martedì, marzo 24, 2009

Le chiedo scusa, signor Racz.

Le chiedo scusa, a nome del mio paese, perchè non so se qualcuno lo ha già fatto.
Perchè lei, signor Racz, è stato detenuto nelle carceri del nostro paese dal 4 al 22 marzo, soltanto perchè corrispondeva all'immagine di un "mostro stupratore" di cui la polizia ed i mass media avevano bisogno subito, dopo aver scatenato una campagna di commozione ed indignazione ad alto contenuto xenofobo.
Lei era perfettamente adatto allo scopo, signor Racz: non italiano, non ricco, non bello.
Anzi, con una faccia adatta a manipolazioni lombrosiane, come ha spiegato assai bene Chiara in questo post.
Le chiedo scusa, signor Racz, anche per quanti l'hanno chiamata "faccia da pugile"; darle un soprannome dispregiativo è stato un modo come un altro per tentare di condannarla prima della sentenza.
Le chiedo scusa, signor Racz, a nome di chi l'ha riconosciuta come aggressore e poi si è accorto che non era vero. Porti pazienza, e comprenda come le vittime della violenza possano essere sensibili ad un clima eccitato, che chiede vendetta subito.
Le chiedo scusa, signor Racz, per tutte le parole stupide ed offensive pronunciate quando ormai era chiaro che lei non c'entrava nulla.

UPDATE: Le chiedo scusa, signor Racz, ma lo avrei fatto più volentieri se non fosse andato a "Porta a porta".Capisco il bisogno di soldi e di risarcimento, ma così ha fatto un favore agli stessi che volevano mandarla sulla forca.

lunedì, marzo 23, 2009

Aurora (racconto)

Lei vive in una mansarda del centro città, sopra sei piani di gente comune.

Sola, con il suo gatto.

La sua mansarda ha un’unica, piccola finestra puntata verso le stelle.

Dentro, un lettone con un piumone naif, un vecchio armadio vinto dalle tarme, zeppo dei suoi abiti più cari, ed un lavandino ed un bugliolo triste nascosti dietro una tenda.

In dieci metri quadri c’è tutto ciò che è rimasto di lei, tutto ciò che è importante.

Ce n’è voluto, di tempo, per liberarsi dal superfluo.

Da un marito ricco e noioso, che la possedeva per abitudine e vanità.

Da una famiglia miserabile per sogni e vocazioni, che ripudiava la bellezza quanto la felicità, da un nugolo di fastidiosi amanti che se la portavano in giro come una spilla.

Aurora è ancora giovane e bella, e la sua solitudine è qualcosa di simile all’aria fresca, ad un tramonto di montagna, ad un prato in primavera.

E’ come la città senza automobili e fabbriche: pulita, silenziosa, adatta per sentire il proprio respiro. Quando torna dal lavoro, Aurora si fa una doccia e poi si butta, nuda, sul piumone, con lo sguardo che esplora il cielo attraverso la finestra.

E si ascolta, con una sigaretta in mano e il pelo di Minou sotto l’altra, il lento discendere del fumo azzurrino nei polmoni. Socchiude gli occhi, e resta così per ore, sino a quando un brivido o la fame le scuotono con dolcezza le membra.

Non mangia quasi mai, Aurora, ma il suo corpo gode del poco che le dà, diviene flessuoso ed invitante.

A volte, qualcuno bussa alla porta. E’ il suo ragazzo di un’ora (di un anno, di un secolo) che, senza una parola, la esplora con le labbra e la lingua su tutto il velluto che la ricopre, soffermandosi sulle morbide colline amorose, sul solco rosato, arandolo al tempo dei sospiri lievi di lei.

Poi, se ne va. E lei resta ancora lì, sola, con un sorriso grande come il mondo che si specchia nella luna.

Ancora una Brunettata (tra le peggiori) e poi smetto

Riporto qui (è doveroso far sapere a tutti!) la lettera scritta dal Ministro Brunetta e pubblicata su "La Stampa" di sabato 21 marzo 2009.

Dopo (aver vomitato) la commentiamo insieme.

Guai a sottovalutare i teppisti dell'Onda

RENATO BRUNETTA
Ho definito «guerriglieri» i non studenti dell’Onda.
Mi sono sbagliato e corretto subito dopo: sono teppisti che giocano alla guerriglia. Ringrazio dell’ospitalità, che mi consente di tornare sul tema, perché non voglio contribuire a fraintendimenti gravidi di conseguenze.
Si tratta di un fenomeno grave, di un sintomo preoccupante, da non trascurare, da comprendere nella sua reale natura. La rivolta è lo strumento con cui ci si ribella alle ingiustizie; i rivoltosi spesso esprimono valori e idee.
L’Onda mi ricorda la violenza negli stadi, dove il tifo vela il vero fine: la violenza.
C’è, poi, in loro una sola necessità: autorappresentarsi. Negli scontri le prime file pressano, tutti gli altri fotografano e filmano con i cellulari, per mettere poi in rete un’idea, quale che sia, di sé. Esattamente come gli hooligan. Sono loro stessi ad autorappresentarsi come violenti e non come studenti. Non sono studenti, nel migliore dei casi sono fuori corso da anni, per lo più non possono rimproverarsi d’avere sottratto alla vita troppo tempo per lo studio.


Non sono un movimento rappresentativo degli studenti, e non solo perché alle democratiche elezioni, negli atenei, sono stati cancellati (da democratico, io riconosco anche il diritto di non presentarsi, ma non quello di sostenere di rappresentare quelli cui non si è neanche chiesto il voto).
Ma perché la loro azione è tutta indirizzata a togliere, non dare diritti agli studenti. E qui ci sono molte responsabilità, compresa quella dei rettori.
C’è, realmente, vita democratica nelle nostre università? È bassa, perché gruppi di facinorosi e violenti, richiamandosi ora alla simbologia nazista ed ora a quella comunista, con una tale bassezza di contenuti e vuoto d’idee da essere anche comunicanti, usano la forza per impedire a chi ha qualche cosa da dire o da discutere di farlo liberamente.
Questo, non altro, è un attacco alla democrazia, un’evocazione d’avventure che anche il Sud America ha superato. Vedo che non lo sanno, che sfugge loro la natura sinistra dei regimi populisti lì ancora al potere, termometro, anche questo, di un’ignoranza che li distanzia da ogni attività ed identità di studio. Non vanno sottovalutati. Osservate quel che succede in Grecia, respirate il clima della piazza francese, fate i conti di una crisi che ancora morde, e valutate la necessità di non distrarsi da chi è pronto ad approfittarne per trasformare il disagio (che c’è) in rabbia, la protesta (legittima) in scontro, la manifestazione in pestaggio, l’opposizione in violenza. Guai a far finta di non vedere. Certo, guai anche a vedere quello che non c’è. Ed ho fatto ammenda. Ma sottovalutare è un errore che le forze politiche e sindacali, specialmente della sinistra, non possono commettere ancora una volta. Il passato non torna, mancandone le condizioni storiche e geopolitiche, ma questo non vuol dire che non si possano commettere sempre gli stessi errori. Con questo non penso, proprio per niente, che le cose vadano bene, in generale o nell’università in particolare. Anzi, sono convinto che l’università ancora attende la sua rivoluzione del merito, per docenti e discenti, che metta in cattedra solo chi studia ancora e laurei solo chi ha studiato, consentendo così una promozione delle capacità che è l’unico viatico alla giustizia sociale. Contro caste e dinastie. Ma quando leggo, a fatica, la sgrammaticata incoerenza delle critiche che la presunta Onda ha rivolto alle riforme proposte dalla collega Gelmini, mi convinco che il maroso si muove nella corrente dell’Italia peggiore, connivente con quel che noi riformatori vorremmo cambiare. Il giornalismo, compiacendo il loro esibizionismo autocelebrativo, il loro opposto estremismo autoidentitario, li chiama «Onda». Fiuto l’aria e mi accorgo che non è acqua limpida, quella che s’agita e s’infrange.


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Complimenti, Ministro: sta imparando benissimo la lezione del Presidente Emerito Cossiga.
Un mix di insulti (gratuiti), di provocazione, di "mani messe avanti" per giustificare le prossime teste rotte, i prossimi arresti, la prossima repressione.
Ma lei sa bene che questo atteggiamento non farà altro che renderci più teppisti, più hooligan, più fannulloni: se questi sono i nomi che lei vuol dare a chi non può esservi più semplice avversario (poichè avete distrutto le regole per poterlo fare), ma dovrà necessariamente esservi nemico, li accettiamo e li facciamo nostri.

venerdì, marzo 20, 2009

Altre Brunettate & Gelminate

Ricordate benissimo tutti, tra le sparate di Brunetta, quella sulla volontà di mandare in pensione le donne a 65 anni. Ipse dixit: "Le donne dovranno in futuro andare in pensione a 65 anni. Cominciando da quelle che lavorano per la pubblica amministrazione."
(qui uno degli articoli che ne parlarono - era il dicembre scorso).

Ieri, il buon Brunetta ha fatto una conferenza stampa congiunta con quell'altro fenomeno della Gelmini, nel corso della quale ha espresso gli apprezzamenti che sappiamo sugli studenti (vedi post precedente).

Ma in quella conferenza stampa, in realtà, i due hanno parlato di scuola (per come ne sono capaci).
Ed hanno detto una cosa interessante e divertente, che è riportata nero su bianco in questo comunicato stampa del Governo ironicamente intitolato "Iniziative a favore dell’ingresso di giovani e precari nella scuola" (come sapete, la legge 133 ne butta nel cestino alcune centinaia di migliaia che mai più entreranno nella scuola...ma andiamo avanti).

Si annuncia, nella conferenza stampa, la prossima presentazione di un emendamento Brunetta/Gelmini per aumentare il numero di insegnanti che andranno in pensione nel 2009, considerando - per maturare i 40 anni - l'anzianità contributiva (con il conteggio degli anni di laurea) invece di considerare l' anzianità di servizio.

Questo dovrebbe anticipare, nell'AS 2009/2010, l'andata in pensione di 7500 docenti e 1500 ATA (e l'anticiperà dunque di 4-5 anni rispetto a quella che sarebbe senza l'emendamento!).

Tradotto in soldoni, gli insegnanti (per l'anno prossimo o anche per i successivi?) potrebbero dunque andare in pensione con 35-36 anni di servizio.

Sissì, è proprio lo stesso ministro Brunetta che a dicembre diceva " Le donne dovranno in futuro andare in pensione a 65 anni. Cominciando da quelle che lavorano per la pubblica amministrazione."
Ma, come sempre, è stata una strumentalizzazione mediatica e/o eravamo noi comunisti che abbiamo capito male:-))))

Ma nessuna preoccupazione: se tutto va come sempre, l'emendamento sarà presentato (SE sarà davvero presentato), poi ritirato e probabilmente verrà considerato a posteriori una invenzione dei giornali ostili al governo.:-)

Ah, Brunetta, Brunetta, sei veramente straordinario!

Mah...mica è finita qui.

C'era la Gelmini, ed anche lei doveva dire la sua.
Come sapete, la sciagurata, famigerata, orrida legge 133/08 voluta da Tremonti impone il taglio di 42.000 posti di docenza nella scuola solo per il prossimo anno scolastico.
E la Gelmini (qui le dichiarazioni riprese dal sito Tecnica della Scuola) afferma giuliva e contenta: "Con la Finanziaria era stato previsto un taglio di 42.000 posti. Ma sarà un numero ampiamente inferiore perchè abbiamo avuto 31.000 pensionamenti e quindi significa che avremo un numero molto inferiore di tagli: 11.000 supplenti non riconfermati e poi altri 7.000 supplenti non confermati a causa dell'esubero di docenti di ruolo e della riduzione di spezzoni-orario. La somma fa al massimo 18.000 supplenti non riconfermati. È comunque un dato pesante, ma non sono i 42.000 previsti dalla Finanziaria”.

Dunque: 31.000 pensionamenti di docenti, che non verranno sostituiti.
11.000 supplenti non riconfermati.
E, poi, altri 7000 supplenti non confermati "a causa dell'esubero di docenti di ruolo e della riduzione di spezzoni-orario".
31.000+11.000+7.000...a casa nostra fanno 49.000 posti di lavoro perduti per sempre.
18.000 precari in meno anzichè 42.000, ma ben 49.000 posti in meno.
Che cazzo gioisci?

Naturalmente, nel comunicato stampa intitolato "Iniziative a favore dell’ingresso di giovani e precari nella scuola", queste affermazioni non si trovano.Strano, neh?:-)

Grazie, Brunetta, per averci indicato la via!

Disse Brunetta: "Gli studenti dell'Onda vanno trattati come guerriglieri".

Disse il grande Ernesto:"Il guerrigliero è un riformatore sociale, il quale impugna le armi per rispondere all'irata protesta del popolo contro l'oppressore e lotta per cambiare il regime sociale colpevole di tenere i suoi fratelli inermi nell'ombra e nella miseria.»

Brunetta, fà atensiun...che prima o poi qualcuno ti prenderà sul serio, e saran dolori!

giovedì, marzo 19, 2009

Papa Razzister

Una ragazza bianca, morta da quasi vent'anni, ha fatto agitare alquanto i membri di una setta, che si son messi ad urlare "assassini" nei confronti di chi la amava e di chi voleva donarle la quiete e l'oblio.

Da quella stessa setta, è giunta la scomunica verso chi ha pietosamente sollevato una bambina di nove anni dall'orrore di un figlio generato dal disprezzo e dalla violenza.

Ora il capo di quella setta, in nome del rispetto di un dogma assai discutibile, accetta con leggerezza che possano morire MILIONI DI PERSONE di AIDS. Ma son neri e poveri: carne da macello da sacrificare ad un Verbo corrotto ed insano.

Buon Dio, nel caso tu esistessi, fai uno sforzo e dacci speranza: spazzala via e subito, questa setta che sporca di fango il tuo nome. Per il tuo bene, e per il bene di coloro che credono sinceramente in te, ed a te guardano come speranza e bisogno di giustizia, di eguaglianza, di fratellanza - e dunque mi sono fratelli. Anche se non esistessi, non ti meriti davvero tutto questo.

Update: ennò, mica posso lasciar perdere, a margine, il buonuomo PilatoFrattini che dice "noi non commentiamo le parole del Papa": che razza di ipocriti! Io dopo una dichiarazione del genere proibirei per legge l'uso del profilattico a tutti i ministri ed ai parlamentari, sarei proprio curioso di vedere come va a finire...

martedì, marzo 17, 2009

Son caduto nel freezer (racconto)

Non so come sia successo, non ricordo: ma non c'è dubbio, sono nel freezer.
Fa freddo qui, tra la carne ed il pesce, tra le colline di piselli, oltre l'annebbiamento del cellophane.
Si, è il freezer di casa mia, quello che ho comprato e messo in garage l'altra estate: doppio motore, 200 litri.
Non che l'abbia riconosciuto da fuori, ma da questa trota che fissa l'oscurità, con occhio brillante, ce l'ho proprio messa io, qualche mese fa, quando siamo tornati, il Toni ed io, dalla pesca all'Orco.
Beh, che ci faccio qua?
E' agosto, ma non è una buona ragione, chiudersi qui per sfuggire al caldo.
Ma mi ci son chiuso io? O ci son caduto dentro? O mi ci han buttato, mia moglie o mio figlio?
Boh. La cosa più buffa è che non mi sento.
Voglio dire, vedo (poco) e penso come uno che è dentro un freezer, ma il mio corpo non c'è.
Non ci son le mani, non ci son proprio fisicamente: non posso toccarmi perché non c'è nulla da toccare. Parbleu!
Anzi, ogni tanto vedo il mio corpo sbaragliato dalla luce, fuori, quando d'improvviso lo sportellone superiore del freezer viene alzato.
Mi vedo frugare tra le frattaglie gelate ed insaccottate, prendere qualcosa, levare col dito il ghiaccio dall'etichetta, rigettare il sacchetto (stumf!) ed afferrare finalmente l'insieme giusto di cocci alimentari.
Poi, lo sportellone viene richiuso ed io resto diviso:il mio corpo fuori, che cammina con un pezzo di coniglio, e la mia mente qua, al buio, a venti gradi sottozero.
Lo chiamerei volentieri, il mio IO, alla prossima apparizione dallo sportellone del freezer.
Ma non posso: la voce, il corpo, i gesti sono rimasti a lui, ed a me solo il pensiero, la mente, le sinapsi dei circuiti cerebrali: non ho neppure spessore,colore, visibilità.
Se anche potessi, il gelo mi impedirebbe ogni gesto: se avessi consistenza, sarei troppo simile a quel sacchetto di carote affettate.
Già, son caduto nel freezer.
Possibile che lui, cioè IO, non me ne sia accorto ?
Possibile che stia vivendo senza di me ?
Come diavolo fa ?
Eppure non mi sembra sofferto, quando viene ad aprire il freezer (di rado, molto di rado, anche se ho perso la nozione del tempo): io spero sempre che si accorga di avermi smarrito, e venga a cercarmi.
Ma ogni volta, nelle poche decine di secondi in cui la luce lo illumina, lo vedo tranquillo, sereno, completo.
Non ha mai inquietudini sul volto, né ombre nello sguardo.
Risolve le sue questioni di polli e gelati, e poi se ne va, calando lo sportello.
Anzi, ho quasi l'impressione che il suo volto sia ogni volta più liscio, più rilassato: l'ultima volta mi è sembrato quasi uno di quegli ebeti inespressivi che si entusiasmano negli spot per un whisky o una gazzosa.Questo mi fa un po' incazzare.
Io ho tutti i suoi ricordi, qua. Come fa ad andarsene in giro senza?
E poi ho tonnellate di immagini mentali tratte da ogni attimo della sua vita, da ogni libro letto, da ogni sguardo incontrato, da ogni bocca baciata.
Ci sono i Rolling Stones, le manifestazioni, la sua prima moto.
E poi la bocca di Alba, i lunghi capelli di Aurora. Le ferie in Corsica.
La nascita di suo figlio, le foto di Bakunin, i concerti degli U2.
L'amore. La gioia. Il dolore.
Tonnellate di roba. Da scriverci milioni di libri, se uno volesse dar forma scritta alle sensazioni.
E quel cretino, invece, mi lascia qua. A cristallizzarmi. Tutto congelato.
Continua ad aprire lo sportello, lo sguardo quasi trasparente, il sorriso alla Glen Grant.
MI rendo conto che inizio ad odiarlo, accidenti a lui.
Ma che posso fare ? Nulla, solo aspettare.
Che il dannato freezer si guasti, e che questa trota al mio fianco chiuda gli occhi.
Magari, quel cretino sarà costretto a spegnere il freezer, a svuotarlo e ad entrarci dentro per ripararlo.
Sarà allora che, senza pietà, gli salterò addosso.
E lo farò di nuovo mio.

venerdì, marzo 13, 2009

A saperlo, la prossima volta li si aspetta col cric...

...almeno ci si sfoga sulle auto blu!
Franceschì, io pure Marrazzo ormai lo butterei almeno fuori dal piddì assieme a Bassolino!...
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Le Iene: "40 auto blu al Coni
per ritirare i biglietti omaggio"

ROMA - Auto blu per ritirare i biglietti omaggio della partita di Champions League Roma-Arsenal. Stasera alle 21.10 su Italia 1, nella puntata de "Le Iene Show", andrà in onda un servizio che mostra come oltre 40 auto blu in servizio siano state utilizzate per ritirare presso la sede del Coni i biglietti della partita. Le Iene si sono appostate con fotografo e camera nascosta davanti alla sede del Coni, a due passi dallo Stadio Olimpico, il giorno della partita. Una collaboratrice si è finta una giornalista di un'emittente romana intenta a capire quali personalità avrebbero riempito in serata la tribuna d'onore.

"Il ministro Renato Brunetta - si legge in nota delle 'Iene Show' - sta cercando di combattere gli sprechi nella Pubblica Amministrazione; uno dei più emblematici è l'abuso delle auto blu, ovvero macchine pagate con soldi pubblici e che dovrebbero servire a soddisfare interessi statali. Le Iene si sono dette: sicuramente i politici manderanno parenti, amici o al massimo un pony express a ritirarli. Mica utilizzeranno la auto blu, quelle pagate dai cittadini".

Nel servizio in onda stasera si vedranno invece arrivare in serie auto blu di tutti i tipi, italiane, straniere, con lampeggiante o paletta. Dopo un po' gli autisti ammettono, anche se non fanno nomi, che i biglietti sono per il Ministero delle finanze, per la Camera dei Deputati, per alcuni Ministri o Deputati, per la Presidenza del Consiglio.

Ma c'è anche chi fa nomi e cognomi di chi ha mandato a ritirare il biglietti con le auto blu: tra loro, il sottosegretario del Lavoro Pasquale Viespoli e il presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo, che puntuali in serata verranno immortalati dai fotografi durante Roma Arsenal all'Olimpico in tribuna Monte Mario.

E quando non sono gli autisti a parlare bastano i contrassegni, ripresi accuratamente dalle telecamere, che citano testualmente: "Servizio di Stato", "Camera dei Deputati", "Senato della Repubblica 2008", "Palazzo Chigi Presidenza del Consiglio dei Ministri", "Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro", e ancora "Camera dei Deputati" e "Presidenza del Consiglio Galleria Alberto Sordi". Se mancano i contrassegni, ci sono le palette esposte dagli autisti delle auto blu.

Tra quelle riprese si distinguono: la paletta della polizia regionale del Lazio, quella del Ministero dell'Economia e delle Finanze, del Ministero dell'Interno. In 6 ore davanti al Coni, sono state immortalate più di 40 auto blu venute a ritirare i biglietti per la partita. Di tutte, chiaramente, sono state annotate scrupolosamente modello e targa.

mercoledì, marzo 11, 2009

Il generale (racconto)

E' un vecchio pezzo, scritto per un altro contesto e un'altra guerra: ma è un modo per ricordare quella di Gaza, ormai scomparsa dai riflettori. Però Vittorio Arrigoni è sempre là, ed il suo blog è sempre qua. E ci aiuta a non dimenticare.

Guardi fuori, generale, oltre il vetro rigato dalla pioggia, ed il tuo sguardo opaco segue senza fretta le luci della berlina che si allontanano sul vialetto di ghiaia.

E’ un’altra notte, quella che è caduta, in cui rimarrai solo con i tuoi ricordi.
Con un dito rugoso tracci una linea sul vetro, mentre alle tue spalle il bel salotto resta silenzioso e vuoto, come il resto della casa di campagna in cui sei venuto a concludere la tua esistenza.
Socchiudi le palpebre, reprimi un fremito del corpo vecchio e stanco, ma non riesci a impedire che, nel tuo cervello, riparta ancora quel film: sempre il solito, sempre uguale.
In quel film, nel prologo della storia, indossi la tua divisa migliore, stirata di fresco dalle giovani ausiliarie delle truppe logistiche.
Sei ancora giovane, e sei uno dei più validi generali dell’esercito alleato. Il Comandante ha fiducia assoluta nelle tue capacità, ed è per questo che ti ha affidato la guida di una delle operazioni più difficili del conflitto.
La guerra, quando era iniziata, sembrava davvero un passeggiata, una marcia trionfale, e nelle cene tra ufficiali bevevate champagne in anticipo, per anticipare la gloria che vi avrebbe avvolto all’ingresso nella capitale liberata.
Ma nel film, dopo un mese dall’inizio della guerra, vi eravate infine impantanati in un conflitto senza via d’uscita: bloccati a venti chilometri dalla capitale, con la via del ritorno bloccata dalle città riconquistate dal nemico, accampati nel deserto nei pressi di un piccola città duramente difesa dalle forze avversarie, che sembravano ritemprate dall’allontanarsi di una sconfitta annunciata, e non mollavano mai, mai, mai.
Dietro di te, nel deserto nel quale avevate percorso centinaia di chilometri in tempi record, arrugginiscono ormai a decine i camion abbandonati dopo gli assalti nemici, e si disfano al sole – cinquanta gradi, cazzo… - i corpi straziati degli ultimi uccisi (i loro, non i vostri, prontamente recuperati dagli elicotteri e sigillati nei body bag per essere gloriosamente restituiti alla disperazione dei familiari ed alla venerazione della Patria).
Il Comandante sa che la guerra è a un punto cruciale. Il favore e gli applausi sono svaniti da tempo nel nulla, il Presidente si è convinto che questa avventura debba chiudersi in fretta, in tempo utile per far dimenticare i morti prima delle prossime elezioni. Le truppe che tornano a casa sono accolte dall’indifferenza e, sempre più spesso, dalla più aperta ostilità.
Resta un’ultima possibilità, per ridurre le proporzioni della sconfitta: arrivare alla capitale in qualche modo, prenderla, e tenerla per il tempo necessario a giustificare le motivazioni originarie del conflitto, tentare un’ultimo improbabile colpo al regime che ha tenuto oltre ogni aspettativa, e far dimenticare, almeno per un poco e attraverso una vittoria effimera, le migliaia di morti inutili, le città distrutte, le strategie del terrore, le reciproche crudeltà.
Il Presidente non è convinto, non vuole altri bagni di sangue in questo momento per non compromettere ulteriormente la propria immagine internazionale, ma il Comandante insiste, chiede che gli venga concessa l’ultima opportunità per una fine decorosa del conflitto.
L’ordine ti arriva nella notte. Nell’azione verranno impiegate tutte le forze che restano, e che possono garantire un potenziale di distruzione senza eguali. Quella piccola città che resiste dovrà essere spazzata via, e senza particolari cautele, per poter raggiungere la capitale entro la sera successiva.
Mandi in avanscoperta una pattuglia, agli ordini di un giovane ufficiale.
Non vuoi correre rischi: prima dell’alba, un robusto bombardamento convincerà gli ultimi resistenti, per quanto accaniti, ad abbandonare la difesa ed a permettere, alle prime luci del giorno, il passaggio della tua divisione.
E qui, generale, nel film ti vedi lucido e deciso, con le idee assolutamente chiare. Emozionato, come prima di ogni battaglia decisiva.
Affacciato all’ingresso della tenda, dopo aver congedato gli ultimi ufficiali, guardi verso la città che conquisterai, punteggiata da piccole luci fioche e rischiarata, a tratti, dagli ultimi incendi della giornata.
Sorseggi del buon bourbon, e pensi.
E mentre pensi, torna la pattuglia di esploratori. O quel che ne resta, visto che sono stati scoperti e, secondo i racconti spezzati del sottufficiale che guida il drappello di superstiti, catturati e portati nel cuore della città.
Un ulteriore problema si aggiunge a quelli che già hai, e per non pensarci lasci che il Four Roses ti incendi la gola con l’ultimo sorso.
Poche ore dopo, nella notte insonne, ascolterai il lavoro ben fatto dall’aviazione, e vedrai ancora i bagliori nuovi e accecanti che devono – DEVONO – consentirti di vincere.
Quando il sole finalmente sorge, generale, il tuo film supera il punto di non ritorno.
Hai nelle orecchie il rumore dei cingoli, e negli occhi socchiusi il bruciore della sabbia, quando, cinquanta minuti dopo, alle porte della città state per entrare.
Sembra una città deserta, abbandonata. Siete decisi ma cauti, e quando quel soldato con il viso sconvolto ti invita ad entrare in quella casa, una delle poche rimaste in piedi dopo il duro lavoro di distruzione, fermi la colonna con un cenno della mano.
Nel silenzio, varchi la soglia. All’inizio non comprendi quel che vedi. Sono macchie verdi e rosse, e ci metti un po’ a comprendere che quel sangue, quei corpi disarticolati, quello strazio è ciò che resta della tua pattuglia.
Non vuoi vedere – ed ancora oggi, oltre il vetro che gocciola, non vuoi ricordare – quella gola tagliata, quei volti tumefatti, quel corpo di giovane donna vistosamente violato prima dell’orrore finale.
Fai solo un cenno all’ufficiale che è entrato con te, ed esci con in bocca un gusto osceno, e nella mente qualcosa che non sai descrivere. Ti ascolti urlare ordini secchi e spietati, che fanno riprendere il rumore con un tono ancora più inquietante: la colonna si muove, i passi risuonano nella città deserta, i fucili cercano le anime nascoste tra le macerie per una vendetta.

Ti ricordi ancora esattamente, generale, che cosa hai detto al Comandante nel pomeriggio, dopo che tutto era finito.
O cosa non hai detto: dopo il passaggio della divisione, la piccola città si è trasformata in un cimitero fumante. Hai restituito lo strazio di quella casa moltiplicato per mille, e per tutta la mattina il rumore delle armi automatiche ha ritmato la vendetta. Nelle case, dentro i vecchi bazar, i tuoi uomini hanno sparato urlato violato, con gli occhi spalancati dall’orrore di una guerra ormai troppo lunga per consentire la sopravvivenza di qualcosa che somigliasse all’umanità.
Donne, bambini, guerriglieri, soldati, vecchi sono caduti senza che il loro grido superasse neppure il fragore delle armi.

Poi, ad un certo punto, tutto è finito.
I tuoi soldati, svuotati e stanchi, si sono fermati, nel silenzio rotto solo dai gemiti di qualche ferito lontano, da qualche sparo isolato e dai crepitii delle fiamme.
Il Comandante, al telefono, ti intima di fermarti: qualche reporter ha già raccontato e documentato la carneficina, il mondo sa già tutto, prima ancora che tu abbia riordinato le idee e dato un ordine logico a tutto il casino che hai in testa.

Ti ricordi, generale: la fine della guerra giunse quel giorno, quando la voce stizzita del Comandante riferì che il Presidente aveva dato l’ordine di tornare a casa.

Non fu bello, qualche giorno dopo, scendere dall’aereo e correre via tra i poliziotti, mentre la folla rumoreggiava ostile oltre le recinzioni della base, tenuta a bada dai mitragliatori spianati della polizia militare.
Non fu bello vedere che lo sguardo del Comandante, nelle insostenibili riunioni che seguirono, ti imputava il tradimento e la sconfitta, come se tu fossi il solo responsabile dell’esito di quella guerra disgraziata.
Ed i lunghi, dolorosi interrogatori della Commissione di Inchiesta si fecero ancora più duri quando, l’anno dopo, il Presidente vecchio e stanco perse senza sorpresa le elezioni, ed i nuovi padroni vollero chiudere i conti con durezza.
No, nonostante le insistenze non ti consegnarono in mano al Tribunale Internazionale: nessun generale ci sarebbe mai finito, lì, nessuno.

Ed ora, generale, davanti al vetro della finestra che dà sul vialetto, pensi che questi trent’anni ti sono pesati come un secolo, e che i capelli bianchi e il corpo incurvato e lo sguardo opaco non ti hanno sottratto a quel ricordo. E pensi che questo film non smetterà mai di tormentarti, anche se l’oblio della storia ha ormai consentito di dimenticarti, anche se nessuno urla più davanti alla tua finestra, anche se in quel paese ed in quella città si sono succeduti nuovi tiranni, con cui si sono fatti nuovi affari prima di fare nuove guerre.

Nel film che da quel giorno ti oscura lo sguardo, i morti sembrano osservarti con pietà: ma non riesci ancora a vederli, come non li vedesti allora.

Le cose che fanno son sempre peggio di come sembrano

Senza parole.
Che lo stiano facendo senza saperlo, o che - peggio ancora - ce l'abbiano ben chiaro, l'unica cosa certa è che sono inumani.

Redistribuire il reddito

Nessuna illusione: un governo come questo è nato per difendere, perpetuare ed allargare l'ineguaglianza tra chi ha (potere e danaro) e chi non ha, quindi la semplice frase "redistribuire il reddito" provoca a costoro una allergia spaventosa.

Detto questo, la proposta lanciata oggi da Franceschini (ovvero una addizionale IRPEF una tantum del 2 per cento sui redditi annui superiori ai 120.000 euro, per recuperare 500 milioni di euro) va nella direzione giusta, ma secondo me presenta alcuni problemi "strategici".
Sebbene la platea interessata da questa misura, secondo i calcoli del PD, consti di 120.000-150.000 contribuenti, credo che la maggioranza abbia buon gioco a silurare mediaticamente la proposta giocando sulla identificazione del ceto medio con le "vittime", che risultano ad esso troppo vicine (se l'italiano medio si identifica con Berlusconi, figuriamoci se ha difficoltà a identificarsi con il proprio capo o capetto o supercapo che quella cifra la raggiunge o la supera agevolmente...)
Eppoi il due per cento è tanto, secondo me, anche in termini relativi.

Visto che tanto non passerà e farà guadagnare alla sinistra i peggiori insulti possibili, io sposerei invece la proposta più radicale, ma anche paradossalmente più praticabile, che avanza Giulio Santagata, ex ministro del governo Prodi.

Riprendo dall'articolo di Peter Gomez:
"I numeri (...) parlano chiaro. In Italia la ricchezza delle famiglie ammonta, secondo Banca d'Italia, a 8000 miliardi di euro. Il 10 per cento di esse ha però in mano il 50 per cento del tesoro (oltre 4000 miliardi). È lì che bisogna andare a trovare i soldi. Ovviamente non dovranno essere tassati i beni produttivi, non si pagheranno cioè tasse sulla proprietà delle imprese. A essere tassato sarà invece il resto. E, visto che solo l'8 per cento di quei 4000 miliardi è ricollegabile all'attività d'impresa, la base imponibile (cioè il pezzo di tesoro sul quale il fisco può intervenire) toccherebbe i 3500 miliardi.

Non tutti i proprietari comunque dovranno pagare. Santagata propone, anzi, che il prelievo scatti solo a carico di chi possiede immobili, terreni e titoli per più di 5 milioni di euro. Fatti due conti si scopre così che basterebbe un intervento del 3 per mille per far incamerare allo Stato 10 miliardi.
Sarebbe impopolare una tassa del genere? No, perché riguarderebbe solo un parte minima della popolazione. Che, oltretutto, non verrebbe particolarmente vessata. Il 3 per mille di 5 milioni equivale a 15 mila euro. Un sacrificio accettabile anche per quei ricchi che nel 2009-2010 si troveranno a fare i conti con la propria coscienza tutte le volte che per strada incontreranno chi è rimasto disoccupato. Una decisone doverosa da parte del governo che per far fronte al peggio vuole aumentare l'età pensionabile (delle donne, ma non solo) e crede che per far ripartire l'economia basti il via libera a una nuova cementificazione selvaggia del Paese. "

Credo che avanzare una proposta del genere, oggi in Italia, potrebbe costare la vita a chi lo fa: lo credo sinceramente.
Non certo perchè i superricchi patirebbero per un esborso di poche migliaia di euro, ma perchè il "principio" sarebbe considerato (ed in effetti lo è) rivoluzionario. Intollerabile. Questo è un paese che distruggerebbe mediaticamente un Obama, se ce lo avesse qui, che sta peraltro tentando di fare cose assai simili a queste (tassare di più i redditi oltre i 250.000 dollari per fornire l'assistenza sanitaria a chi non ce l'ha: che razza di sporco comunista!!!)
Ma poichè è il Presidente degli Stati Uniti, semplicemente delle sue proposte "rivoluzionarie" non si parla: le si ignora, le si oscura dietro i gossip, dietro le minchiate tipo "ma hai visto che gli stanno venendo i capelli bianchi?".

Comunque, per come stanno le cose adesso e qui, io sono disposto a scendere in piazza subito anche per difendere la timida proposta di Franceschini.

martedì, marzo 10, 2009

Il sogno e l'incubo

L'Italia che sogniamo noi...


e quella in cui vogliono rinchiuderci loro:Sinistra del no è bello, Destra del cemento è cacca!
(Campagna Nazionale " e bbasta co' ste fregnacce dello sviluppo!")

mercoledì, marzo 04, 2009

Il giorno in cui il Tiranno morì (racconto)

Il giorno in cui morì il Tiranno, la notizia fu tenuta segreta e circolò solo nella più ristretta cerchia dei fedelissimi. I testimoni scomodi e chi poteva rivelare la verità furono fatti sparire con solerzia, grazie ai corpi speciali e ad un accordo di vecchia data con le mafie, assai esperte in questo genere di compiti.

La dinamica dell’attentato – come rivelò, venticinque anni dopo, uno di coloro che presero il Potere – lasciò sbigottiti tutti. Fu una donna (una donna del popolo, dimessa, dall’aria stanca e afflitta) ad abbracciare il Tiranno, stupito per quell’intrusione in uno dei luoghi più protetti del Palazzo, insinuandosi tra le corpulente guardie del corpo; e fu lei ad attivare il detonatore per far saltare la cintura esplosiva nascosta sotto la maglia sformata.

Probabilmente fu per una distrazione della pattuglia all’ingresso, e per un tradimento di chi presidiava la portineria: nessuno riuscì mai a capire esattamente come e quando fosse riuscita ad entrare. Ma entrò, in quel giorno di autunno, e la Storia del paese rischiò di cambiare.

Subito i fedelissimi del Tiranno fecero rendere inaccessibile il luogo dell’attentato, giustificando l’esplosione con lo scoppio di una caldaia nei sotterranei.

Le truppe scelte fecero irruzione da un ingresso secondario del Palazzo, si diressero nella Sala e in quel macello di detriti e di corpi straziati provvidero per prima cosa a eliminare i superstiti - su ordini precisi della Giunta che aveva assunto il potere.

Le televisioni diedero prontamente notizia dell’evento, in concitate edizioni straordinarie: parlarono dell’attentato, e rassicurarono sulla salute del Tiranno, appena scalfito dall’esplosione. Diffusero immagini di lui lievemente ferito, con un rivolo di sangue appena accennato sulla fronte, i vestiti in disordine, sporcati dai calcinacci: ma con il suo solito e solido sorriso, pronto alla battuta come sempre, triviale come piaceva ai suoi supporter, indistruttibile come lo dipingeva la propaganda.

Nella notte, attesi e temuti, partirono gli arresti. Il leader dell’opposizione (ormai frantumata da dodici anni di inutile, strenua resistenza in un Parlamento conservato artificialmente in vita, svuotato da ogni potere che non fosse meramente formale, e mai rieletto) fu trattato abbastanza bene mentre lo trasferivano in un carcere militare sotto gli occhi delle telecamere, ma la stessa sorte non fu riservata ai suoi collaboratori.

All’alba del giorno successivo, fu emesso un decreto a firma del Tiranno in cui si stabiliva lo Stato di Guerra, con cui si limitavano drasticamente le già ridotte libertà di movimento e associazione dei cittadini. Le frontiere furono chiuse dall’esercito.

Furono sciolti, con effetto immediato, i sindacati e le associazioni non dipendenti dal controllo diretto del governo. I partiti furono commissariati e affidati al controllo di un neonato Comitato per la Democrazia.

Le Ronde Azzurre furono convocate con un bando nazionale di reclutamento, a cui risposero migliaia di cittadini: alcune centinaia di miliziani armati presero posto davanti al Palazzo, con fare minaccioso, nei giorni successivi.

I pochi oppositori rimasti fuggirono all’estero, per evitare l’arresto, od entrarono in clandestinità.

Le televisioni, da quel momento, trasmisero di continuo immagini del Tiranno ripreso in occasioni ufficiali: le uscite pubbliche ed i bagni di folla a cui era abituato non erano più possibili a causa dello Stato di Guerra, ma il Tiranno continuava a sorridere incontrando nel Palazzo esponenti diplomatici stranieri, rappresentanti del clero, dirigenti di associazioni venuti a portare solidarietà al governo.

*

I pochi militanti del gruppo ribelle “Network Guerrilla” sapevano bene come sfuggire ai controlli della Polizia Neurale: connessioni rapide utilizzando reti governative non abbastanza blindate, hackeraggi multilivello per non essere individuati in modo troppo rapido.

Eppure, molti erano già stati scoperti ed arrestati, nei mesi successivi all’entrata in vigore dello Stato di Guerra. Gli esperti che lavoravano per il potere erano tosti come loro, attenti ad ogni variante che potesse rivelare la presenza di germi (o anche solo di sospetti) di ribellione.

Da quando il nucleo dirigente aveva lanciato l’operazione “Real Revelation”, sfuggire alla maglia repressiva si era fatto ancora più difficile , visto che per condurla era necessario avvicinarsi pericolosamente, più di quanto fosse stato mai osato, alle strutture operative del potere.

Red era un mago del mordi-e-fuggi sui server del governo.

Li aveva violati innumerevole volte usando il suo minuscolo microbook autocostruito, che portava sempre con sé in una tasca dei jeans scoloriti; aveva dovuto scriversi da solo il sistema operativo, per evitare che le spie fatte inserire dal governo nel codice dei sistemi operativi “normali” potessero rivelare la sua presenza e le sue attività.

La fatica era stata ripagata: riusciva ad entrare ovunque, con un accettabile sforzo, senza essere individuato.

Il comando dell’operazione era stato affidato a lui, e da settimane Red ed i suoi compagni si stavano avvicinando – inesorabilmente ma pericolosamente – al loro obiettivo.

Quella sera, nella stanza di un amico da cui era appena giunto (per motivi di sicurezza cambiava ogni giorno il luogo in cui lavorava), sentiva che le ultime resistenze del Sistema Centrale potevano essere aggirate con un piccolo colpo di fortuna.

Attivò la connessione fantasma – che inviava in continuazione nugoli di informazioni false per depistare i segugi del governo – e, con pazienza, superò porte, firewall, trappole, false entrate.

Sfuggì un paio di volte, per un soffio, ad alcuni potentissimi applicativi intercettatori, e finalmente riuscì a forzare un server che inseguiva da tempo.

Si ritrasse ad un pelo dall’essere scoperto, si disconnesse e si riconnettè usando il doppio delle precauzioni, e quando finalmente fece un doppio click sul primo file criptato, usando un programma di visualizzazione sottratto arditamente in una scorribanda notturna sui server dei servizi segreti israeliani, non potè trattenere un grido di entusiasmo.

Davanti ai suoi occhi apparvero le immagini del Tiranno impegnato nei soliti incontri che la tv trasmetteva da mesi, ma quel che interessava a Red era la data di creazione di quei file: che, come sospettava “Network Guerrilla”, era di molti mesi precedente al giorno dell’attentato.

Fu più difficile ancora accedere ad alcune cartelle invisibili ai software tradizionali, ma Red riuscì in qualche modo a forzarle.

Ed anche se si attendeva qualcosa del genere, quel che vide lo stupì.

Erano i set dei filmati sul Tiranno che, in quei mesi, avevano inondato le televisioni per dimostrare che il Tiranno godeva di ottima salute. Set cinematografici in cui il Tiranno – proprio lui, vivo e vegeto – costruiva le prove della sua esistenza per ogni evenienza futura.

Personaggi autorevoli ed autentici, e semplici comparse provavano e riprovavano per lui e con lui scene di incontri, di presenze, di comizi nelle sale.

Immagini girate per il futuro, per un futuro che non sarebbe dovuto finire mai, anche se il Tiranno fosse scomparso.

Red scorse velocemente una parte di quella immensa realtà inventata: vide filmati modificati derivati da filmati autentici del passato, arricchiti di particolari plausibili per posizionarli nel tempo e nel contesto voluto. Vide filmati in lavorazione, semplici prove, ancora imperfette o incomplete.

Vide il Tiranno sorridente, in sala trucco, accettare un trucco leggero da “Tiranno lievemente ferito in un attentato”.

E poi, alla fine, quasi inaccessibile, vide finalmente la realtà: la strage nel palazzo, i resti quasi irriconoscibili del Tiranno, il sangue, le macerie. A seppellire per sempre la verità, insieme ai resti transitori di un potere che non vuol morire.

Red capì in un attimo che il suo tempo si stava per esaurire.

Fu costretto a scegliere in fretta, senza cura, quel che gli sembrava più utile a far capire al resto del mondo come fosse accaduto il Grande Inganno: e per chiedere aiuto, visto che il paese era isolato da tempo dal mondo esterno, tanto che Network Guerrilla spesso inviava oltre frontiera le informazioni su semplici volantini, l’unico modo per sfuggire ai controlli totali sulla Rete imposti dal potere.

Red si era tenuto una sola, rischiosissima possibilità per uscire dalla Rete controllata, e la usò in quel momento, pur sapendo che l’azzardo era altissimo.

Copiò i file che gli servivano e riprogrammò velocemente la connessione, cancellando ogni traccia della precedente, ma ebbe la spiacevole sensazione che qualcosa non fosse andato per il verso giusto.

Con rapidi comandi vocali si orientò sulla sola via d’uscita verso la Rete Libera, ben sapendo che presto lo avrebbero beccato, ed iniziò a spedire i file su un server da cui l’organizzazione avrebbe rapidamente provveduto a rispedirli in giro per il mondo, cancellando le tracce dei passaggi, fino a farli giungere ad un quotidiano statunitense indipendente.

Red, che ascoltava in cuffia la voce sintetica che dava la situazione del trasferimento, aveva appena udito la frase “novantacinque per cento”, quando tre uomini armati della Polizia Neurale sfondarono la porta ed irruppero nella stanza.

Red si protesse istintivamente il volto incrociando le braccia: e non vide, dunque, l’uomo che distruggeva il microbook con il calcio del fucile. Ma sentì il dispositivo spegnersi, con un debole guaito, irrimediabilmente, mentre una tempesta di colpi e di urla si abbatteva con furia sul suo corpo...

martedì, marzo 03, 2009

lunedì, marzo 02, 2009

Una storia italiana

Venerdì sera sono finalmente andato a Cascina Caccia.
C'erano Elena Ciccarello e Stefania Bizzarri, giornaliste di Narcomafie, a raccontare la storia di questo luogo e fare il punto sulla presenza della attività mafiose nel Nord Italia (dal racconto di Elena ho tratto alcuni dei dettagli contenuti in questo post).
La storia di Cascina Caccia penso di averla già raccontata qua e là, ma la riepilogo di nuovo (il più possibile) brevemente.
Questa bellissima cascina, che sta in cima ad una collina del torinese a due passi dai primi rilievi del Monferrato, era la sede operativa della famiglia Belfiore, una delle più potenti emanazioni al Nord della 'ndrangheta calabrese.
Negli anni '70-'80, il controllo della criminalità organizzata nel Torinese era appannaggio condiviso del clan dei catanesi e, appunto, della 'ndrangheta.
Nel 1980, al vertice della Procura di Torino arriva Bruno Caccia. Un magistrato integerrimo, incorruttibile, uno con cui "non ci si poteva parlare", come dirà in seguito Domenico Belfiore.
Un magistrato talmente convinto della necessità di rispettare le leggi da arrivare al punto di denunciare il proprio notaio per aver autenticato la sua firma senza la sua presenza...
Caccia applica senza compromessi, nel proprio lavoro, il proprio rigore: dalle inchieste sulle violenze nelle manifestazioni sindacali dell'epoca, alle indagini sul terrorismo e sulla 'ndrangheta, Caccia non fa sconti a nessuno, non concede mediazioni.
Una parte dei magistrati chiede il trasferimento ad altre procure pur di non lavorare con un uomo così difficile, ma altri magistrati chiedono invece di poter lavorare con lui, per lo stesso motivo.
Questo rigore, ovviamente, segna la sua condanna a morte.
Mi immagino, in queste stesse stanze, il boss Belfiore che in una sera di primavera, nel 1983, convoca i suoi attendenti.
Sorseggia un liquore, osserva il dolce panorama fuori dalla finestra; e, con brevi parole, o forse solo con un cenno del capo, ordina l'esecuzione.
Bruno Caccia viene ucciso il 26 giugno dello stesso anno.
Le indagini, orientate in un primo tempo verso la pista terroristica, giungono ad una svolta grazie all'aiuto di un boss pentito del clan dei catanesi, che in carcere raccoglie le confidenze dei calabresi grazie ad un registratore piazzato negli slip.
Nel 1993, Domenico Belfiore viene condannato all'ergastolo come mandante dell'omicidio Caccia: ma i killer - forse un "gruppo di fuoco" giunto appositamente dalla Calabria - sono ancora oggi sconosciuti.
Nel 1998, la cascina viene confiscata ai Belfiore sulla base della legge La Torre-Rognoni del 1982, che prevede (art.14) "il sequestro dei beni dei quali ... si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego"; "il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati dei quali non sia stata dimostrata la legittima provenienza".
Successivamente viene assegnata a Libera, l'associazione contro le mafie fondata da Don Ciotti, sulla base della legge 109/96 (che prevede, per quanto riguarda i beni immobili confiscati, il loro trasferimento "al patrimonio del comune ove l'immobile è sito, per finalità istituzionali o sociali. Il comune può amministrare direttamente il bene o assegnarlo in concessione a titolo gratuito a comunità, ad enti, ad organizzazioni di volontariato (...), a cooperative sociali (...), o a comunità terapeutiche e centri di recupero e cura di tossicodipendenti (...)".)
La legge fu voluta fortemente da Libera, per salvare - e destinare ad un uso sociale e in nome della legalità - il notevole patrimonio immobiliare sequestrato alle mafie, che in gran parte stava andando in rovina a causa dell'inefficienza dell'amministrazione pubblica: il che, anche simbolicamente, avrebbe segnato una nuova sconfitta dello Stato di fronte ai cittadini ("ecco, lo Stato lascia andare in rovina quel che la mafia curava benissimo!").
(Purtroppo, siamo ancora lontani dall'obiettivo; i dati al 31 luglio 2008, che danno la situazione degli immobili confiscati ed assegnati dal 1997, dicono che l'assegnazione ha riguardato solo il 19% degli immobili sottoposti a sequestro definitivo...ciò vuol dire che 4 immobili su 5 vengono consegnati all'abbandono ed al degrado).
Bisognerà attendere fino al 2007 prima che la famiglia Belfiore lasci la cascina: in mezzo c'è un difficile lavoro di mediazione, di sensibilizzazione, di informazione non solo nei confronti della famiglia, ma anche della comunità locale, in cui la paura "della diversità" supera di molto quella provata nei confronti della presenza mafiosa.
Le ipotesi di destinazione della cascina debbono essere cambiate per ridurre al minimo l'opposizione della comunità: l'ipotesi iniziale è una comunità di recupero per tossicodipendenti, poi l'assegnazione ad una comunità-famiglia; ma questo non quieta gli animi nè seda le paure , come si può leggere in questa dichiarazione del capogruppo dell'opposizione in consiglio comunale di un paio d'anni fa (le frasi in grassetto si commentano da sole):
"Questa non è altro che l'ennesima dimostrazione di come l'amministrazione comunale venda ciò che gli è più comodo a seconda di chi urla di più. Noi l'avevamo avvertita del rischio che si sarebbe corso ad affidare una struttura in mano ad organizzazioni che fanno ciò che vogliono, sia Don Ciotti e i suoi affiliati. Ora non potremo più tornare indietro. Prima si parlava di droga, poi di donne con problemi, poi di disagi alimentari e a seguire di disagi di comunicazione: hanno cambiato ancora una volta versione? Ciò vuol dire che tra un anno, se non prima, potremo avere nuove sorprese, Oggi siamo davanti alla realtà di aver ceduto una struttura invidiabile in mano a delle persone che la vogliono trasformare in una comune dietro il paravento della parola famiglia."
(Dio santo, una comune!!! davvero molto meglio l'ndrangheta, non trovate?:-()

Quando i Belfiore se ne vanno, spaccano tutto, per vendetta: distruggono palchetti e serramenti, devastano l'impianto idraulico ed il riscaldamento, mettono fuori uso quello elettrico, erigono muretti tra le stanze.
Ci vuole ancora tempo, e ancora fatica, per rendere praticabile la struttura (ancora oggi non c'è il riscaldamento).
A dare una mano a Libera e ad Acmos, oltre all'Amministrazione Comunale, ci pensano la Regione Piemonte (che con la legge regionale 14/2007 destina specificamente fondi da utilizzare per il riutilizzo dei beni confiscati alle mafie), l'Associazione Nazionale Magistrati (che "adotta" simbolicamente una stanza della casa), ed un sacco di amici e compagni di strada.
L'inaugurazione della nuova vita di questa cascina, che dovrà cancellare il suo passato cupo e violento, avviene, finalmente, nel luglio 2008.

Alla fine, a prendere realmente possesso di Cascina Caccia sono quattro ragazzi della associazione Acmos (Anastasia, Sara, Roberto e Davide), che hanno passato l'inverno lavorandoci dentro e iniziando a costruire i legami con l'esterno, con il territorio.
Iniziative, corsi, incontri, cene, sede di uscite scout...la Cascina si candida ad essere una casa aperta a tutti, una "nuova Barbiana", come auspica Ciotti.
La strada è lunga: Sara mi racconta, davanti ad un tiramisù, come in zona ancora questa esperienza sia considerata con ostilità e con ignoranza "cosa da drogati".
E' lunga, ma è iniziata.
Mi piace chiudere questo post con le parole di Davide Mattiello (presidente di Acmos):
"... aprire "case" come Cascina Caccia è quanto di più vicino alla "Liberazione" siamo in grado di fare in questo momento.
Cascina Caccia sta a dimostrare che qualcosa di reale riusciamo a produrlo anche noi, che non sono solo parole e auspici e pacche sulle spalle.
Cascina Caccia, così come Casa ACMOS, I Tessitori, Isotta, Filo Continuo, Il Filo d’erba, sono per me polizze assicurative sulla speranza.
Sono palestre senza trucchi in cui ci alleniamo a fare sul serio, ad ottenere risultati, esiti e non solo ad generare processi.
Se fin qui è stata faticosa, lo sarà molto più da domani: quando si entrerà nella routine, quando mancheranno i soldi, quando i dubbi e le tensioni faranno pagare pegno, quando gli impegni (anche istituzionali) saranno disattesi. E così però che passo dopo passo forgeremo la nostra capacità di non mollare, di stare uniti, di non perdere di vista l’obiettivo."

Polizze assicurative sulla speranza...sottoscriviamone insieme, il più possibile!