lunedì, gennaio 26, 2009

Riflessioni...

Dopo aver letto la cronaca raccapricciante di quel che è accaduto a Guidonia, uno pensa di aver fatto il pieno di orrore.
Per carità: basta guardare un TG per vedere che, in questo paese, ogni orrore può ancora essere acuito, moltiplicato, dilatato. Gli inviati fanno il loro servizio dal luogo in cui è avvenuto l'evento, e mentre le telecamere indugiano meticolosamente su dettagli ambientali (i cumuli di immondizia, le stradine desolate) anche le parole indugiano ai confini della morbosità: è quasi manifesto il dispiacere di non poter raccontare tutto, e persino di non essere stati sulla notizia in diretta.

E poi, via con le interviste alla "ggente". I coatti muscolosi e tarchiati, coi sorci nel cervello, che minacciano vendetta- e uno sente che sono della stessa, identica, infame razza degli stupratori - e non gli par vero di essere elevati al rango di "opinione pubblica". Il regista (?) che dice "nemmeno in un film ci stanno certe scene".

La vittima scompare in questo quadro desolato e desolante, che usa la violenza per produrre paura e dunque ancora violenza.
Perchè non c'è sdegno e schifo e orrore per quello che stiamo diventando, in questo quadretto, ma ancora e sempre l'idea che un certo "noi" è minacciato da un certo "altro" indistinto ma con alcune caratteristiche chiare: è un "altro" straniero, che sa di sporco e povertà, che parla con accenti dell'est e del nordafrica, è colui che ruba (nel migliore dei casi, almeno il lavoro) e vìola le nostre donne.
Ovviamente la realtà oggettiva e dei dati dice altre cose, come ricordo in questi post, ma la realtà non interessa, non è funzionale al disegno del Potere.

Altro caso: colui che stuprò una ragazza a Capodanno a Roma ha ottenuto gli arresti domiciliari.
Certo, la prima reazione emotiva è un senso di ingiustizia, è indubbio: ma noi sappiamo bene che lo Stato non deve operare sulla base dell'emotività, ma della Giustizia.
E dopo la prima reazione, noi cittadini, dovremo dirci che la cosa importante è che siano applicate le leggi, e che questo sia fatto con equità ed equilibrio.
Se il GIP ha concesso gli arresti domiciliari è perchè ci sono le condizioni per farlo, non certo perchè il magistrato è una carogna.
Eppure, anche in questo caso si scatena la canea: non par vero, al Potere, di usare un simile evento come arma affilata nella guerra contro la Magistratura (che, anche se non sta dando buona prova di sè, ultimamente, resta sempre un contropotere che occorre abbattere a tutti i costi).
Ed allora ecco il Ministro Alfano indignarsi e annunciare l'invio dei soliti ispettori, ecco i TG raccogliere l'indignazione dei bravi cittadini come se questa fosse la sola autentica Voce della Giustizia: che il GIP conosca ed applichi le leggi emanate dal Parlamento non frega nulla a nessuno, anzi...il potere giudiziario deve trasferirsi in TV e sui marciapiedi, il popolo sovrano decida lui le sentenze: presto il Potere fornirà la corda di canapa e gli alberi adatti anche ad eseguirle, su indicazione dei telegiornali.

Ah, ovviamente non basta. Quell'individuo che racconta barzellette agghiaccianti continua a saggiare quotidianamente il livello di "tolleranza al male" del popolo, e dopo l'orrenda barzelletta sul campo di concentramento (a cui non oso nemmeno rimandarvi, da tanto mi fa venir la nausea), afferma - sul tema della violenza sessuale - "io penso che in ogni occasione serva sempre il senso della leggerezza e dell'umorismo".
E il suo volto mi si confonde, a queste parole, con quello dei coatti di cui sopra, per i quali uno stupro è un modo come un altro per passare la serata.
D'altronde, nel post che cito quest'uomo raccontò questa barzelletta in una serata al Bagaglino:
Poi racconta un paio di barzellette. Quella in cui tutti si piegano dalla risate è questa: «Allora, c'è un tizio che entra in un ristorante e vede una bella signora. Si volta, e fa all'amico: oh, io me la farei. E l'amico: scusa, ma quella sarebbe mia moglie... E l'altro: beh, pagando, s'intende...».
Capite cosa sono le donne nell'immaginario di costui? Capite quanto siamo vicini ai coatti, nel modo di ragionare?

venerdì, gennaio 23, 2009

Fascismo in salsa verde: l'ultima ricetta...o l'ultimo esperimento

Può essere l'ennesima sparata tanto per creare il solito "effetto annuncio" (come il patetico grembiulino della Gelmini, che ancora oggi qualcuno crede sia contenuto in una legge, ed invece trattavasi solo di una delle mille sue infelici dichiarazioni, o le sciocchezze sulle classi ponte, contenute in una mozione della Lega che per ora non ha fortunatamente avuto seguito).

Ma il solo fatto di concepire (e rendere pubblica) l'idea di una simile misura fascista (il termine secondo me è pertinente) rende l'idea del punto a cui stiamo arrivando.
(Ci sono altri eventi drammatici e dello stesso segno, che stanno accadendo nel campo della giustizia: ma sto ancora leggendo molto al riguardo, appena mi sento sufficientemente informato provo a esternare le mie preoccupate impressioni).

Il pretesto di partenza è il succedersi di preghiere pubbliche, da parte di alcune comunità musulmane presenti in Italia, nei giorni più neri del massacro dei palestinesi di Gaza da parte degli israeliani, spesso effettuate al termine di manifestazioni di protesta.

Ora che - come previsto e prevedibile - su quel massacro sta cadendo la cortina dell'oblio (dopo la miserevole opera di disinformazione delle settimane scorse), ecco che il Ministro Maroni annuncia l'emanazione di una direttiva ai prefetti (e perchè non la emana e basta?) per regolamentare la concessione degli spazi per le manifestazioni.

"La Stampa" riporta, più o meno virgolettate, le affermazioni del Ministro:
«Ho preparato una direttiva che verrà inviata a tutti i prefetti affinché fatti come quelli avvenuti davanti al Duomo di Milano non abbiano a ripetersi».
E perchè mai? Non mi sembra che nessuno sia mai stato infastidito da moltitudini preganti sul territorio nazionale. Mi sembra che accada ogni domenica mattina in piazza San Pietro. O esistono preghiere buone e preghiere cattive, preghiere sane e preghiere "pericolose"?

Nel concedere vie e piazze, i prefetti dovranno tenere conto che alcune aree, «di particolare importanza dal punto di vista sociale, simbolico, religioso», vanno salvaguardate.
Ovviamente, per non essere incolpati di razzismo verso i musulmani è meglio essere fascisti verso tutti: quindi qualsiasi manifestazione incapperà nei limiti previsti da questa famigerata necessità di salvaguardia.
Per non passare davanti ad una chiesa, e in questo pio paese ce n'è una in ogni piazza, potremo manifestare solo di fianco alle autostrade od alle ferrovie. O nei prati, insieme alle pecore.

E l’altra novità riguarda chi organizza: sarà tenuto a versare una fidejussione che copra eventuali danni causati dai manifestanti.
Una fidejussione per manifestare!!! In un paese dove si comprano compagnie aeree con i soldi degli altri, dove i furbetti del quartierino affittano immobili prestigiosi non ancora loro e con il contratto d'affitto vanno in banca a farsi dare i soldi per acquistare gli immobili stessi...dove ogni domenica migliaia di poliziotti pagati con i soldi pubblici tutelano gli interessi di società private che si arricchiscono con il business del calcio...dove i manager rampanti entrano nelle aziende come salissero su un tram, le spremono come limoni per soddisfare gli appetiti dei parassiti azionisti e poi scendono, fuggono con la cassa... dove nessuno paga mai nulla, specie se ricchissimo...ecco, in questo paese chi vuole manifestare viene preventivamente considerato un vandalo e - solo lui - costretto a pagare in anticipo il diritto di manifestare un'opinione! Vergognoso, scandaloso, delirante. Fascista.

«L’obiettivo - spiega Maroni in Parlamento - è di meglio regolare le manifestazioni, garantendo il diritto di manifestare e allo stesso tempo il diritto dei cittadini a fruire pacificamente degli spazi della propria città». Così saranno off-limits piazze di rispetto alle grandi chiese, ma anche ambasciate, caserme, centri commerciali.

Ecco, si. Nei pressi dei centri commerciali è pericoloso manifestare. Perchè poi non si distinguono più gli imbecilli che sono dentro da quelli che stanno fuori, e la questura sapete che poi si incasina con i calcoli dei partecipanti.

Sarcasmo a parte, qui la situazione della democrazia peggiora di giorno in giorno.
L'unica libertà che ci resta è quella di indignarci sui blog, ma sinceramente non so mica quanto ce lo lasceranno fare a lungo.


P.S. ed ora che ho finito il post, mi coglie il solito dubbio: ci sarò cascato un'altra volta? Sarò caduto nella trappola di una notizia non tanto falsa, quanto diffusa ad arte per valutare le reazioni sia quantitativamente che qualitativamente? Sarò stato ancora, a mia insaputa, un topo di laboratorio per gli esperimenti di totalitarismo avviati in questo paese?

Giuro, non lo volevo fare, il post su Poletto...:-(

...ed infatti lo faccio principalmente per esprimere sintonia ed apprezzamento per le parole della Presidente Mercedes Bresso. :-)
(l'intervista al cardinal Poletto comunque è qui, e va letta).
Anche se soggetto ad un processo di devastazione dall'interno delle istituzioni, noi viviamo ancora in uno Stato (formalmente) libero e democratico.
Così come io non mi arruolerei mai volontario nell'esercito, perchè sarei costretto a fare cose che aborro, è assolutamente legittimo che chi ha una convinzione profonda tenti di essere coerente ad essa, nella vita quotidiana e nello svolgimento del suo lavoro.
Però, esiste un problema.
Se non ci fosse alcun volontario disponibile ad entrare nell'esercito, probabilmente lo Stato sarebbe obbligato a tornare alla leva obbligatoria per garantire il diritto alla difesa del proprio territorio.
Se tutti, per ipotesi, decidessero di fare gli obiettori (ammesso che tornasse anche la legge sull'obiezione di coscienza), lo Stato legittimamente imporrebbe comunque a qualcuno di fare comunque il militare. A quel punto, la scelta sarebbe tra obbedire ed andare in galera (ahimè).

Ecco, quel che voglio dire è che, all'interno di uno Stato democratico, il "non rispetto" delle leggi sulla base di una obiezione di coscienza è possibile, senza pagarne le conseguenze, solo in due casi: o quando esiste una legge specifica che riconosce l'obiezione specifica su quel tema (vedi l'obiezione al servizio militare o all'aborto), o quando esiste un numero sufficientemente grande di persone che possono rispettare la legge al posto di chi fa obiezione di coscienza.

Se non si verificano queste due condizioni, deve essere serenamente accettato il concetto che l'obiezione di coscienza (ed il conseguente non rispetto delle leggi) può portare in galera o a perdere un determinato posto di lavoro.

Giova ricordare che la legge sull'obiezione di coscienza al servizio militare (varata nel 1972) è il frutto di obiezioni di coscienza pagate a caro prezzo (appunto, con la reclusione) da parte di pacifisti e nonviolenti, credenti o laici.

Nel caso posto dal cardinal Poletto, io non vedo molta consapevolezza su questo aspetto. Pur richiamando anch'egli il precedente dell'obiezione di coscienza al servizio militare, che è una presa di posizione forte e gravida di conseguenze, egli cita come esempi di "resistenza civile" dei cattolici alcuni atti che a me sembrano - scusate - assai miserelli e miserabili, per non dire pilateschi.
Il farmacista che rifiuta di vendere la pillola del giorno dopo alla ragazza preoccupata non è un obiettore di coscienza, per me: è Pilato che dice "arrangiati, io non ne voglio sapere".
Il medico che non stacca il sondino di Eluana è Pilato che dice "del vostro dolore, del vostro problema io non intendo interessarmi".
L'obiezione di coscienza è - deve essere - attiva, pone problemi, è pubblica, è sfida all'esistente. Costoro non fanno nulla di tutto ciò: la loro obiezione non è rivolta al mondo per sfidarlo, è solo assenza di azione, vigliaccheria, "non fare", "non dire", nascondersi, eclissarsi dai problemi del mondo e delle altre persone.

Ecco, se rispetto e concordo con l'idea di un uomo che, sulla base della propria coscienza, decide di non derogare da essa, fino al punto da violare una legge e pagarne le conseguenze civili e penali, non riesco assolutamente ad associare a questo l'idea di omuncoli pavidi che di fronte ai problemi degli altri usano la propria coscienza per dire semplicemente "non mi interesso di te", e tornano ai loro piccoli affari, senza nessuna intenzione di contaminare il mondo con la loro legittima idea, ma chiedendo solo che il mondo li lasci in pace, non li disturbi.

Questo tipo di "obiezione" non mi sembra affatto nobile, ma mi sembra pavido, oscuro, ambiguo, ipocrita.
Fa il paio con gli avvertimenti mafiosi di Sacconi alla clinica friulana, "fate quel che vi pare, ma attenti che..."
Consente di fare quel che pare loro senza mai pagare il prezzo delle proprie scelte, e questo è ipocrita.

E poi - mi scusi, cardinal Poletto - ma se si hanno dei valori non è che si può fare l'obiezione solo a quel che ci pare. Non è che si può scegliere sul vassoio solo quel delizioso bignè di valori, quella sfiziosa tartina di coscienza, e spilluzzicare solo quel che si preferisce tra le offerte del mercato dei principii.

Se si è dalla parte della vita, lo si è sempre. Contro la guerra, contro la mafia. Contro gli interessi che avvelenano la vita ed il futuro delle persone. Contro la fame della maggior parte del mondo, fame che è figlia di questo sistema in cui molti di questi obiettori "light" sembrano trovarsi meravigliosamente a proprio agio.

Lei, cardinale, continua a disquisire di minareti e di pillole: ma noi che viviamo quaggiù mica riusciamo ad appassionarci, a questi dettagli. Sarà che la vita, quella normale, è una fatica che le viene risparmiata. Beato lei...

UPDATE: segnalo questa riflessione di Saviano sul caso Englaro...

mercoledì, gennaio 21, 2009

Uno spiraglio di sensatezza in una storia indecente

17 novembre 2008: "Le strutture della Lombardia sono indisponibili ad assistere Eluana Englaro nel caso la famiglia decidesse di applicare la sentenza della corte d'appello e togliere il sondino che alimenta la giovane donna." Lo ha affermato oggi il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, a margine di un incontro tenuto al palazzo di Giustizia di Milano per l'inaugurazione del nuovo punto informativo del progetto 'Conciliamo'.

Alle domande dei giornalisti il governatore lombardo ha ribadito che ''gia' mesi fa la Lombardia aveva rilevato l'indisponibilita' delle proprie strutture a muoversi in questa direzione''.

16 dicembre 2008, da repubblica.it: “Interrompere nutrizione e idratazione delle persone in stato vegetativo persistente non è legale per le strutture pubbliche e private del servizio sanitario nazionale. E’ quanto stabilisce un atto di indirizzo che il ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali ha inviato alle regioni sulla base di alcune indicazioni precedenti, tra cui quella del comitato nazionale per la bioetica e l’articolo 25 della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità dell’Onu. L’atto, firmato dal ministro Sacconi, di fatto renderà illegale per qualsiasi struttura pubblica e privata sul territorio nazionale l’adempimento della volontà della famiglia Englaro, e cioè il distacco del sondino che alimenta e idrata la giovane, in stato vegetativo da 16 anni”.

20 gennaio 2008: "Non ci offriamo, ma se la famiglia Englaro dovesse chiedercelo noi siamo pronti ad accogliere Eluana". Cosi' il presidente della Regione Piemonte, Mercedes Bresso, apre uno spiraglio alla vicenda della donna in stato vegetativo persistente da 17 anni.

martedì, gennaio 20, 2009

Comunicazione di servizio per blogger e affini

Vi segnalo qui l'articolo di Manlio Cammarata che, dopo la sentenza del Tribunale di Modica che ha condannato Carlo Ruta (webmaster del sito "Accade in Sicilia") a 150 euro di multa per "stampa clandestina", fa il punto sulla situazione relativa alla registrazione dei siti di "informazione" o ad essi assimilabili (c'è al riguardo una proposta di legge del PdL).

lunedì, gennaio 19, 2009

Vendicatore cercasi

Ed ecco dunque, a breve, il buon Olmert e la brava Tzipi Livni che tornano a sorridere davanti ai flash dei fotografi.

Giacca e cravatta lui, tailleur nero su camicia bianca lei, sono due perfetti governanti occidentali, così per bene (niente a che vedere con quei barboni di Hamas, in abiti stazzonati e senza il minimo gusto nell’accostare i colori): la loro immagine non è sporcata da nessuno schizzo di sangue, né dalla polvere delle macerie, né dall’olio o dagli escrementi che infestano Gaza dopo venti giorni di bombardamenti.

Sorrideranno, dunque, impuniti (e forse persino certi di aver avuto ragione: come se la ragione non fosse semplicemente, ormai, il pretesto del più forte).

Anche Bush domani lascerà il palcoscenico più importante del mondo (e questa è una buona notizia, dopo otto anni in cui il mondo è visibilmente peggiorato): ha chiesto scusa per qualche dettaglio, qualche sciocchezza, ma ha rivendicato anch’egli la lunga scia di sangue seminata in Afghanistan ed in Iraq. Anch’egli, rimarrà impunito.

In un ordine di grandezza del male assai più ridotto e miserabile, abbiamo tra gli impuniti i nostrani bugiardi abituali (ad iniziare dal Presidente del Consiglio) e, tra i cortigiani, coloro che son deputati, ogni santo giorno, a vomitare fango e veleno su tutto quello che all’Imperatore risulta sgradito (siano istituzioni, settori della società, categorie, persone più o meno indifese).

La giustizia umana (e quella divina, per chi ci crede) hanno ormai tempi troppo lunghi per sperare di vedere soddisfatto, entro l’arco della propria vita, il bisogno di vedere separato il male dal bene, e di veder puniti i cattivi.

Ecco perché apriamo un bando per la ricerca di un Vendicatore, un personaggio che possa darci soddisfazione qui e subito, al di fuori o (perlomeno) di fianco alla Legge.

Queste le caratteristiche richieste:

mascheramento: opzionale ma consigliato (ci piaceva molto, ad esempio, la maschera con le sembianze di Guy Fawkes in “V for Vendetta”);

ideologia: l’unico di cui ci fidiamo è un anarchico, al quale il potere interessi al solo fine di distruggerlo/redistribuirlo;

cultura tecnologica: di livello estremamente elevato. Il Nostro dovrà dimostrare di saper utilizzare con eccelsa maestria la comunicazione multicanale, alternando interventi di sabotaggio televisivo in diretta con capacità di comunicazione sia sulla rete che sui canali tradizionali (stampa, manifesti), ove serva in incognito o sotto le mentite spoglie di giornalisti di grido.

atteggiamento: ironico/sbeffeggiante/rigorosamente non violento. Di sangue in questo mondo malato ce n’è fin troppo, ed ogni goccia versata ne genera altre 1000: il nostro Vendicatore dovrà colpire il potere con l’arma dello sberleffo, rendendo evidente la menzogna, sputtanando irrimediabilmente i potenti, rendendoli ridicoli e patetici;

Ecco alcuni esempi di interventi vendicativi anarco-situazionisti a grande impatto comunicativo (invito gli amici blogger ad aggiungerne a volontà) che potrebbero essere richiesti al Vendicatore:

  • irrompere ad un G8 con un gruppo di complici mascherati da leader mondiali, e occupare i tavoli delle conferenze prima dell’arrivo dei leader veri indossando abiti da contadini, operai ed artigiani, proclamando la fine del capitalismo, la morte della moneta e la sua sostituzione con il baratto;
  • sostituire clandestinamente l’ennesima intervista al Presidente del Consiglio con un filmato dello stesso impegnato nell’espletamento di normali attività fisiologiche quotidiane, ripreso con telecamere segrete nei bagni di Palazzo Grazioli, lasciando inalterato l’audio originario dell'intervista (tanto non si nota la differenza);
  • modificare, in diretta e tramite un imitatore, l’audio dell’omelia domenicale di Benedetto XVI, diffondendo un discorso in cui si scomunicano con toni durissimi e senza possibilità di perdono mafiosi, assassini, politici corrotti, evasori fiscali, piccolo borghesi dai piccoli peccati.

E’ auspicabile che il Vendicatore compia però atti di vendetta anche a livello locale, nei confronti dei più miserabili emuli dei potenti, atti che ridiano fiducia (e buonumore) alla gente comune. Tra tali atti si possono annoverare (a puro titolo di esempio):

  • la foratura istantanea e contemporanea dei quattro pneumatici di quel coglione col SUV che supera a sinistra l’immensa coda del ritorno a casa;
  • la somministrazione contemporanea del colpo della strega e di un attacco diarroico a quell’imbecille che, facendo finta di nulla, si insinua facendo finta di nulla nei primi posti della coda in ufficio postale o in banca;
  • l’accumulo istantaneo di montagne di rifiuti davanti alla porta di casa di Antonio Bassolino ogni volta che pronunci la frase “non mi dimetto”;
  • l’accumulo istantaneo di montagne di cartacce dentro l’abitacolo della vettura di quel simpatico tizio che ha il vizio di gettare il pacchetto delle sigarette, vuoto e accartocciato, dal finestrino.

Il Vendicatore avrà solo il compito di dare stimolo e fiducia a chi, nella Giustizia, non riesce quasi più a credere. Non dovrà sistemare tutti i mali, risolvere i nostri errori, bonificare l’ambiente, arrestare l’effetto serra, scacciare i mercanti dal tempio, distruggere i dittatori, riportare l’eguaglianza, cancellare i falsi bisogni, svuotare gli arsenali e riempire i granai: tutto ciò è fuori dall’ambito della sua missione.

Dovrà soltanto darci una mano a credere che, a rifare un mondo nuovo, ce la possiamo fare da soli, se soltanto torniamo a crederci davvero, e smettiamo di accettare questo come se fosse una condanna.

Ah, dimenticavo una cosa importante. Il compenso. Beh, il compenso sarà la nostra illimitata riconoscenza, e la promessa che il suo nome vivrà in eterno nelle storie che, nel mondo nuovo, torneremo a raccontare ai nostri figli. Poco? No, non per un Vendicatore anarchico, tantomeno rispetto alla soddisfazione di aver dato il via a quella Rivoluzione che oggi è cosi dannatamente necessaria.

venerdì, gennaio 16, 2009

Dio esiste?

Personalmente penso di no...ma adesso mi piace pensare, per un attimo, che ci sia.
E me lo vedo aspettare, sulla soglia del mondo celeste, l'ingresso di monsignor Pio Laghi (1, 2).
E, al suo apparire, corrucciare le sopracciglia, tirarsi su le maniche e dirgli gelidamente: "Vieni, mio caro, vieni avanti, che devo dirti un paio di cosette...ed intanto mi alleno per quando arrivano gli altri..."

*

Monsignor Laghi è stato nunzio apostolico (dunque, ambasciatore del Vaticano) in Argentina dal 1974 al 1980, negli anni più tetri della dittatura che - ricordiamolo - ha prodotto la scomparsa di un numero impressionante di persone (tra 9000 e 30.000).

In questo frangente, Monsignor Laghi seppe da che parte schierarsi, senza grossi dubbi. Tre mesi dopo il golpe, dichiarò:
"I soldati adempiono il loro dovere primario di amare Dio e la Patria che si trova in pericolo. Non solo si può parlare di invasione di stranieri, ma anche di invasione di idee che mettono a repentaglio i valori fondamentali. Questo provoca una situazione di emergenza e, in queste circostanze, si può applicare il pensiero di san Tommaso d'Aquino, il quale insegna che in casi del genere l'amore per la Patria si equipara all'amore per Dio."

Coerente con questo principio, non si astenne dallo stringere amicizia con i carnefici.

Nel 1997 fu denunciato alle autorità italiane dalla Madri di Plaza de Mayo perchè «collaborò attivamente con i membri sanguinari della dittatura militare e portò avanti personalmente una campagna volta ad occultare tanto verso l'interno quanto verso l'esterno del Paese l'orrore, la morte e la distruzione. Monsignor Pio Laghi lavorò attivamente smentendo le innumerevoli denunce dei familiari delle vittime del terrorismo di Stato e i rapporti di organizzazioni nazionali e internazionali per i diritti umani».
E inoltre denunciarono Laghi per «aver messo a tacere le denunce internazionali sulla sparizione di più di trenta sacerdoti e sulla morte di vescovi cattolici. Pio Laghi provvide, con i membri dell'episcopato argentino, alla nomina di cappellani militari, della polizia e delle carceri che garantissero il silenzio sulle esecuzioni, le torture e gli stupri cui assistevano. Questi cappellani avevano l'obbligo non solo di confortare spiritualmente gli autori dei genocidi e i torturatori, ma anche, tramite la confessione, di collaborare con l'esercito estorcendo informazioni ai detenuti».

Qui, invece, potete leggere il testo dell'omelia di Benedetto XVI in ricordo di Pio Laghi.


giovedì, gennaio 15, 2009

Il varco (racconto)

(Versione aggiornata di un mio racconto del 2004)

Sembrava un giorno come gli altri, nel piccolo paese di Castelverde. Eppure…

Tutto ebbe inizio quando la Cesira, uscita dalla porta della sua casetta come una furia, iniziò a correre lungo il perimetro del cortile con uno scatto da centometrista e starnazzando come un’anatra…
“Ho parlato con la Bice! Al telefono! Adesso!...”
Ora, cari lettori, non è affatto strano che in questi tempi la gente si parli più attraverso il telefono che di persona: vi domanderete, dunque, perché mai la Cesira starnazzasse per un fatto, in fondo, così comune e abituale.
Sapete, la Cesira ha quasi ottant’anni e non è più molto lucida: anzi, i vicini, quelli che abitano nelle case che insistono sullo stesso cortile quadrato, la considerano in generale un po’ svanita e tendono a non ascoltarla troppo.
Eppure, in quella occasione, su quelle facce abitualmente indifferenti si dipinse, per un attimo, un’espressione di sincero stupore: fu solo un attimo, ma fu stupore vero, lo posso giurare come se fossi lì presente.
Il fatto, miei cari lettori, è che “la Bice”, oltre ad essere una sorella (peraltro altrettanto bislacca) della nostra Cesira, aveva il piccolo difetto di essere perita tragicamente non meno di quindici anni prima dell’evento che stiamo narrando.
Lo starnazzo motorio della Cesira proseguì, dunque, per parecchi minuti, con una frenesia ed un livello acustico tale da indurre i più arditi alla curiosità (e questo era davvero segno di coraggio, visto che la Cesira attaccava abitualmente dei bottoni micidiali, lunghi decine di minuti, a chiunque commettesse il tragico errore di prestarle attenzione anche solo per un attimo).
Tre o quattro di essi, dunque, si avventurarono nell’atrio della casa di Cesira: e furono subito da lei seguiti con sommo sollievo degli astanti, visto che questo evento significò – contemporaneamente - il rapido cessare dello starnazzo, la quiete del turbinio di polvere sollevata dal dinamismo della donna e, non ultima in termini di gradimento, la scomparsa della stessa dal campo visivo del cortile.
Lo starnazzo, in realtà, riprese all’interno della casa, non appena la Cesira volle offrire ai suoi ospiti la prova provata della causa dei suoi strepiti: e, afferrata la cornetta quasi a stritolarla, compose l’antico numero di sua sorella sull’antiquato disco, e nel silenzio irreale che ne seguì, il “tuuuu…tuuuu…” della chiamata fu presto sostituito da un dialogo urlato ad un volume esagerato.
“Prontoooooo?” urlò la inequivocabile voce della Bice dalla cornetta.
“Biiiiiiiceeeeeee!!!!” urlò in risposta la Cesira, oscurando a suon di decibel il pallore sui visi dei testimoni.
Quasi tutti i presenti erano sufficientemente anziani da aver conosciuto “dal vivo” la vecchia Bice: una donna insopportabile, acida, la cui morte improvvisa era stata nascostamente salutata con sollievo da quasi tutto il paese.
Risentirne la voce, nitida e acuta, provenire da un tempo lontano, era un evento che faceva venire i brividi: ma non c’erano dubbi, era proprio lei.
“Come stai, stellassa?” disse la Bice all’indirizzo della sorella, che le rispondeva a tono senza minimamente preoccuparsi del fatto che, a prima vista, stava conversando con quello che avrebbe dovuto ormai essere soltanto un piccolo cumulo di ossa e polvere.
La conversazione tra le due sorelle proseguì, urlata e inutile, per un bel pezzo ancora, e quando finalmente la Cesira soddisfatta posò la cornetta, i paesani si guardarono a lungo tra loro senza saper bene se e cosa pensare.
L’Amilcare, imbarazzatissimo, ruppe per primo il silenzio: “Cesira, ma che numero hai fatto per parlar con la Bice??”.
“Il suo, no?”, rispose con naturalezza la Cesira, “quello che aveva prima”, dove il “prima” stava probabilmente a significare “quando era viva”.
“Ma è un numero di 15 anni fa, Cesira, come diavolo fa a funzionare ancora?”.
“L’ho fatto, e mi ha risposto. Cosa c’è di strano?”.
Già, cosa c’è di strano?
I vicini uscirono nel cortile, borbottando sotto voce: avevano bisogno di prendere aria, e probabilmente di dimenticare quell’ultima mezz’ora della loro vita.
Altri, che non avevano avuto il coraggio di entrare in casa di Cesira, si avvicinarono ora per carpire informazioni che, a giudicare dal livello della gazzarra inscenata dalla donna, sembravano essere ghiottissime.
Nacque così, quasi senza volerlo, un comitato spontaneo per condurre le indagini su questo misterioso evento.
Il vecchio Nestore fu subito mandato in bici, di volata, a controllare che al posto della casa della vecchia Bice, abbattuta dieci anni prima dalla parte opposta del paese, ci fosse ancora la nuova villetta del dottore: gli fecero però pressanti raccomandazioni affinchè superasse di slancio e senza fermarsi, lungo il percorso, l’intoppo del Bar Centrale di cui era un affezionatissimo cliente.
Il resto del comitato decise un piano di azione articolato su due linee; a) una fase di sperimentazione telefonica approfondita dall’apparecchio della Cesira; b) la chiamata ai tecnici della Telecom.
Molti corsero allora alle loro case, tornando a raggrupparsi una decina di minuti dopo, recando mucchi di foglietti ingialliti e colmi di vecchi numeri telefonici estinti.
Giovanni, a tradimento ed in un attimo di distrazione, fu nominato all’istante dai presenti Sperimentatore Capo, e, ricevuta la massa di foglietti tra le mani, si recò di nuovo dalla Cesira per avviare la ricerca.
La Cesira
intanto si era messa a guardare la TV in bianco e nero, come al solito ad un volume altissimo, e pareva essersi completamente dimenticata del bailamme sollevato poco prima.
Giovanni entrò e si avvicinò (completamente ignorato dalla padrona di casa) al vecchio comodino di legno su cui era posato l’ancor più antico apparecchio telefonico di bachelite nera.
Consultò frettolosamente i bigliettini in decomposizione che aveva in mano, e ne estrasse uno annuendo con convinzione, mostrandolo ai coraggiosi che lo avevano seguito.
Era quello che recava, vergato con inchiostro violetto, il numero della gloriosa Osteria del Barba, abbattuta dieci anni prima per consentire l’allargamento della statale che sfiorava il paese.

Teatro delle più spaventose bevute ed ubriacature mai viste in loco, l’osteria era gestita da un omone chiamato il Grande Thor, peloso e barbuto, di cui si erano perse le tracce dopo la chiusura del locale (alcune leggende narrano che vaghi nel bosco vicino, impazzito e allo stato selvatico, urlando e spaventando gli incauti che si avventurano nel cuore della macchia: altre, invece, che vaghi per le isole dei Caraibi in compagnia di una fata che ha quarant’anni meno di lui).
Quel numero di telefono era stato uno dei primi rilasciati in paese, decine di anni prima: era assolutamente impossibile che fosse ancora attivo.
Al silenzioso assenso degli altri, Giovanni (dopo aver costretto la Cesira ad abbassare il volume della TV ed aver scoperto che le sue lamentazioni sono ancora più rumorose dei programmi) alzò la cornetta e compose, lentamente, il breve numero presente sul foglietto: poi, volse la cornetta verso il centro della stanza, in modo che tutti potessero sentire, stupefatti, dapprima il segnale di chiamata, e poi…
“BUURRPP! Chi èèèè??”, urlò una voce alterata dalla cornetta, e tutti si gettarono istintivamente a terra, riconoscendo inconfondibilmente la risposta detta “a megarutto”, caratteristica leggendaria del Grande Thor.
Solo Giovanni restò in piedi, impietrito, con la cornetta in mano, mentre dalla stessa provenivano inequivocabili rumori di fondo: il vecchio Gino sbraitante “Sei un mona! Se non ci sai giocare, a scopa, va a casa!”, Mike Bongiorno gracchiante dalla vecchia TV sulla mensola, la burrosa Nilde
che urlava “alloraaaaa per chi èèèè questo quartinooooo??”…
Una bestemmia del Grande Thor chiuse la chiamata, prima di un fragoroso sbattimento di cornetta, e tutti i convenuti si guardarono con terrore.
L’arrivo di Nestore nel cortile confermò che tutto era regolare, anche se si mise a farfugliare e nessuno lo capì perché, non resistendo alla tentazione di un bicchierozzo al Bar Centrale, pedalò poi come un pazzo per recuperare il tempo perduto, arrivando sullo sterrato in clamoroso debito di ossigeno.
Ma non riuscì neppure a recuperare l’uso intelligibile della parola, che subito lo mandarono in ispezione verso il nuovo ipermercato: lì sorgevano, infatti, le fondamenta e le celebri sedie di plastica rosse nel dehor dell’Osteria del Barba.
Arturo aveva intanto chiamato un suo cugino, che faceva il tecnico della Telecom ed era fortunosamente nei paraggi. Così, un quarto d’ora dopo, la Panda rossa giunse nel cortile; il cugino di Arturo estrasse dal bagagliaio un set di strumenti ipertecnologici che destarono stupore ed ammirazione nel pubblico, e li introdusse nella casa di Cesira, che subito insistette per rifilare all’ospite un abituale quanto ammuffito caffè di cicoria.
Dribblando la molesta vecchia, il cugino si mise al lavoro: guardò il vecchio telefono con commozione, visto che gli ricordava l’inizio della sua carriera.
Messa al bando l’emozione, operò con efficienza: svitò il microfono, lo collegò ad uno strumento misterioso, e per una decina di minuti telefonò, parlò con personaggi misteriosi, si fece richiamare, richiamò, sempre sotto lo sguardo attento del comitato.
Alla fine rimontò tutto come prima, riordinò l’apparato tecnologico e, prima di uscire, gelò l’attesa del pubblico con un “Tutto regolare, funziona come un gioiellino”.
Il pubblico lo seguì fuori borbottando, deluso per la mancanza di soluzioni tecniche al mistero: rimase in casa solo Ermete, che con fare guardingo si avvicinò al fatale apparecchio con un biglietto misteriosamente estratto dalla tasca dei pantaloni da lavoro, ed incurante della Cesira in agitazione si accinse a telefonare.
Lo sorpresero così, quando rientrarono alla spicciolata dopo la dipartita della Panda, accucciato per terra a sussurrare parole incomprensibili…
“Ermete!!! Cos’è che fai li?” gli gridarono, e lui troncò la telefonata, si rialzò, rosso come un peperone, e non si avvide che uno degli amici aveva già in mano il bigliettino che aveva incautamente appoggiato sul tavolino.
Questo lesse, lo guardò sbigottito e lo apostrofò: “Ma hai telefonato alla vedova Chiri! Maiale! Con una morta!”, ed Ermete divenne pallido, avrebbe voluto scappare, perché tutti in paese sapevano che dieci anni prima lui sbavava dietro quella vedova, anche lei deceduta pochi anni prima, ma nessuno ne aveva mai avuto la prova: ora se lo sentiva, Ermete, se lo sentiva che sua moglie lo avrebbe ammazzato di botte…
Giovanni entrò in quel mentre, e non si avvide neppure dell’avvenimento perché stava conversando fitto con il Professore.
Il Professore era davvero un professore, ormai in pensione, che insegnava fisica nel liceo in città, ed era unanimemente ritenuto l’uomo più colto ed intelligente del paese: impensabile non consultarlo su un argomento simile.
Il Professore ascoltò attento quel che gli disse Giovanni, e poi quello che gli dissero gli altri, in un crescendo di concitazione e confusione, ma quando alla massa vociante si avvicinò anche la Cesira per dire la sua, intuì il grave pericolo e alzò la mano intimando “Basta! Fatemi pensare!”.
In un silenzio precario, il Professore valutò a lungo gli eventi, a occhi socchiusi.
“Evidentemente…” disse poi aspirando letteralmente l’attenzione di tutti, “evidentemente…beh, siamo in presenza di un varco spazio-temporale, non c’è dubbio”.
Le facce del pubblico, sulle prime entusiaste, volsero rapidamente all’ebetismo: “Ehhh? Che cosa? Un varco che? Un temporale ha scassato il telefono? Mah…! Beh…! Boh!...”
“Si”, ebbe ad insistere il professore, ma già capiva che era inutile, “è chiaro che, per una circostanza che non so dirvi, da questo luogo il telefono della Cesira riesce a chiamare oltre lo spazio ed il tempo che conosciamo e che stiamo vivendo tutti assieme in questo momento. Per adesso lo ha fatto solo verso il passato, ma potrebbe farlo anche verso il futuro”.

Ben pochi si accorsero che una specie di lampo azzurro aveva attraversato il cielo, proprio mentre il Professore pronunciava queste parole: anche perché, concentrati nell’ascolto, stavano cercando di capire le conseguenze pratiche di questa affermazione.

Presto, gli occhi di molti dei presenti iniziarono a brillare. Giovanni tirò fuori, da una tasca interna, una schedina vergine e stropicciata del Superenalotto; Ermete, che se ne stava in disparte, iniziò a pensare a tutte le scommesse sulle corse dei cavalli che da tempo non poteva più permettersi, da quando la moglie aveva minacciato il divorzio a causa delle ingenti perdite.

“Verso il futuro? E come facciamo a scoprirlo?”

“Beh, è molto semplice”, disse il Professore, “proviamo a fare con un cellulare la stessa operazione che abbiamo fatto con il telefono fisso: è una semplice ipotesi, ma può darsi che in questo momento su una rete diversa, da questo stesso punto, si riesca ad uscire dallo stesso varco spazio temporale in direzione del futuro.

Proviamo ad esempio a chiamare casa tua, Ermete: dimmi il numero…”

Ermete compitò con difficoltà le cifre, il Professore le replicò sulla tastiera del suo cellulare e premette il pulsante verde, passando poi l’apparecchio ad Ermete che con un certo timore lo accostò all’orecchio.

“Prontiii!”, gli rispose dopo qualche squillo una sonora voce da uomo: e con sollievo, ma insieme con orrore, Ermete si accorse che quella voce sconosciuta non era la sua.

“Pronto…posso parlare con la Wanda, per favore?” chiese intimorito Ermete, sperando ed insieme temendo di sentire dal futuro la voce stridula di sua moglie.

La risposta lo lasciò di sasso: “Oggi non c’è, è a fare volontariato: ma lei chi è, e cosa vuole da mia moglie?”

Ermete impallidì, guardò sgomento gli occhi curiosi che lo circondavano, staccò il cellulare dall’orecchio e lo porse al Professore, senza più avere il coraggio di pronunciare una parola: non voleva sapere perché nel suo futuro sua moglie sarebbe stata la moglie di un altro, no no, non voleva saperne nulla!

Il Professore, chiusa la comunicazione, non riuscì a farsi spiegare granchè da Ermete, che si allontanò dal crocchio che li circondava, tremante ed assai turbato. Il Professore decise di fare un altro esperimento: “Giovanni, dimmi il numero di casa tua”, e Giovanni, obbediente, glielo dettò.

Quando rispose la voce di una giovane donna, il Professore rimase un attimo perplesso, ma si riprese subito sorridendo e chiedendo “Potrei parlare con il signor Giovanni, per cortesia?”.

Ma stentò a mantenere il sorriso quando la voce gli rispose con cordialità un po’ affranta: “Guardi, il signor Giovanni…noi abitiamo qui da tre anni, siam venuti qui quando l’han venduta…dopo la morte del signor Giovanni, appunto…”

Il Professore bofonchiò un confuso “Scusi…grazie…”, interruppe la comunicazione e si lasciò scivolare il cellulare dalla mano, che si schiantò al suolo separandosi in innumerevoli pezzi. Sotto lo sguardo sbalordito dei presenti, il Professore si accanì sui resti dell’apparecchio calpestandoli a colpi di tacco, fin quando non restò nemmeno un pezzo più grosso di un’unghia.

Il Professore allora si ricompose, si riassettò la giacca, sostenne le occhiate interrogative di chi lo circondava e, con un tono che non ammetteva repliche, disse: “Basta. Basta con questi esperimenti. Sono troppo pericolosi, possono portare solo guai. Da oggi, nessuno deve mai più fare telefonate da questo luogo. E’ maledetto! Tanto la Cesira è sorda, e se ha bisogno di telefonare può andare da chiunque di voi. Giovanni, vieni qui: prendi una mazza e distruggi anche il fisso della Cesira. Da oggi è vietato telefonare da qui in qualsiasi modo ed a qualsiasi numero, guai a chi lo fa.”.

Chissà come e portata da chi, una mazza si materializzò in fretta tra le mani di Giovanni.

Che subito, in preda ad una certa inquietudine, strappò l’apparecchio di bachelite nera dal filo che lo collegava al muro, lo appoggiò per terra vicino ai miseri resti del cellulare del Professore, ed iniziò a menare mazzate fino a quando del vecchio telefono non rimasero piccoli frammenti plastici e ramati.

Ad ogni colpo, Ermete sentiva allontanarsi per sempre il sogno di realizzare il suo desiderio per la vedova Chiri, ma al contempo si sentiva sollevato; questi viaggi nel tempo non gli piacevano, adesso aveva solo voglia di tornarsene a casa. Dalla sua Wilma, a pacioccarla un po’, che quando la baciava almeno non la sentiva usare quella voce che gli faceva un po’ senso…e sperava, Ermete, che nel futuro, al suo numero di telefono, avrebbe risposto sempre lui.

Quando tutti furono in silenzio attorno alle spoglie dei due apparecchi telefonici, il Professore fece un cenno per indicare che tutto poteva considerarsi finito, che ognuno poteva tornare alle proprie case e che – non lo disse, appunto, ma tutti lo capirono – di questa strana giornata era meglio che, in futuro, non se ne parlasse più.

La gente del paese sciamò fuori in silenzio, ma quando furono in cortile non rinunciarono a ciarlare ancora un po’ su tutto quello che era accaduto: da domani avrebbero rispettato il vincolo del silenzio imposto dal Professore, ma per quella sera e quella notte gli avvenimenti sarebbe stati rivissuti, raccontati, sviscerati mille volte, fino a rimanere senza voce.

Nestore, tornato senza sorprese dall'ultimo sopralluogo, si era fatto raccontare gli ultimi avvenimenti.

Uscendo anche lui nel cortile della Cesira, quando ormai il vociare delle comari costituiva un sottofondo armonico, Nestore si allontanò di qualche decina di metri per fare i suoi bisogni, ed alzò gli occhi al cielo nel pomeriggio ormai morente.

Fu allora che la vide, ferma e scintillante ad alcune centinaia di metri sopra la sua testa, ed esclamò: “Ma cos’è sta roba lì?”

*

L’astronave galattica Pterodont-3000, immobile da qualche tempo nello spazio aereo sopra Castelverde, riluceva al sole con il suo disco argenteo, in attesa di ripartire per il pianeta che i terrestri chiamavano OGLE-2005-BLG-390Lb, ma a cui gli abitanti davano il nome di Iddu.

Il computer di bordo dell’astronave registrò in quella occasione una conversazione tra il Comandante dell’astronave e sua moglie, che si svolse con toni estremamente concitati (sullo sfondo, il pianto di un soggetto Idduiano di giovane età).

(Il dialogo è traslitterato in caratteri latini dall'alfabeto Idduiano, in cui ogni carattere rappresenta concetti complessi fino a 22.000 frasi).

Comandante Xerdorf: "ytro! sebert hu oip..."

Xilia:"ghiz, jjhot fil zas zac"

Comandante Xerdorf:"streb 7 juf liko!".

Se i terrestri avessero a quel tempo avuto a disposizione il Dizionario Galattico, che per loro sventura fu pubblicato solo alcuni millenni dopo, avrebbero potuto decodificare la conversazione nel modo che segue:

Comandante Xerdorf: “Xilia, accidenti, possibile che non mi possa concedere un pisolino in santa pace senza che accadano guai? Lo sai quanto mi stancano questi viaggi intergalattici… però lo devi controllare, il ragazzino, non puoi permettergli di giocare con le leve del Raggio Temporale quando siamo in sosta! Siamo pure sopra la Terra, e sai bene che i nostri Testi parlano spesso della complessità e della stranezza degli abitanti del Sistema Solare! C’è il rischio di combinare guai grossi!”

Xilia: “Xerdorf, calmati…è vero, Xigno ha toccato quel che non doveva, ma non credo sia accaduto nulla di grave, laggiù…al massimo possiamo dare una spruzzatina di Gas Obliante sul luogo di sosta, per non correre rischi”.

Xerdorf: “Va bene, va bene…programma una irrorazione di 7 millisecondi, dovrebbe bastare: e poi partiamo, che ho fretta di tornare a casa stasera, le autostrade galattiche il venerdì sono sempre incasinate e abbiamo ancora 22.000 anni luce da percorrere!”.

*

Nestore fece appena in tempo a vedere un lampo, ma poi una nebbiolina che cadeva dal cielo lo avvolse dolcemente e qualcosa accadde nei suoi ricordi.

Voltò lo sguardo verso il paese: la nebbiolina si dissolse immediatamente, e le ombre tornarono ad allungarsi pigramente lungo le strade.

Si grattò la testa, a lungo, come se avesse la sensazione di aver dimenticato qualcosa:poi, tornato nel cortile della Cesira – che si era improvvisamente svuotato, come se la gente avesse iniziato a chiedersi d’un tratto che cosa ci faceva lì - inforcò la bicicletta, ed iniziò a pedalare tranquillo verso casa.

Dalla casa della Cesira giungeva, come sempre, lo strepito del televisore acceso ad un volume altissimo ed insopportabile.

Nestore scrollò le spalle, come faceva ogni volta, e continuò a pedalare ed a fischiettare.

Il sole tramontò definitivamente, di lì a poco, su questa strana giornata di Castelverde, baciando per l’ultima volta la bici di Nestore appoggiata alla vetrina del Bar Centrale.

Da dentro, come al solito, giungevano echi delle solite discussioni sul calcio e sulla formula uno.

NOTE PER IL LETTORE: il pianeta OGLE-2005-BLG-390Lb (o, in breve OB053) non è una sigla a caso né una mia invenzione. Cito dal sito http://www.scienceinschool.org/2006/issue2/exoplanet/italian: “Scoperto nel 2006, il pianeta ha una massa pari a cinque volte quella terrestre (cioè è più simile alla Terra di Marte, la cui massa è un decimo di quella terrestre), si muove intorno a una stella lontana 22 000 anni luce, in un’orbita che ha le dimensioni pari a tre volte quella terrestre. Questo lo classifica come l’unico esopianeta che, in accordo con la teoria è fatto di roccia solida, e orbita intorno alla sua stella ad una distanza alla quale esso potrebbe anche essersi formato. Esso potrebbe essere il primo sistema planetario mai visto nel quale i pianeti sono in un’orbita stabile, e dove le condizioni per la vita sono stabili su una scala temporale biologica, come nel nostro Sistema Solare.”

lunedì, gennaio 12, 2009

Perchè Fabrizio De Andrè E' uno di noi

"Continuerai a farti scegliere
o finalmente sceglierai?"

Chiunque mi conosca (o mi legga da abbastanza tempo) sa bene che, nel mio cuore, Giorgio Gaber occupa uno spazio decisamente più ampio di Fabrizio De Andrè.
Sarà perchè è più amaro, più cupo, più pessimista, e quindi assomiglia di più a quello che -in fondo - sono io; sarà perchè usa la parola in modo più prosaico e meno poetico, ed io con la poesia ho sempre avuto dei problemi.:-)
(Ma poichè li sento egualmente e fortemente liberi e libertari, mi sono vicini entrambi).
Questo non vuol dire che le canzoni di De Andrè non mi emozionino profondamente.
Questa sera, guardando lo speciale di Raitre condotto da Fazio con Dori Ghezzi in occasione del 10° anniversario della morte di De Andrè, ho vissuto qualche ora di autentica commozione, che in qualche modo sono riuscito a condividere in tempo reale con molte delle persone che mi sono più care:-).
E ascoltando le sue parole, e ascoltando chi le interpretava, ho provato un fortissimo senso di appartenenza, e di siderale distanza da coloro che queste parole non riescono a capirle, e tantomeno a viverle.
L'uomo, l'anarchia (intesa come istintiva avversione alla cattiveria di ogni potere, che dell'uomo è nemico), e quel dio di cui avremmo un disperato bisogno, sono quel che De Andrè continua a cantare per tutti noi, anche se ci ha lasciati da troppo tempo.
La vicinanza a chi è distante dal potere, a chi "sbaglia", a chi è solo, a chi è sulla "cattiva strada" (sia ladro, puttana od assassino, o chiunque abbia bisogno di dare e ricevere amore) rende De Andrè, che sempre affermò di non essere in grado di saper guidare nessuno, un amico al cui fianco vorremmo continuare a camminare.

P.S.: per fortuna esiste chi, al contrario di me, sa usare la poesia per dire con efficacia quel che a me risulta faticoso ed imperfetto: Stefi mi segnala la bella poesia che Daniele dedica a Faber; e persino io riesco a coglierne il valore ed a consigliarvene caldamente la lettura.:-)

venerdì, gennaio 09, 2009

Annibale, di Paolo Rumiz

Tratto da un reportage pubblicato nel 2007 sulle pagine di Repubblica, questo delizioso libro di viaggio vede Rumiz ripercorrere le orme di Annibale e delle sue truppe nella celebre campagna d'Italia (e dei suoi elefanti, fino a dove resisteranno...)
Da Cartagine attraverso la Spagna, ripercorrendo il percorso dei 90.000 soldati che seguirono il loro capo africano, Rumiz fa rivivere l'impressionante traversata del Rodano, per la quale fu necessario costruire in loco apposite, enormi zattere "mimetizzate" con erba e foglie: ma questo non impedì ai pachidermi di spaventarsi, e cadere nel fiume trascinandosi dietro gli sfortunati conducenti indiani, salvo poi rivelare insospettate doti di nuotatori...

L'inseguimento delle tracce prosegue, alla ricerca di uno dei possibili valichi alpini che il grande africano varcò nel 218 a.C. con i residui 20.000 fanti e 40 elefanti .
Impossibile desumere con certezza dove avvenne l'ardito passaggio, basandosi sugli imprecisi resoconti di Polibio e Tito Livio; e solo su questo mistero storico-geografico sono stati scritti quasi 900 libri!!! Sappiamo però che l'esercito fu costretto a fare saltare i massi che ostruivano il passaggio, usando enormi fuochi ed irrorando la roccia con l'aceto.

Moncenisio? Gran San Bernardo? Colle della Maddalena e Valle Stura? Rumiz a naso decide per questa ipotesi, che corrisponde alla strada più "semplice" arrivando dal Rodano...
Le tracce di Annibale, dopo la discesa in pianura, proseguono verso la capitale dei Taurini (anche se qui di tracce non ne lascia granchè, ammesso che Polibio abbia detto la verità) e poi , con un percorso non troppo logico, nella Valle del Trebbia dove avviene il primo scontro, vittorioso, contro i Romani.

Poi, coinvolto a Bologna un docente universitario che di Annibale è quasi un alter ego moderno, Rumiz segue con lui le orme del condottiero verso sud, attraversando gli Appennini e l'Etruria.
Qui Annibale affronta e sconfigge di nuovo i Romani sul Trasimeno (le tracce stavolta sono concrete e visibili, ci sono ancora in parte le fornaci in cui vennero bruciati i corpi dei soldati)...e poi sempre più giù, fino a Canne, la battaglia che rappresentò il peggior macello bellico della storia antica, con sessantamila morti.
Mussolini volle individuare il luogo della battaglia - in cui Scipione fu duramente sconfitto da Annibale - in Puglia, alle spalle di Barletta, ma in realtà gli archeologi hanno trovato resti compatibili con quel disastro ottanta chilometri più a Ovest - e solo da lì, oggettivamente, Annibale era in grado di arrivare a sfiorare Roma in cinque giorni, come racconta Polibio, pur sapendo che non era in condizioni di prenderla.

Annibale si aspetta a questo punto la resa di Roma, posta di fronte ad una serie di sconfitte brucianti: ma Roma semplicemente decide di ignorare le sconfitte, ignora Canne, costruisce la reazione, inizia ad adottare i "sotterfugi" e gli "stratagemmi" (la corruzione, l'inganno) che Annibale usò per vincere, mentre l'atteggiamento bellico dei Romani prima di queste guerre era decisamente più naif (passatemi il termine...)

Annibale resta in Italia del Sud per quasi quindici anni, dopo la vittoria di Canne: scende sempre più a sud, mentre i Romani lo tallonano e puniscono con ferocia, appena possono, le città che a lui si sono arrese (Capua, Taranto, Siracusa, dove muore Archimede).
Scipione, "in trasferta", distrugge Nova Cartagena in Spagna, fondata dal padre di Annibale.


Annibale alla fine è costretto a tornare, lo richiamano indietro, negandogli...ulteriori finanziamenti per la spedizione.
Nel deserto tunisino affronta di nuovo Scipione, a Zama, e perde. Cartagine ("Delenda Carthago!", la condanna Catone il Censore) viene rasa al suolo e cosparsa di sale per darle sterilità definitiva.

Annibale non si ferma, nè si demoralizza per così poco: va ad est. In Armenia, dove fonda quella che ne sarà la capitale antica, su richiesta del Re. Ma i Romani non demordono, lo inseguono, non perdonano. Si suiciderà nel 183 a.C. con il veleno, e la storia di Rumiz termina a Lybissa, in Turchia, davanti alla sua tomba ed alla lapide voluta da Ataturk nel suo testamento.

Insomma, un gran bel libro di viaggio e di storia...
La prosa di Rumiz è vivace, affascinante ed evocativa.
E fa venir voglia di partire subito, all'inseguimento di un mito, qualunque esso sia.

Il Grande Fratello d'Europa ficca il naso nel tuo pc

Il nostro premier ha avuto per primo la buona idea: "bisogna regolamentare Internet, ne parlerò nei prossimi G8, G20, G5000..."(vedi qui per ricordare).
Ma quei maledetti dell'Unione Europea l'han sorpassato di brutto a destra: si può fare molto di più. Ecco qui la notizia (data da Zeusnews e ripresa da Megachip):

"L'Unione Europea ha autorizzato le forze di polizia a compiere perquisizioni a distanza sui Pc dei cittadini.

Il Consiglio dei Ministri Europeo ha dato l'assenso e subito Inghilterra e Germania si sono mosse per adeguarsi con gioia al nuovo corso: nell'Unione Europea è ora possibilie l'hacking di Stato.

Le forze di polizia degli Stati membri non hanno più bisogno di un mandato e di essere in possesso di prove per perquisire da remoto i computer dei cittadini: ora hanno ufficialmente il permesso di avviare una "sorveglianza intrusiva della proprietà privata" in maniera del tutto autonoma e anonima."

Non basta più, dunque, oliare i ciclostili.
Bisogna proprio comprarsi una moleskine nuova, e iniziare a scrivere lettere cifrate.

giovedì, gennaio 08, 2009

Ci riprovano (e coi tempi che corrono...)

Ci risiamo, ovviamente.
Già tre anni fa ci provò AN, a equiparare per legge i Partigiani ed i repubblichini di salò (la scelta delle maiuscole e delle minuscole, anche se apparentemente scorrette, non è affatto casuale).
Vi rimando a questi due post di gennaio 2006 (1 - 2) per recuperare la memoria di quel tentativo (a fronte del quale il sito di design SDZ inventò il logo che riproduco all'inizio del post).

Adesso è il PDL, con una proposta di legge firmata da ben 42 deputati, a proporre di nuovo l'equiparazione tra chi fece due scelte radicalmente diverse per motivazioni ed effetti.

Qui le dichiarazioni dell'ANPI al riguardo, che promuove a Roma una conferenza pubblica sull'argomento per il 13 gennaio.
Qui
l'intervista a Giuliano Vassalli su Repubblica di oggi che spiega, assai meglio di me, per quale motivo questo tentativo è osceno (ma, visti i tempi, stavolta temo passerà: gli anticorpi democratici del paese sono sempre meno, e quelli che ci sono in Parlamento sembrano diventati assai poco efficaci).

P.S. In questi giorno sto leggendo moltissimo, di tutto, su quel che accade a Gaza. Ma, per scelta personale, non riesco a parlare di quel che non riesco a comprendere, anche se come essere umano non posso che provare, sentire, come un graffio nell'anima, la profonda angoscia che nasce dalle notizie e dalle immagini di questo conflitto. E fare mio, nostro, il proverbio arabo che dice "se semini sangue, non cresceranno rose".
E questo vale per tutti i conflitti, il cui destino è - paradossalmente - scomparire dalle cronache quanto durano troppo a lungo (esempio più recente, la Repubblica Democratica del Congo...): sul sito di PeaceReporter vado a ricordarmi quotidianamente che la guerra non è semplicemente "una delle notizie del giorno", ma solo uno (il più agghiacciante) degli strumenti di conservazione di un modello insostenibile di mondo e di sviluppo.
(Sul sito di Peacereporter ci sono anche le buone notizie, comunque: Artemisia, poi non dire che non ti penso!:-)))

(L'immagine della kefiah, tratta da SDZ, è di Chaz Maviyane-Davies).

martedì, gennaio 06, 2009

Storia di Neve

Ho appena finito di leggere l’ultimo libro di Mauro Corona, “Storia di Neve”.

Corona è il (celebre) scultore-alpinista-scrittore di Erto, il paese della montagna al limite del Friuli occidentale cancellato - e poi, in qualche modo, riportato artificialmente in vita - dopo la catastrofe del Vajont nel 1963.

Il libro, di oltre 800 pagine, racconta la vita di una bambina “magica” nata ad Erto nel 1919, e morta ventinove anni dopo: e l’incredibile racconto (a cui Corona, nelle ultime pagine, vuol dare patente di autenticità) diventa pretesto per un epico affresco della vita di una comunità di montagna, in un arco di tempo che parte dal primo conflitto mondiale e termina ai giorni nostri, seguendo le ultime tracce di una memoria inquietante ed oscura, al punto che nessuno sembra più volerla custodire.

La scrittura di Corona è nodosa e contorta come i rami dei vecchi alberi; a mio avviso scrive male, malissimo. Ma l’irritazione per quelle parole che non filano, che si avvitano, che si annodano, che si attorcigliano, che girano su se stesse come un gorgo nella corrente di un fiume, è presto dimenticata e superata dall’incanto e dallo stupore per tutto quel che Corona sa e racconta di un mondo perduto per sempre.

Come in “Moby Dick” si entra affascinati ed in profondità nel mondo della tecnica baleniera, qui si apprendono, restandone colpiti, il valore ed il contenuto accumulato nei secoli dei mestieri e dei saperi “di montagna”, saperi che la modernità ha ormai ucciso in modo irreversibile.

Si comprende quanto quel mondo arcaico, primordiale, antico, fosse in realtà fatto di uomini che sapevano cavarsela in ogni situazione, fronteggiando gli eventi e la natura con equilibrio, costruendo con le proprie mani e con quel che avevano a disposizione quel (poco) che era necessario per vivere e per cavarsela.

(E ne ricaviamo, di conseguenza, l’idea precisa di quanto noi “moderni” siamo invece fragili, vulnerabili, piccoli e incapaci, completamente immersi nella complessa rete delle nostre dipendenze, completamente perduti se manca la corrente elettrica per un giorno o non ci parte l’automobile.)

Corona ci racconta la professionalità dei boscaioli, dei falegnami, dei maestri d’ascia: ci ricorda che esisteva chi sapeva fare una carbonaia o tirare una teleferica tra i boschi ed il paese in pochi giorni, e di come il legname si facesse arrivare a valle creando e distruggendo opportunamente gigantesche dighe di tronchi.

Ci spiega (come ha già fatto in altri libri) come quegli uomini avessero ereditato (lentamente, nel corso di generazioni) ed approfondito una conoscenza profonda della natura: e ci racconta il loro rispetto per essa, vitale per la loro esistenza, ed il loro rapporto corretto con le risorse disponibili – il legno, l’acqua, la terra…

L’oste, il becchino, il falegname specializzato nelle casse da morto (di cui il paese ha – nella storia narrata – uno smodato bisogno), il mugnaio, il fabbro sono altre figure indispensabili in quella comunità. Ognuno ha un ruolo necessario e per il quale è necessario crescere, prima o poi, un giovane che prenda il suo posto al momento opportuno.

Si prova simpatia per ognuno di essi e per il ruolo che ricoprono con piena consapevolezza e senso del dovere, anche se sono farabutti e bestemmiatori incalliti, anche se odiano con facilità e sono vendicativi.

Perchè quel mondo è rozzo, cinico, brutale come la vita di montagna. I caratteri degli uomini (e delle donne) sono tagliati con l’accetta, la solidarietà è mera comprensione del fatto che da soli non si può sopravvivere nelle difficoltà; non c’è poesia nelle ciucche e nelle risse, e le donne (esclusa Neve) sono soltanto streghe, o mogli silenti e maltrattate, o gambe da aprire per il sollazzo di chi ha lavorato duro o non ha ancora bevuto a tal punto da crollare ubriaco sul tavolo dell’osteria.

Le famiglie sono in gran parte luoghi di violenza e di inganno, la chiesa è luogo di vuota ma irrinunciabile ritualità.

Il romanticismo, nella storia, è riservato solo a Neve – una creatura appunto magica, e solo per questo buona, sensibile, non contaminata dalla cattiveria della vita - ed al suo impossibile amore.

Il resto è duro mestiere di sopravvivenza in un ambiente duro ed ostile, è fatica, rabbia, spietato realismo sulla realtà dell’esistenza – senza Dio, senza nessun aiuto da un “fuori” che è per definizione ostile, ingannevole.

La gente di “quella” Erto (tra novanta e sessant'anni fa) è abituata a cavarsela da sola, nei lunghi inverni in cui tutto si ferma sotto metri e metri di neve, e distese implacabili ed infinite di ghiaccio.

Ogni famiglia sa che deve giungere all’inverno provvista di tutto quel che sarà necessario a sopravvivere per mesi, bloccati in casa senza possibilità di muoversi: legna per riscaldarsi, alimenti, attrezzi per il lavoro e la cura degli animali.

Non c’è modo di muoversi dal paese, né di essere raggiunti: non ci sono ovviamente (per i primi decenni dell’arco temporale in cui si dipana la storia) telefono, corrente elettrica, acqua corrente. In questo mondo chiuso e isolato, i rancori e le avidità son le uniche cose che sembrano ravvivarsi e prender forza davanti ai camini incandescenti.

Le osterie sono i luoghi in cui ci si incontra, per inciuccarsi, giocare alla morra e fare baruffa.

Baruffe cruente, spesso, dove volano le accette e ci si bastona a sangue, o a morte.

I due immensi falò di primavera e d’autunno, che segnano rispettivamente il ritorno alla vita dopo l’inverno e l’arrivederci alla vita al ritorno dell’inverno, sono momenti di socialità e di riti tribali segnati dal fuoco e dall’alcool: la comunità si stringe intorno alle tradizioni e conferma la distribuzione dei ruoli (dall’anziano all’accenditore del falò, ai giovani che diverranno adulti sfidando la forza devastante e purificatrice delle fiamme in una prova di coraggio).

Quando in questo mondo la piccola Neve inizia a dispensare miracoli, il padre intravede la possibilità di acquisire potere e ricchezza, e questa idea lo corrompe al punto da fargli perdere ogni tabù: mette su dunque una congrega di farabutti suoi simili per dare il via ad una “fabbrica dei miracoli” che avrà lo scopo di renderli ricchi, ma non esita a spazzare via chiunque minacci il suo progetto.

Qui il romanzo assume una decisa deriva splatter, ed il numero e la modalità delle morti diventa impressionante, spaventosa: quasi ci si abitua a vedere il biancore delle ossa dell’ennesimo sventurato divorato dal milione di topi e pantegane che abitano, inquietanti, nelle fondamenta di un mulino, e diventano all’imbrunire lo spietato esercito del farabutto di turno, o il nero delle ossa dell’ennesimo sventurato divorato dal fuoco o dal calore.

Il numero di sepolture nel racconto è eccessivo, e son sempre sepolture di miseri resti ossei, quasi mai di corpi integri…così come numerosi e “naturali”, nel contesto, sono ahimè anche gli stupri.

Talvolta Corona le spara davvero troppo grosse e si lascia andare a sfottere il lettore, come quando immagina che un corpo travolto dalla fuga del milione dei roditori diventi una sorta di tappetino in cui avvolgere altri resti umani - come potrebbe accadere in un cartone animato -, o descrive un omicidio compiuto gettando un corpo a tutta velocità dentrò un falò usando una teleferica per il legname…

In questo è poco credibile come quasi tutti i protagonisti della storia, ma resta l’inquietante sensazione che uomini di quella fatta dimostrassero una forte coerenza tra le proprie rozze espressioni omicide e le proprie azioni.

Si procede, dunque, schifandosi a volte abbastanza, ma rimanendo avvinghiati alla storia, se non altro per capire quale sarà la punizione riservata al cattivo, che ci si aspetta spaventosa almeno in proporzione alla quantità ed alla qualità dei misfatti compiuti: perché, sull’altro versante del racconto, il destino di Neve è segnato e previsto sin dai primi capitoli, e – a parte una piccola eccezione, non particolarmente felice, negli ultimi capitoli - non ci sono colpi di scena che diano alla storia altri motivi di eccitazione.

Ma il principale valore di questo libro non è la storia in sé - Corona avrebbe dovuto lavorarci assai di più per donarle una parvenza di credibilità-, ma lo sfondo ed la descrizione del contesto in cui essa si svolge: in questo Corona è magistrale, didattico, prezioso, e forse non ci avrebbe fatto questo dono se non avesse avuto la velleità di scrivere un “vero romanzo”.

Perché un vero regalo, quando gli riesce, è la descrizione di quel mondo ormai perduto che ha vissuto in parte di persona, o conosciuto ascoltando con pazienza, davanti a centinaia di quarti di rosso in fumose osterie, le storie raccontate dagli uomini che a quei tempi ed a quelle storie sono sopravvissuti: e di questa fatica, e di questo racconto dobbiamo essergli profondamente grati, anche se non ha la meravigliosa e solida scrittura di Rigoni Stern, anche se non ha la accattivante capacità di raccontare di Marco Paolini.