire con lei a scambiarsi dolcezze in un infernotto (1).

E il sole, che sembra saperlo, ti regala un miracolo: tramonta due volte di fila!
La prima, dietro una spessa coltre di polveri sottili; la seconda, definitiva, dietro l'orizzonte.
Bellissimo! Peccato che non arriveremo mai a raccontarlo ai nostri nipotini...:-(

(1) Infernotti: Locali scavati sotto i palazzi settecenteschi di Torino e destinati originariamente alla conservazione del vino, divennero nel tempo luoghi di malaffare, covi di ladri ed assassini.

L'immagine è tratta da qui.