giovedì, maggio 26, 2011

Gli occhi di Ueshiba

Stumf!

Rimango sempre stupito del modo leggero in lei cui riesce a proiettarmi sul tatami.
Non riesco neppure a rendermi conto della traiettoria del volo: vedo solo il suo sorriso calmo, la sua mano che si avvicina alla mia e poi sento, un attimo dopo, la carezza soffice del tappeto, e vedo il mondo sottosopra.

Mi rialzo, rapido, e riassetto il keikogi.
Rieseguo l'attacco, levando e calando la mano destra a mo' di pugnale verso il suo capo - shomenuci! - , e di nuovo volo, verso il fondo della palestra, questa volta.

"Hatè!", urla secco il Maestro. E' finita, per oggi.
Ci allineiamo rapidi di fronte a lui, in posizione di seiza.
Chiudo gli occhi, respiro profondamente, ed immagino la mia energia vitale che entra ed esce dal mio KI, tre dita sopra l'ombelico, come una nebbia azzurra.
Ma lei è accanto a me, e il suo profumo leggero mi inonda le narici, mi solletica i sensi.
"Doumo arigatou gasteimazta", grazie per ciò che ci hai insegnato, sussurriamo collettivamente inchinandoci verso il ritratto del Grande Vecchio.
La lezione è finita.
Arretriamo a piedi nudi fino alla estremità più lontana del tatami.
Un ultimo inchino verso il ritratto del Fondatore, e poi si va.

Infilati i sandali, ci dirigiamo verso gli spogliatoi. Inspiro profondamente.
Adoro il profumo del cotone grezzo e spesso del keikogi impregnato del mio sudore, dopo due ore di fatica.

La seguo con lo sguardo, fino a quando scompare dietro la porta dello spogliatoio femminile.

Apro la porta del nostro, siamo in sette, entriamo silenziosi e dolcemente svuotati di tutte le tensioni.
Ci spogliamo e ci infiliamo sotto le docce - sensazione assolutamente meravigliosa.

La schiuma scivola via, portandosi nello scarico le tossine espulse dallo sforzo fisico.
Mi accarezzo il corpo con vigore e voluttà, pensando ad un racconto sensualissimo che ho letto di recente: mi fa sorridere, il contrasto tra questi corpi sudati e (spesso) tatuati e la sensualità di una doccia femminile preceduta da uno strip molto più eccitante del nostro.

Penso ad un sacco di cose, sotto la doccia.
Penso ad una vecchia canzone di Gaber, "Shampoo", e la canticchio tra me.
Penso a ciò che farò dopo.
Penso a lei. Che in questo momento, a pochi decine di centimetri da me, oltre questa parete, sta facendo la doccia.

Chiusa l'acqua. Accappatoio indossato(soffice).
Mi rivesto lentamente, sto bene da dio.

Saluto i compagni, esco e mi inebrio di luce crepuscolare e di frizzante aria di primavera.
Torno verso casa a piedi, solo.

Un sorriso mi increspa le labbra. La mente è vuota, libera.
So che ora potrei dirle tutto, se l'avessi qui di fronte a me: in silenzio, senza pronunciare nemmeno una parola.

Una di quelle parole che ci intossicano, ci avvelenano, ci zavorrano, quando cerchiamo disperatamente di tradurre in suoni e frasi e concetti le emozioni più elementari e naturali.

Mi siedo su una panchina, lo sguardo rivolto verso la collina. Le braccia rilassate sullo schienale, dietro a me. Gli occhi chiusi, a sentirmi.
No, non parlerò più. Non ne sento più il bisogno.

Non mi accorgo neppure che lei mi passa davanti e, come ogni lunedì pomeriggio, mi saluta gioiosa con un cenno e prosegue sconsolata di fronte alla mia indifferenza.

(Maggio 2003)

mercoledì, maggio 25, 2011

Fatemi capire.

Tremonti, di fronte a non so che genere di platea (giornalisti? funzionari?), per contestare il rapporto ISTAT di cui parlavo nel post di ieri afferma testualmente (qui la prova video):

"Leggo: un italiano su quattro è povero. Alzi la mano chi di voi è povero. Nessuno."

Tra una frase e l'altra non ci sono pause nè attese, ovviamente.

(Vieni, Tremò, vieni in un quartiere operaio a far lo stesso numero. Vedi come te le alzano, le mani. Addosso.)

E' come se io entrassi in un bar e dicessi:
"Leggo: un italiano su tot evade le tasse. Alzi la mano chi è evasore fiscale. Nessuno."
Quindi non esistono gli evasori fiscali. Se lo facessi, mi prenderebbero giustamente a schiaffi.

Ma io sono un pirla qualunque, e quello DOVREBBE ESSERE un ministro.

*

Dunque: nel decreto omnibus approvato ieri alla Camera c'è anche la moratoria sul nucleare. Lo scopo dichiarato è quello di evitare il referendum, perchè il disastro di Fukushima porterebbe gli italiani a votare con uno stato d'animo "troppo emotivo".
(In effetti i sardi sono stati assai "emotivi", sull'argomento).

Poi, nella Milano di questi giorni, è tutto un richiamo all'emotività più becera, cianciando di paure di zingari e islamici e terroristi e furti d'auto e annullamento della diversità di genere sessuale.

Allora, ci vorrebbe un provvedimento per sospendere anche il ballottaggio, no, visto che i milanesi stanno andando a votare con uno stato d'animo "troppo emotivo"?

martedì, maggio 24, 2011

Almeno tacete, perdio.

Non mi risulta che nessun esponente del governo (ma posso sbagliarmi) abbia commentato finora i terrificanti dati forniti dal rapporto annuale ISTAT sulla situazione del paese riferita al 2010.

(UPDATE 14.00 - Tremonti boccia il rapporto ISTAT: "So che ci sono i poveri ma francamente credo che quella rappresentazione sia discutibile. Tutte le statistiche dicono che in questo decennio la ricchezza non è scesa ma è salita" dice il titolare dell'Economia.)




Se la rappresentazione del paese fornita dalle cifre ISTAT è veritiera, costituisce la certificazione oggettiva del fallimento della classe dirigente, ed uno spietato atto d'accusa verso coloro che, con le proprie scelte (o non-scelte) stanno deliberatamente "uccidendo" una intera generazione di giovani (e, di conseguenza, le speranze di futuro di questo paese).

Traggo alcuni passi delle dichiarazioni del Presidente dell'Istat, dal comunicato stampa di ieri:
“l’occupazione sta ora crescendo prevalentemente nei servizi a più basso contenuto professionale, a fronte della riduzione del numero delle posizioni più qualificate. Ciò implica, a parità di altre condizioni, un sottoutilizzo del capitale umano, guadagni più bassi, minori prospettive di sviluppo”.

I giovani e le donne hanno pagato in misura più elevata la crisi, con prospettive sempre più incerte di rientro sul mercato del lavoro, le quali ampliano ulteriormente il divario tra le loro aspirazioni, testimoniate da un più alto livello di istruzione, e le opportunità. Una quota sempre più alta di giovani scivola, non solo nel Mezzogiorno, verso l’inattività prolungata, vissuta il più delle volte nella famiglia di origine, e verso bassi livelli di integrazione sociale, soprattutto per quelli appartenenti alle classi sociali meno agiate.
Oltre il 40 per cento dei giovani stranieri abbandona prematuramente la scuola, alimentando un’area di emarginazione i cui costi non tarderanno a diventare evidenti.
Le donne vivono una inaccettabile esclusione dal mercato del lavoro.
Per di più, il carico di lavoro familiare e di cura gravante su di loro rende più vulnerabile un sistema di ’welfare familiare’ già debole, nel quale esse hanno cercato di supplire alle carenze del sistema pubblico. Peraltro, le donne sono ancora troppo spesso costrette a uscire dal mercato del lavoro in occasione della nascita dei figli. Ad essere investiti da una vulnerabilità crescente, insieme ai giovani e le donne, sono gli anziani. Povertà e deprivazione riguardano spesso le famiglie di ultrasessantacinquenni.
Inoltre, molti anziani con gravi limitazioni non sono aiutati né dalle reti informali, né dai servizi a pagamento, né dalle strutture pubbliche. La carenza di queste ultime produce così non solo un costo aggiuntivo per le famiglie, ma rischia di mettere in concorrenza la cura dei bambini con l’assistenza degli anziani, i cui bisogni crescono con l’allungarsi della vita. I necessari interventi volti al controllo della finanza pubblica non devono andare a discapito della capacità dei Comuni di svolgere interventi socio-assistenziali”.

Direi che non ci sono possibilità di equivoci.

I dati del rapporto ve li propongo riassunti in questo articolo a firma Galapagos, sul Manifesto. Uniti a queste considerazioni di Irene Tinagli sulla Stampa sul fatto che tre milioni di persone potenzialmente attive, nel nostro paese, non fanno più semplicemente nulla. Non cercano lavoro, non studiano. Sono socialmente morte, perchè esser vivi è sempre più umiliante.

Ed oggi, la Corte dei Conti dice che "per rispettare i nuovi vincoli europei sul debito occorrerà un intervento "del 3% all'anno, pari, oggi, a circa 46 miliardi nel caso dell'Italia".
46 miliardi di euro all'anno che saranno ovviamente inflitti (come sta accadendo in Grecia) a quella parte di paese che è già sfibrato, esausto, sfinito, a terra.
Sappiamo benissimo che non si toccheranno gli evasori fiscali, che sottraggono 100 miliardi di euro di gettito l'anno, nonostante gli sforzi della Guardia di Finanza, o la "tassa occulta" relativa alla corruzione, valutata in 60 miliardi l'anno, nè si vareranno patrimoniali per minimizzare almeno in parte la vergogna di una forbice di divaricazione tra ricchi e poveri che si fa sempre più ampia man mano che il paese va in rovina.
Si andrebbero a toccare i ceti di riferimento di chi governa adesso (molto meglio, come sempre, identificare ed additare come nemico chi ha etnie e religioni diverse, piuttosto che esecrare il comportamento del cumenda della porta accanto).

Mentre attendiamo di sapere chi sarà il prossimo nemico a cui addebitare la colpa del proprio fallimento (sono prossimi candidati gli alieni, alcune tribù indiane molto cattive, quelli che indossano calzini rossi e i suonatori di oboe), saremmo davvero molto grati a coloro che governano se avessero almeno il buon gusto di tacere, invece di sparare ogni giorno desolanti cazzate da cabaret.
Esse sono come sale versato sulle dolorose ferite del futuro assente, della povertà imminente, del disastro del territorio, della svendita di tutto (non potremo nemmeno andarci a suicidare in mare, perchè l'accesso alle spiagge privatizzate sarà rigorosamente vietato ai poveracci).

Perchè morire, come paese, è già abbastanza difficile, anche senza avere i potenti intorno che sghignazzano e ti prendono per il culo.

martedì, maggio 17, 2011

Emotional recorder (racconto inedito)

Nel giorno d’inverno in cui Diego Arvezzi riuscì finalmente a mettere a punto il suo registratore di emozioni, la prima cosa che fece fu incidervi la sua felicità.

Dopo sette lunghi anni di lavoro, lo strumento era finalmente pronto.

Prese la scatola grigia dal tavolo del laboratorio, e si recò in salotto, dal lato opposto della sua vecchia casa con giardino: aveva bisogno di un’atmosfera tranquilla per la prova definitiva.

Si sedette comodo sull’ampio divano, di fronte al camino; si mise una coperta sulle ginocchia – adorava farlo, nella stagione fredda - e appoggiò lo strumento al suo fianco. Prese e collocò delicatamente i contatti di gomma sulle tempie, collegati al registratore, poi sfiorò docilmente con l’indice destro il tasto “REC” e si lasciò andare, cercando di distillare quello che provava ripulendolo da ogni distrazione ed emozione di disturbo.

Rimase così per alcuni minuti, in silenzio: perfettamente felice. Quando ritenne sufficiente la quantità di registrazione, premette “STOP” e si tolse i contatti dal viso.

Aveva lavorato duro, in quegli anni, per incorporare nel suo strumento due funzioni che aveva sognato sin dall’inizio della ricerca. Il registratore poteva registrare e replicare, verso un soggetto umano, una emozione; ma poteva anche trasformare l’emozione registrata in una sequenza audio, che poteva essere diffusa in pubblico su una frequenza non udibile dall’orecchio umano.

L’idea dello scienziato era che si potesse trasferire ed infondere speranza, fiducia, felicità tra singoli esseri umani; ma che si potessero anche diffondere in modo massivo emozioni positive, da utilizzare ad esempio in luoghi di conflitto e di dolore.

La sua idea era che si potesse, ad esempio, bombardare un paese in guerra con sequenze di emozioni di amore, di pace, di solidarietà, per far giungere queste emozioni in modo massivo al maggior numero possibile di persone.

L’idea era anche quella di produrre apparecchi simili per uso personale e famigliare: per recuperare, nei momenti più difficili della vita delle persone, emozioni non sbiadite dal ricordo, per superare l’angoscia e la paura di non farcela.

Ora, il ricercatore era pronto per provare la prima funzionalità rivoluzionaria del suo strumento: il Ripristino delle Emozioni.

Per farlo, decise di abbassare in modo deciso il suo livello di felicità. Prese il quotidiano che aveva acquistato la mattina, prima di iniziare l’esperimento, e lo lesse a fondo.

Dopo una approfondita ed ostinata ingestione di violenze, corruzioni, guerre, catastrofi climatiche, scandali, recensioni di programmi TV, Arvezzi si sentì deluso, amareggiato, depresso al punto giusto per continuare l’esperimento.

Si rimise comodo: premette il tasto “INDEX”, poi il tasto “1” e, dopo aver riposizionato i contatti di gomma sulle tempie, sfiorò il tasto “PLAY”.

Appena un attimo dopo, senti fluire dentro di sé una sensazione di calore crescente; presto, questa lasciò il posto ad una euforia che si consolidò, negli istanti successivi, in quella felicità che Arvezzi riconobbe subito, senza alcun dubbio.

Spense lo strumento e staccò i contatti dal proprio corpo:chiuse gli occhi, e si lasciò andare, sul divano, ad un irrefrenabile pianto di gioia.

Quando si riprese, e l’effetto della felicità registrata finì, si fece spazio in lui una felicità nuova e diversa: il pensiero che la sua creazione, per la prima volta nella storia, poteva rendere gli esseri umani sorridenti e felici lo fece traboccare di gioia. Il mondo poteva finalmente cambiare, diventare più bello ed umano, e lui ne sarebbe stato l’artefice.

*

Soltanto una settimana dopo, in un pallido pomeriggio invernale, Arvezzi era seduto in attesa su un divano rosso, con la scatola grigia tra le mani, in un vasto salone al secondo piano del nobile palazzo romano in cui risiedeva il Ministero della Salute Pubblica.

La porta del Sottosegretario presso cui aveva appuntamento era ancora inesorabilmente chiusa: Arvezzi aveva mobilitato le sue conoscenze in ambito universitario, i suoi docenti e baroni, che gli avevano consentito di giungere fin lì ed ottenere un appuntamento; ma nessuno di essi se l’era sentita di spingersi fino a sponsorizzare apertamente la sua invenzione.

Sentiva il clima pesante di scetticismo che circondava la sua creatura, ma era certo che una dimostrazione pratica – se gliela avessero consentita – avrebbe dissipato ogni dubbio.

Dopo un’ora abbondante, il cigolio della pesante porta alla sua sinistra lo distrasse dal corso dei suoi pensieri. Un tizio grassoccio e vestito in modo costoso ma volgare lo squadrò con freddezza e lo invitò con un cenno ad entrare.

Arvezzi si alzò ed entrò, e subito la porta si chiuse alle sue spalle.

*

Camminando per le strade di Roma, distratto dal flusso di pensieri che lo attraversavano dopo quel pomeriggio al ministero, si dirigeva meccanicamente verso la stazione, urtando i passanti.

Era andato tutto malissimo.

Arvezzi aveva proposto al Sottosegretario di provare egli stesso il meccanismo, garantendogli che non ci sarebbero stati problemi di sorta, ma il funzionario lo aveva guardato come si guarderebbe un pazzo, affatto rassicurato dalle sue afffermazioni (“Guardi, l’ho provato più volte su di me, non c’è pericolo…”).

Nemmeno l’assistente aveva voluto sottoporsi al test. Non era rimasto altro da fare che provare su Saetta, il gatto del Ministero – avvistato nei corridoi ed attirato vigliaccamente nell’ufficio con la promessa di cibo.

Arvezzi aveva anticipato di non aver mai sperimentato il meccanismo su animali, ma il Sottosegretario non volle sentir ragioni.

Il felino reagì con morsi e graffi all’idea di farsi applicare due pezzi di gomma alle tempie, e dovettero tenerlo fermo in due mentre Arvezzi accendeva la macchina.

Ma Saetta non mostrò, né subito né in seguito, alcun sintomo di felicità: dopo alcuni secondi si divincolò al punto da sfregiare con gli artigli la mano del Sottosegretario, il quale - bestemmiando - comunicò a Arvezzi che il tempo dedicato a questo sciocchezza poteva ritenersi esaurito.

*

“Non poteva funzionare”, si diceva Arvezzi ripensando alla scena, consapevole dell’occasione perduta.

Presto fu al treno, dove salì e posò la preziosa valigetta con il registratore sopra i sedili di fronte al suo. Non le staccò gli occhi di dosso per tutto il lungo viaggio di ritorno a casa…

*

“Mooolto, molto interessante!” gli disse, qualche settimana dopo, il Responsabile delle Innovazioni nella sede milanese di Confindustria. Arvezzi non riuscì a trattenere un sorriso.

“Si, pensiamo che sia una invenzione interessante ed utile. Diffusa nelle fabbriche e negli uffici, potrebbe incrementare il livello di produttività generale eeee…ehi, ma dove diavolo va?”

Arvezzi uscì senza salutare, e sbattendo la porta. Pensò a suo padre, vecchio operaio comunista, ed alle occasioni di felicità che aveva avuto nella vita: tutte conquistate a fatica, strappate con i denti, e non certo diffuse gratis dai padroni per fregargli anche il diritto di essere incazzato!

*

“Mio caro”, gli disse mesi dopo l’Arcivescovo con la sua caratteristica pronuncia strascicata, “Lei ha creato qualcosa di veramente bello, di veramente vicino a Dio! Anzi, è sicuramente Dio che ha guidato la sua mente.

Perché questo nostro mondo ha un gran bisogno di serenità e di pace. Perché troppe cose strane turbano il cuore e le menti delle nostre pecorelle, che troppo spesso si perdono cercando la strada verso una felicità fasulla, vuota, lontana dalla retta via.

Questa sua invenzione di certo ci aiuterà a proporre il giusto, retto modello di felicità di cui gli uomini hanno bisogno. Di certo il Santo Padre…”

L’Arcivescovo si fermò, perché Arvezzi non lo ascoltava più. Aveva richiuso lo strumento nella valigia, aveva rispettosamente salutato con un inchino e si era diretto verso la porta.

*

Si diresse verso Piazza Duomo. Da lì veniva, sgradevole, lo strepito del Grande Comizio del Grande Presidente. Prima ancora che dalle parole aggressive, Arvezzi fu colpito dall’onda di rancore che saliva dalla folla, prima ancora di vederla.

Non era poi molta, quella adunata di fronte al palco, ma emanava una sorta di afrore odioso, che sembrava quasi riverberare sopra le teste in quel pomeriggio di primavera, caldo e morente.

Arvezzi ne fu colpito, come da uno schiaffo.

Si avvicinò cautamente al mixer. L’uomo che controllava il suono sembrava assente, semiaddormentato a causa del calore e stordito dalla valanga di parole.

Si mise a terra, alle sue spalle, ed estrasse la scatola grigia dalla valigetta. La accese, la mise in modalità di riproduzione, la posò a terra: prese dalla valigetta un cavo di connessione, lo collegò alla scatola e – con naturalezza – lo innestò su un canale del mixer.

Dopo pochi secondi, chiunque si trovasse ad osservare la folla ebbe la netta sensazione che su quei volti induriti, aspri e incattiviti si facesse largo un rilassamento generale, e fiorisse qualcosa che sempre più chiaramente assomigliava ad un sorriso.

Si percepì chiaramente che la voce iraconda che sovrastava la folla perdeva, progressivamente, il controllo su di essa.

Le persone iniziarono a guardarsi intorno, come a chiedersi perché diavolo fossero lì, e a mostrare segni di fastidio per lo sgradevole rumore che li avvolgeva.

Così, sorridendosi e scambiandosi frasi che divennero sempre più fitte, iniziarono ad allontanarsi verso gli angoli della piazza, sfuggendo all’asprezza di un suono ormai intollerabile.

Arvezzi sorrise, amaramente.

Quando la piazza fu quasi completamente svuotata, ed il Grande Presidente progressivamente incespicò e si inceppò, furente, per quello che ritenne un oltraggio – per il quale chiese im-me-dia-ta-men-te ai suoi uomini di trovare il colpevole -, Arvezzi incrociò lo sguardo interrogativo dell’uomo del mixer, al suo fianco, e sorrise anche a lui.

Con un improvviso colpo di tacco, sfasciò la scatola grigia che stava a terra; poi si girò e se ne andò, con le mani in tasca, fischiettando una stupida canzone dei tempi del liceo.

lunedì, maggio 02, 2011

Morto chi?

Accidenti. NON CREDO PIU' A NULLA.
Alla morte (e persino alla vita) di Bin Laden.
A quel che sento sulla Libia, e sulla Siria (perchè sull'Egitto e sulla Tunisia non sento più nulla).
Ma anche a quel che non sento, non leggo, non ascolto (qualche giorno fa non passava una banda rossa sotto un TG che diceva "50 morti nel Sud Sudan"? L'ho sognata?)
A quel poco che ricordo, ed a quel troppo che non si riesce più a ricordare (Lampedusa...il problema dell'immigrazione...la disastrosa situazione dell'economia italiana...la catastrofe di Fukushima...ah, si, ma è successo almeno un matrimonio reale fa, almeno una beatificazione fa, almeno un referendum fottioperai fa...)

E se restringo il campo (geografico e temporale) non sembra andar meglio.
Ieri, alla manifestazione del Primo Maggio a Torino, un pezzo di corteo ne butta fuori un altro e festeggia la vittoria con lo scalpo in mano. Anche in coda se le danno e si scambiano velenose accuse di reciproco carognaggio.
La folla approva, plaudente (la folla approva sempre gli atti di vendetta, e spesso anche la violenza come puro momento di spettacolo).
Molti amici approvano: io stesso mi trovo a pensare con piacere - sempre più spesso - alla morte del Satrapo, per pura vendetta (perchè so bene che nulla cambierebbe: il virus che da diciassette anni si è diffuso nel cuore e nella mente di questo paese non può scomparire con un semplice trauma; è necessario un processo di guarigione che durerà generazioni - ammesso che abbia mai inizio).

Insomma, ci si incarognisce, giorno dopo giorno. E si perde fiducia non solo in "verità collettive" di una certa dimensione, ma anche in piccole verità, quelle relative ad eventi che abbiamo sotto gli occhi e sulle quali DOVREMMO trovare una visione condivisa.

La miscela di queste due cose, secondo me, è esplosiva.