venerdì, novembre 19, 2010

La crepa

Adriano Olivetti era un tipo strano. Imprenditore effervescente, figlio di un geniale capitano d'impresa socialista ed ebreo e della figlia di un pastore valdese, educato a non dipendere da nessun dogma, si mise in testa che la responsabilità etica dell'impresa era una cosa dannatamente seria.
Credeva che avere un sacco di soldi e fornire lavoro comportasse doveri ineludibili nei confronti delle persone e del territorio in cui si avviava la propria attività economica.
Era convinto che formare e trattare bene gli operai fosse fondamentale per il successo dell'impresa. E così non gli riduceva la pause, ma le allungava: e dentro, ci metteva Gassman che recitava l'Adelchi in sala mensa, e Pasolini e Moravia e Dario Fo che tenevano lezioni ai dipendenti.
E faceva costruire stabilimenti in cui, da ogni postazione di lavoro, si potesse vedere la natura dalle finestre (Pozzuoli). E creava biblioteche, che giunsero ad avere un totale di novantamila volumi.E diede per primo in Italia, in aggiunta al contratto nazionale, il sabato libero (suo padre aveva già dato ai suoi dipendenti una settimana di ferie in più, nel 1936!!, e creato il primo asilo nido per i figli dei dipendenti, nel '34, e previsto casse mutua e formazione permanente...).
Tentò addirittura di convincere il CdA a trasferire progressivamente il controllo dell'azienda in mano alla Fondazione Olivetti, controllata dalle maestranze: e di condividere gli utili.
Potete immaginare come gli Olivetti fossero visti male non solo dagli altri industriali, ma anche dal sindacato, che ne detestava il presunto "paternalismo" e l'idea di cogestione: Adriano fondò anche un sindacato aziendale, Autonomia Aziendale, che svuotò interamente la UIL di iscritti (restituendoglieli al termine della sua storia).
Convinto che le sue idee (un originale mix di marxismo, elitismo e liberalismo) potessero diventare un progetto politico, fondò il progetto di Comunità e si presentò alle elezioni politiche (con scarsi risultati: divenne senatore solo lui, ma lasciò presto per gli impegni imprenditoriali). Comunità elesse molti amministratori locali nel Canavese, ma dopo la morte di Adriano (febbraio 1960) pian piano la spinta morale ed etica della famiglia si spense.
L'Olivetti fu "normalizzata", costretta ad uscire dall'elettronica su pressioni Fiat (nonostante la creazione del primo grande computer, l'Elea) e pian piano diventò un'azienda come le altre. Anche se, ancora negli anni '80, essere dipendente Olivetti dava un senso di appartenenza ad un'esperienza unica nella storia imprenditoriale (ed a vantaggi ancora nettamente superiori, dal punto di vista dell'assistenza sociale, a qualsiasi altro posto di lavoro).
E dire che, oggi, c'è chi pensa che Marchionne sia un mito...che tristezza!

Di Marchionne scrissi abbondantemente qui a suo tempo, ma mi ripeto brevemente.
Egli interpreta il suo mestiere in modo decisamente diverso da quello di Adriano Olivetti: il suo unico scopo è procurare profitto per gli azionisti e per sè, producendo merci (automobili, ma non solo).

E tale obiettivo non prevede – anzi, esplicitamente esclude – la “responsabilità etica dell’impresa”: ovvero che sia lui ad occuparsi del futuro del pianeta, della compatibilità di ciò che produce con una visione sobria e sostenibile del mondo, e nemmeno della felicità delle persone che lavorano per lui.
Quindi tutte le cose che disse nel "Porta a porta di sinistra" di Fazio non vanno analizzate una ad una, è abbastanza inutile.
Esse sono perfettamente logiche e coerenti nel contesto di una visione di cui Marchionne è consapevolmente (e doratamente) prigioniero: questo è il capitalismo di oggi, bellezza.
Visibile nella sua nudità, spogliato da ogni residuo etico, ridotto all’essenza: e dunque vero, reale, spietato (come direbbe Cetto Laqualunque; “io sono la realtà: voi siete la fiction!”).
Il capitalismo, sistema di merda (iniquo, egoista, infame) ma unico rimasto in piedi tra le macerie del mondo (macerie che esso stesso produce).
C'è chi vince, e detta le regole, e c'è chi perde, e deve subirle: al massimo può mitigarle, ma mai partecipare a scriverle.

Una volta accettata questa visione come unica possibile, ogni discussione finisce per vertere su corollari e dettagli.
Sono corollari (pienamente legittimi) di questa visione le posizioni di Bonanni ed Angeletti ("Prima manteniamo i posti di lavoro, dopo pensiamo ai diritti") o quelle del Governo ("L'impresa è libera di agire come meglio crede, lo strumento con cui governiamo le crisi è la Cassa Integrazione").
Sono dettagli le surreali dissertazioni sul valore dei dieci minuti di pausa in più o in meno.
Sono dettagli le dichiarazioni di Bersani ("Ricordiamoci che siamo in Europa, e non in Cina"): non sono gli "auspici" a determinare le forme in cui il capitalismo si manifesta nelle diverse parti del mondo, ma solo la resistenza che incontra nel suo affermarsi.

La posizione della CGIL (e, seppur con accenti più vistosi ed apparentemente radicali, della Fiom) è, a mio avviso, una posizione di resistenza "emotiva" ed inconscia a questa visione, ma il linguaggio con cui si esprime alla fine non esce dallo schema e dalla visione di cui sopra. Si richiede di fatto un “capitalismo più umano” (ma in una visione infinitamente meno coraggiosa di quella che aveva elaborato Olivetti), che presti più attenzione alla dignità del lavoro, al mantenimento dei diritti.
Ma, alla fine, si fanno proposte che restano completamente in seno a questa visione: non si mette in discussione quel che viene prodotto, se non per dire che sarebbe meglio produrre in Italia i modelli di auto di fascia medio-alta che sono più redditizi, se non per suggerire strategie che permettano di “competere sui mercati” salvaguardando un certo livello di qualità della vita dei lavoratori.
Si “resiste”: ed anche questa è una posizione legittima, onorevole.

Sia ben chiaro: non sto criticando nessuno degli attori in gioco, ognuno dei quali ha una posizione “realista”. Ed è giusto, perché i conti con la realtà sono ineludibili.

Quel che mi chiedo, però, da essere umano miseramente pensante, è: “è davvero finita qui?”
Davvero quel che si poteva produrre attraverso quella immensa e faticosa sovrastruttura che chiamiamo “pensiero” deve considerarsi esaurito?
E’ questo, dunque, è questo mondo il massimo e più avanzato punto di equilibrio possibile che siamo stati capaci di raggiungere?
Un capitalismo (dal volto più o meno feroce a seconda delle possibilità) è davvero il massimo che gli uomini riescono ad immaginare ed a mettere in pratica?
Abbiamo sviluppato tecnologie straordinarie, capaci di curare e dar da mangiare a tutta l’umanità, eppure non riusciamo a stabilire ed a mettere in pratica priorità semplici come “far vivere il maggior numero possibile di persone in un modo decente”?

L’essere umano è davvero, in fondo, inseparabile dal suo istinto alla sopraffazione?
Dobbiamo accettare l’idea che né la cultura né la consapevolezza della capacità di amare, in fondo, possano modificare questo istinto?

Ad esempio: Marchionne è una persona indubbiamente colta ed intelligente, eppure quando afferma “lavoro 18 ore al giorno, QUINDI ho pienamente diritto di godere di un reddito 435 volte superiore a quello di un operaio italiano, (e MIGLIAIA DI VOLTE rispetto ad un abitante dell’Africa)” non esprime con semplicità il più feroce degli istinti di sopraffazione?
Sentire affermare con naturalezza che il valore di sé (o il valore che IL MERCATO attribuisce alla propria professione) può essere pari alla somma di quello di centinaia, migliaia di altri individui nel mondo non è una cosa che dovrebbe farci sobbalzare sulla sedia?
Occhio, non lo dice e non lo pensa mica solo Marchionne.
Lo pensiamo anche noi quando, istintivamente, ci sentiamo “superiori” non solo a chi “non ha voluto studiare” o “non ha voluto farsi il culo”, ed in questo inseriamo almeno una giustificazione di tipo meritocratico, ma anche a chi – semplicemente – ha avuto la sfiga di nascere in una parte del mondo esente da privilegi.
Riteniamo che il nostro lavoro, il nostro salario sia qualcosa di dovuto, “un diritto”, mentre esser nati qui – dove il capitalismo, per ragioni storiche e di “resistenza culturale” non ha semplicemente potuto esprimere appieno il suo potenziale di ferocia – è stata semplicemente una botta di culo (e poi, sì, ci sono infinite varianti: c’è chi di culo ne ha avuto meno e chi di più, ma se assumete come parametro di riferimento questo o questo direi che sul termine “culo” ci sia alla fine da convenire).
E’ vero, a volte ci “sensibilizziamo” od acquistiamo consapevolezza, ma nel quotidiano, anche per meri motivi di sopravvivenza, non possiamo star lì tutti i momenti a pensare che anche la nostra sfigatissima e precaria condizione quotidiana è comunque infinitamente migliore di quella in cui versano i cinque sesti dei nostri fratelli umani che sono sparsi per il mondo.

Riporto qui un pezzo di post che scrissi a gennaio:
"A Salvador de Bahia, una delle città più belle e disperate del Brasile, puoi essere portato ad ammirare la splendida città vecchia, capolavoro dell’architettura coloniale portoghese, fatta di bellissimi edifici color pastello, di stucchi candidi, di forme morbide e curvilinee, e rimanerne affascinato.
Ma non puoi (e non devi) non andare in altri due posti della città dove puoi comprendere il senso della parola “inferno”.

Il primo luogo è (ancora oggi) il poverissimo quartiere detto degli “Alagados”. Il nome è ironico, perché si tratta di palafitte di legno costruite direttamente sugli scarichi fognari a mare della città., collegate fra loro da incerte e precarie passerelle marcite.
L’alta marea provvede periodicamente a innalzare il livello dei liquami sui pavimenti della abitazioni.
Qui vivono centomila persone. Centomila. Arrivate da qualsiasi parte del paese, come gli abitanti della favelas di Rio e San Paolo, in cerca di una speranza qualsiasi tra l’immondizia del presente.
Come a Rosarno e nelle periferie delle nostre città, anche se a Salvador tutto è moltiplicato per cento: i numeri, così come la disperazione e l’orrore.
Immaginate la situazione igienica, morale, educativa. Non vi racconto cosa significa, qui, guardare negli occhi le persone, o – peggio ancora - i bambini. Immaginate da voi la sensazione che si può provare: immaginate come quello sguardo – accompagnato spesso, e questa è la cosa più sconvolgente, da un sorriso sincero - possa cancellare in un millisecondo, dal nostro cervello da uomini superiori, tutte le migliaia di cazzate che ci hanno inserito a forza.
L’affollamento di minchiate (i programmi tv, la macchina nuova, il cellulare, i viaggi, la “qualità della vita”, il buon cibo, gli abiti eleganti, l’invidia, la carriera, la competizione sociale) si dissolve all’istante, e nell’immenso spazio vuoto che si crea all’improvviso lampeggia una scritta che recita qualcosa come “dare un senso alla vita”.

E’ uno shock. Uno schiaffo violento al castello di bugie su cui costruiamo l’idea di un mondo “sviluppato” e di uno “arretrato”, che lo fa crollare come fosse sabbia – e poi, per tutta la vita, non c’è più verso di rimetterlo insieme.

Un altro inferno, a Bahia, è la discarica della città. O, meglio, la città nella discarica.
Tra le montagne di rifiuti di ogni genere, ed i milioni di variopinti sacchetti di plastica lacerati e sventolanti come bandiere tibetane, ci sono delle autentiche strade. E, ai margine delle strade, direttamente su rifiuti, le tende in cui vivono le persone. Quasi sempre si tratta solo di un telo di plastica agganciato su qualche bastone.
Qui vivono centinaia di persone, in maggioranza bambini.
Attendono l’arrivo dei camion della spazzatura, attorno ai quali, quando il pianale rovescia altra immondizia sulle montagne già esistenti, si affollano come formiche operose.
E dallo scarto della società civile traggono non solo rifiuti da rivendere o da impiegare per costruire rifugi meno precari (materiale ferroso, legno): ma cibo, che viene consumato subito, con le mani che pescano a cucchiaio, perché la fame e la disperazione se ne fottono assai del bonton.

Moltitudini, dunque, che non possono essere definite deficienti o “fallite”, come si è tentati di fare sbrigativamente secondo la nostra concezione “da vincenti”: sono soltanto parte di quella immensa maggioranza di persone che nel mondo hanno avuto la sfiga di nascere dalla parte sbagliata del mondo (a Salvador de Bahia, si tratta del 90% della popolazione).

Senza lavoro, senza soldi, senza averi, senza cibo, senza presente né futuro, in un mondo che non tollera la povertà: e, anzi, non vuole nemmeno pensarci.


Noi “che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, noi che troviamo tornando a sera il cibo caldo”, come diceva Primo Levi, siamo portati a pensare che la differenza tra noi e “gli altri”, nel senso degli ultimi del mondo, sia solo una questione di “volontà”.


Se uno ha buona volontà…se ha voglia di lavorare…se si comporta bene…se dice sempre sì…se si adatta…se è “meritevole”…


Continuiamo a raccontarci queste palle, d’accordo: è molto più semplice che ammettere che l’ingiustizia su cui si basa questo mondo è semplicemente intollerabile, e che ne siamo in qualche modo complici nel momento in cui neghiamo la verità, e ci ostiniamo a “parlare d’altro” (mai della vita, ma in genere di ciò che in essa vi è di più futile).”


E dunque: dobbiamo rassegnarci all’idea che la rappresentazione di un mondo RADICALMENTE sovvertito nel suo assetto attuale sia non solo non proponibile, ma nemmeno più IMMAGINABILE?
NO. Io credo di no. Perché solo continuando disperatamente, forsennatamente, maledettamente ad immaginare, sognare, desiderare, spargere i semi di un mondo profondamente diverso, potremo trovarci preparati quando - per una di quelle circostanze che capitano ogni tanto ma inesorabilmente nella storia - si creerà una fessurazione, una crepa di questo mondo.

Quello sarà il momento in cui infilare in essa, con tutta la forza possibile, il cuneo della nostra rabbia.

giovedì, novembre 11, 2010

Il caso ed il sorteggio come antidoti al fallimento della democrazia e del merito?

Poche settimane fa, tre ricercatori dell'Università di Catania hanno vinto a Boston il premio IgNobel (una sorta di parodia intelligente del Premio Nobel, che premia ricerche stravaganti, assurde o curiose) per il settore Management, con uno studio sull'organizzazione aziendale, e in particolare "per aver dimostrato matematicamente che enti e aziende sarebbero più efficienti se promuovessero le persone in modo del tutto casuale".

(Qui troverete una nutrita rassegna stampa sulla ricerca, ma ne ha parlato in sintesi qui anche la mia amica blogger Chicca.

Quelle che seguono invece son parole mie, anche se scritte già altrove...)

"Nulla infatti garantisce che una persona che sa eseguire il proprio lavoro con competenza sia altrettanto brava, una volta promossa, a svolgere le nuove mansioni: e ovviamente non sarà più "promossa", quindi spostata dal nuovo ruolo, poiché non sarà più in grado di manifestare bravura e competenza: risultato, rimarrà prima o poi congelata nel ruolo che le è meno congeniale.

"In una organizzazione gerarchica in cui i ruoli non sono strettamente dipendenti, i membri della stessa vengono promossi fino a raggiungere il loro massimo livello di incompetenza": questo principio, enunciato da Laurence J.Peter nel 1969, è stato dimostrato da Rapisarda e dai suoi colleghi simulando al computer le dinamiche di una ipotetica azienda con 160 dipendenti organizzati su sei livelli.

Gli scenari analizzati sono stati due: un'organizzazione in cui i ruoli nei vari livelli sono dipendenti, e quella in cui i ruoli non lo sono (la situazione prospettata da Peter): la simulazione ha calcolato l'efficienza dell'organizzazione adottando diverse logiche di promozione.
E ha dimostrato che, quando non c'è relazione di competenza tra i ruoli, promuovere il più competente è la strategia peggiore: conviene promuovere a caso, o alternando il più competente con quello che lo è meno.

Risultati provocatori? Più semplicemente, dai risultati della ricerca giunge un invito a non adottare esclusivamente punti di vista convenzionali ed automatici, quando si tratta di prendere una decisione importante per un'organizzazione: un "pensiero alternativo" può produrre risultati positivi inaspettati."

Ed in questa intervista , uno dei ricercatori premiati risponde così alla domanda che segue:

"La casualità può essere un agente di innovazione delle scelte, dunque? Potrebbe migliorare i risultati rispetto a scelte dettate esclusivamente dal "raziocinio", e non solo all'interno di una organizzazione?Anche nella nostra vita di individui la "scelta casuale" potrebbe portare risultati inattesi e positivi?

E' sicuramente così, pensi ad esempio all'evoluzione naturale. Le mutazioni sono casuali e se danno un vantaggio alla specie non vengono certo rimosse (promosse ad altro ruolo...) ma incentivate e rafforzate. Esattamente quello che noi proponiamo. La casualità fa emergere possibilità nascoste, talenti che magari non avrebbero nessuna possibilità di emergere. Quante volte leggendo qualcosa per caso ci ha fatto nascere un'idea vincente. Io credo che tutti abbiamo qualche esempio di questo tipo all'interno della propria esperienza familiare e/o lavorativa."

La seconda "provocazione culturale" che vi propongo non è meno interessante, ed è legata all'uscita di un libro del politologo franco-americano Bernard Manin ("Principi del governo rappresentativo",Il Mulino, Bologna 2010,pp. 312, € 30)., recensito qui.

Riprendiamo dal sito "Lo spiffero":

La democrazia si è ridotta a scheletro di procedure, a feticcio di regole. Questo percorso è ricostruito, in modo originale, da Manin, il quale dopo aver puntualmente esaminato le cause si concentra sull’avvento dell’odierna “democrazia del pubblico”, ovvero l’epoca contemporanea in cui i partiti cedono spazio alle persone, l’organizzazione alla comunicazione, mentre le identità collettive si indeboliscono, compensate dalla fiducia personale diretta.

Il rapporto con la società e gli elettori avviene, sempre più, attraverso i media e il marketing politico.

Manin parla di “democrazia del pubblico” perché lo spazio della rappresentanza coincide con lo scambio fra leader e “opinione pubblica”. Che avviene, prevalentemente, attraverso i media. In modo asimmetrico, perché a senso unico.

Ciò non sancisce la fine del sistema democratico, ma ne rappresenta semmai una metamorfosi. La personalizzazione, in particolare, non va considerata una degenerazione, ma un elemento costitutivo della democrazia rappresentativa. Perché la rappresentanza è, per sua natura, “personale”. Fin dall’origine, al tempo del parlamentarismo (nel XVIII e XIX secolo). Ma anche nell’epoca della democrazia - e dei partiti - di massa i rappresentanti erano - sono - persone, che esercitano un grado, più o meno ampio, di autonomia personale.

Può sembrare una provocazione astratta, ma non va in questa prospettiva sottovalutata la possibilità rilanciata da Bernard Manin di affiancare ai classici, ma scricchiolanti metodi di selezione della classe dirigente anche quello in uso nella polis ateniese ai tempi di Pericle: l’estrazione a sorte. Un metodo che gli stessi Montesquieu e Rousseau hanno in più occasioni rivalutato. Un metodo che peraltro, come ha ricordato il bel film “Il sorteggio” nei giorni scorsi, è ancora previsto pur se solo nell’ambito molto particolare dei giudici popolari.

All’origine del sorteggio ateniese c’era anche al fondo un pensiero religioso: il fatto che gli dei avrebbero guidato le scelte. Ma c’era soprattutto il principio della rotazione delle cariche, cioè della necessità che ogni cittadino potesse avere sia il dovere di essere governato, sia il diritto di governare. «In altre parole – afferma Manin – la libertà democratica consisteva non nell’obbedire solo a se stessi, ma nell’obbedire oggi a qualcuno al cui posto ci si poteva trovare domani».

AGGIORNAMENTO!

Pubblico volentieri questo documento inviatomi da Sileno, che riguarda il sistema in uso per la nomina del Doge:

Venezia, anno 1268. Sì, avete letto bene: 1268. Settecentoquarantuno anni fa. Si elegge per la prima volta il Doge della Serenissima. Come fanno, i veneziani? Si affidano al sorteggio.

Non a un sorteggio qualsiasi, come un banale sorteggio del superenalotto. No, i veneziani, che in quel periodo già spadroneggiano in tutto l’Adriatico e oltre, e quindi hanno bisogno di una guida seria, scelta bene, eleggono il Doge con un sistema di sei sorteggi consecutivi.

I membri del Gran Consiglio votano e, contemporaneamente, a ogni votazione, procedono a un sorteggio. Elezione e sorteggio non rappresentano più una contraddizione, ma un congegno virtuoso.

Lo spiega bene Mario Ascheri nel suo libro “Le città-Stato” (ed. Il Mulino).

In sintesi: con il primo sorteggio si individuavano i primi 30 elettori, cioè i 30 membri del Gran Consiglio a cui il “ballottino” (un ragazzo scelto a caso) consegna le “ballotte” contenenti la scritta “elector”.

Con il secondo sorteggio, sempre con la stesso sistema delle “ballotte”, i 30 vengono ridotti a 9. Questi 9 elettori scelgono 40 cittadini, ognuno dei quali deve ottenere almeno sette voti.

Terzo sorteggio e nuova riduzione di numero: i 40 eletti diventano 12. I 12 quindi votano e scelgono 25 cittadini, che devono ottenere non meno di nove voti a testa.

Con il quarto sorteggio e la quarta estrazione di “ballotte” i 25 ridiventano 9. Questi 9 votano per 45 cittadini, ognuno dei quali deve ottenere almeno sette voti.

Siamo al quinto sorteggio, che riduce i 45 appena eletti a 11. Questi 11 eleggono i 41 veri elettori del Doge, ognuno dei quali deve ottenere almeno nove voti. I 41 votano segretamente per chi gli pare e le schede finiscono dentro un’altra urna.

Da quest’urna, ed eccoci al sorteggio numero sei, viene estratto un solo nome.

Ma non è finita qui.

L’estratto veniva “processato” e chiamato a difendersi. Dopo di che, si votava di nuovo. Per poter essere eletto Doge, l’estratto doveva ottenere almeno 25 voti favorevoli. Altrimenti si estraeva un altro nome e si ricominciava la procedura.


Finalmente la risposta...!


...alla domanda che noi piemontesi ci poniamo da diversi mesi:
"ma ROBERTO COTA, oltre a sparare cazzate e stare sempre in TV, A COSA SERVE?"

Ovviamente, qui era in missione in Veneto. A far cosa, lo sa solo lui: si vede che il Trota non ha ancora le competenze per reggere i posaceneri.

(foto rubata al sito http://lospiffero.com, che sull'argomento pubblica un post che merita...)