Visualizzazione post con etichetta Vajont. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Vajont. Mostra tutti i post

martedì, febbraio 24, 2009

Vajont, l'onda lunga

Lo ammette anche l'autrice, Lucia Vastano: questo libro (giunto alla seconda edizione, nel 2008), esplora volutamente il peggio, il lato oscuro della vicenda del Vajont dopo la catastrofe.
Il disastro del Vajont, accaduto nell'ottobre del 1963, è considerato dall'ONU "a classic example of the consequences of the failure of engineers and geologists to understand the nature of the problem that they were trying to deal with."
Quasi 2000 morti per colpa dell'uomo, in un susseguirsi raccapricciante di errori reiterati, di allarmi inascoltati, di pervicace ostinazione "progressista" contro l'"oscurantismo" ignorante delle popolazioni locali.
Ma questo è il prima, e ce lo hanno raccontato benissimo Paolini con la sua orazione civile e Martinelli con il film.
Il sottotitolo del libro è "Quarantacinque anni di truffe e soprusi contro chi sopravvisse alla notte più crudele della Repubblica".
Già, perchè oltre alle quasi 2000 vittime di quella terribile notte, va considerato che ci sono state altre decine di migliaia di vittime: i sopravvissuti, che oltre a perdere le famiglie e le case, hanno perduto - all'improvviso - anche la propria storia, il proprio passato.
Longarone (con le sue vie, le sue piazze, le sue chiese, i suoi bar) dopo il passaggio dell'onda si è trasformata in un immenso deserto di fango, sepolcro di vite e di una quotidianità che non sarebbe mai più esistita, se non nel ricordo.
Allibiti fantasmi, i sopravvissuti sono caduti subito vittime degli avvoltoi.
Come l'Enel, che ha - con rapide e sommarie transazioni economiche - messo fuori gioco con quattro soldi chi avrebbe potuto richiederle giustizia nei processi.
Come coloro che - muovendosi agevolmente sulle strade complesse delle leggi pro-Vajont - hanno acquistato per altri quattro soldi licenze commerciali ed artigianali dai sopravvissuti, ottenendo poi finanziamenti - in buona parte a fondo perduto - per avviare attività commerciali in tutto il Nordest.
(Pochi hanno resistito, ma anche perchè ben pochi erano nelle condizioni di resistere).
Già, perchè paradossalmente la tragedia del Vajont è stata uno dei motori dello sviluppo economico del Nordest.
Sono rinate, lungo i greti dei fiumi violentati, pericolose e inquinanti aziende che hanno fatto della zona uno dei luoghi in Italia che vede la maggior incidenza di morti per tumore (peggio di Porto Marghera!).
E' stato creato un paese finto, Vajont, con vie dritte e case tutte uguali, completamente avulso dalla storia di quel territorio.
La stessa ricostruzione di Longarone ha dato vita ad un paese senz'anima, senza cuore, senza alcun legame con la vivace cittadina del passato: un paese che respinge, in cui non si sente il respiro del vincolo che l'uomo crea con il luogo in cui abita.
E, come in tutte le storie italiane, anche in questa spesso scompaiono le tracce di parte degli ingenti flussi di denaro che si raccolsero quando l'emozione e la commozione percorsero l'Italia.

Ma questa è anche una storia di comunità divise, incapaci di avere una visione ed un obiettivo comune per difendersi, incapaci di ragionare insieme. Che giungono a creare associazioni e comitati in concorrenza tra loro, che antepongono l'orgoglio ed il campanile alla necessità di lottare e vincere insieme.
E' una storia di sconfitte, questa.
Di processi decennali in cui, pur accertando senza tema di smentita che il disastro era previsto e prevedibile, pagheranno alla fine soltanto in due, con pene ridicole (due anni - sei mesi).
Di un risarcimento tardivo e modesto, di fronte all'entità della tragedia, che l'Enel sarà infine costretta a versare al solo Comune di Longarone.
Di uomini e donne lasciati soli, senza supporto nè aiuto, avvolti dal mito dell'arricchimento grazie alla tragedia ("Con le tasche piene si piange meglio"), e scacciati dal pensiero del paese in quanto vittime scomode e "antipatiche".
Una storia da leggere, senza dubbio.

martedì, gennaio 06, 2009

Storia di Neve

Ho appena finito di leggere l’ultimo libro di Mauro Corona, “Storia di Neve”.

Corona è il (celebre) scultore-alpinista-scrittore di Erto, il paese della montagna al limite del Friuli occidentale cancellato - e poi, in qualche modo, riportato artificialmente in vita - dopo la catastrofe del Vajont nel 1963.

Il libro, di oltre 800 pagine, racconta la vita di una bambina “magica” nata ad Erto nel 1919, e morta ventinove anni dopo: e l’incredibile racconto (a cui Corona, nelle ultime pagine, vuol dare patente di autenticità) diventa pretesto per un epico affresco della vita di una comunità di montagna, in un arco di tempo che parte dal primo conflitto mondiale e termina ai giorni nostri, seguendo le ultime tracce di una memoria inquietante ed oscura, al punto che nessuno sembra più volerla custodire.

La scrittura di Corona è nodosa e contorta come i rami dei vecchi alberi; a mio avviso scrive male, malissimo. Ma l’irritazione per quelle parole che non filano, che si avvitano, che si annodano, che si attorcigliano, che girano su se stesse come un gorgo nella corrente di un fiume, è presto dimenticata e superata dall’incanto e dallo stupore per tutto quel che Corona sa e racconta di un mondo perduto per sempre.

Come in “Moby Dick” si entra affascinati ed in profondità nel mondo della tecnica baleniera, qui si apprendono, restandone colpiti, il valore ed il contenuto accumulato nei secoli dei mestieri e dei saperi “di montagna”, saperi che la modernità ha ormai ucciso in modo irreversibile.

Si comprende quanto quel mondo arcaico, primordiale, antico, fosse in realtà fatto di uomini che sapevano cavarsela in ogni situazione, fronteggiando gli eventi e la natura con equilibrio, costruendo con le proprie mani e con quel che avevano a disposizione quel (poco) che era necessario per vivere e per cavarsela.

(E ne ricaviamo, di conseguenza, l’idea precisa di quanto noi “moderni” siamo invece fragili, vulnerabili, piccoli e incapaci, completamente immersi nella complessa rete delle nostre dipendenze, completamente perduti se manca la corrente elettrica per un giorno o non ci parte l’automobile.)

Corona ci racconta la professionalità dei boscaioli, dei falegnami, dei maestri d’ascia: ci ricorda che esisteva chi sapeva fare una carbonaia o tirare una teleferica tra i boschi ed il paese in pochi giorni, e di come il legname si facesse arrivare a valle creando e distruggendo opportunamente gigantesche dighe di tronchi.

Ci spiega (come ha già fatto in altri libri) come quegli uomini avessero ereditato (lentamente, nel corso di generazioni) ed approfondito una conoscenza profonda della natura: e ci racconta il loro rispetto per essa, vitale per la loro esistenza, ed il loro rapporto corretto con le risorse disponibili – il legno, l’acqua, la terra…

L’oste, il becchino, il falegname specializzato nelle casse da morto (di cui il paese ha – nella storia narrata – uno smodato bisogno), il mugnaio, il fabbro sono altre figure indispensabili in quella comunità. Ognuno ha un ruolo necessario e per il quale è necessario crescere, prima o poi, un giovane che prenda il suo posto al momento opportuno.

Si prova simpatia per ognuno di essi e per il ruolo che ricoprono con piena consapevolezza e senso del dovere, anche se sono farabutti e bestemmiatori incalliti, anche se odiano con facilità e sono vendicativi.

Perchè quel mondo è rozzo, cinico, brutale come la vita di montagna. I caratteri degli uomini (e delle donne) sono tagliati con l’accetta, la solidarietà è mera comprensione del fatto che da soli non si può sopravvivere nelle difficoltà; non c’è poesia nelle ciucche e nelle risse, e le donne (esclusa Neve) sono soltanto streghe, o mogli silenti e maltrattate, o gambe da aprire per il sollazzo di chi ha lavorato duro o non ha ancora bevuto a tal punto da crollare ubriaco sul tavolo dell’osteria.

Le famiglie sono in gran parte luoghi di violenza e di inganno, la chiesa è luogo di vuota ma irrinunciabile ritualità.

Il romanticismo, nella storia, è riservato solo a Neve – una creatura appunto magica, e solo per questo buona, sensibile, non contaminata dalla cattiveria della vita - ed al suo impossibile amore.

Il resto è duro mestiere di sopravvivenza in un ambiente duro ed ostile, è fatica, rabbia, spietato realismo sulla realtà dell’esistenza – senza Dio, senza nessun aiuto da un “fuori” che è per definizione ostile, ingannevole.

La gente di “quella” Erto (tra novanta e sessant'anni fa) è abituata a cavarsela da sola, nei lunghi inverni in cui tutto si ferma sotto metri e metri di neve, e distese implacabili ed infinite di ghiaccio.

Ogni famiglia sa che deve giungere all’inverno provvista di tutto quel che sarà necessario a sopravvivere per mesi, bloccati in casa senza possibilità di muoversi: legna per riscaldarsi, alimenti, attrezzi per il lavoro e la cura degli animali.

Non c’è modo di muoversi dal paese, né di essere raggiunti: non ci sono ovviamente (per i primi decenni dell’arco temporale in cui si dipana la storia) telefono, corrente elettrica, acqua corrente. In questo mondo chiuso e isolato, i rancori e le avidità son le uniche cose che sembrano ravvivarsi e prender forza davanti ai camini incandescenti.

Le osterie sono i luoghi in cui ci si incontra, per inciuccarsi, giocare alla morra e fare baruffa.

Baruffe cruente, spesso, dove volano le accette e ci si bastona a sangue, o a morte.

I due immensi falò di primavera e d’autunno, che segnano rispettivamente il ritorno alla vita dopo l’inverno e l’arrivederci alla vita al ritorno dell’inverno, sono momenti di socialità e di riti tribali segnati dal fuoco e dall’alcool: la comunità si stringe intorno alle tradizioni e conferma la distribuzione dei ruoli (dall’anziano all’accenditore del falò, ai giovani che diverranno adulti sfidando la forza devastante e purificatrice delle fiamme in una prova di coraggio).

Quando in questo mondo la piccola Neve inizia a dispensare miracoli, il padre intravede la possibilità di acquisire potere e ricchezza, e questa idea lo corrompe al punto da fargli perdere ogni tabù: mette su dunque una congrega di farabutti suoi simili per dare il via ad una “fabbrica dei miracoli” che avrà lo scopo di renderli ricchi, ma non esita a spazzare via chiunque minacci il suo progetto.

Qui il romanzo assume una decisa deriva splatter, ed il numero e la modalità delle morti diventa impressionante, spaventosa: quasi ci si abitua a vedere il biancore delle ossa dell’ennesimo sventurato divorato dal milione di topi e pantegane che abitano, inquietanti, nelle fondamenta di un mulino, e diventano all’imbrunire lo spietato esercito del farabutto di turno, o il nero delle ossa dell’ennesimo sventurato divorato dal fuoco o dal calore.

Il numero di sepolture nel racconto è eccessivo, e son sempre sepolture di miseri resti ossei, quasi mai di corpi integri…così come numerosi e “naturali”, nel contesto, sono ahimè anche gli stupri.

Talvolta Corona le spara davvero troppo grosse e si lascia andare a sfottere il lettore, come quando immagina che un corpo travolto dalla fuga del milione dei roditori diventi una sorta di tappetino in cui avvolgere altri resti umani - come potrebbe accadere in un cartone animato -, o descrive un omicidio compiuto gettando un corpo a tutta velocità dentrò un falò usando una teleferica per il legname…

In questo è poco credibile come quasi tutti i protagonisti della storia, ma resta l’inquietante sensazione che uomini di quella fatta dimostrassero una forte coerenza tra le proprie rozze espressioni omicide e le proprie azioni.

Si procede, dunque, schifandosi a volte abbastanza, ma rimanendo avvinghiati alla storia, se non altro per capire quale sarà la punizione riservata al cattivo, che ci si aspetta spaventosa almeno in proporzione alla quantità ed alla qualità dei misfatti compiuti: perché, sull’altro versante del racconto, il destino di Neve è segnato e previsto sin dai primi capitoli, e – a parte una piccola eccezione, non particolarmente felice, negli ultimi capitoli - non ci sono colpi di scena che diano alla storia altri motivi di eccitazione.

Ma il principale valore di questo libro non è la storia in sé - Corona avrebbe dovuto lavorarci assai di più per donarle una parvenza di credibilità-, ma lo sfondo ed la descrizione del contesto in cui essa si svolge: in questo Corona è magistrale, didattico, prezioso, e forse non ci avrebbe fatto questo dono se non avesse avuto la velleità di scrivere un “vero romanzo”.

Perché un vero regalo, quando gli riesce, è la descrizione di quel mondo ormai perduto che ha vissuto in parte di persona, o conosciuto ascoltando con pazienza, davanti a centinaia di quarti di rosso in fumose osterie, le storie raccontate dagli uomini che a quei tempi ed a quelle storie sono sopravvissuti: e di questa fatica, e di questo racconto dobbiamo essergli profondamente grati, anche se non ha la meravigliosa e solida scrittura di Rigoni Stern, anche se non ha la accattivante capacità di raccontare di Marco Paolini.

lunedì, luglio 14, 2008

Vajont e Bolzaneto: la giustizia e l'oblio

Vedere le cose con i propri occhi è cosa ben diversa dal sentirle raccontare.
Erano decenni che non tornavo nella valle del Vajont: allora ero un ragazzo, e gli imprecisi ma terrificanti racconti di mio padre su quel che avvenne nel 1963 fecero su di me un effetto strano, acuito dalla visione di quella gola stretta e di quella diga arditissima e solida.

Vidi poi, in tempi nemmeno troppo recenti, l'orazione civile di Paolini, e lessi il testo dello spettacolo scritto da lui con Gabriele Vacis.

Nella valle ci sono tornato due sabati fa, grazie ad una amica carissima.
Il tempo sembra essersi fermato a quell'autunno del '63. La diga è ancora lì, ardita ed inutile. E' ancora lì la frana, quei duecentosessanta milioni di metri cubi che hanno cambiato radicalmente la fisionomia del luogo: dove il Vajont aveva pazientemente scavato, nei millenni, il suo corso, facendosi strada attraverso una antica frana, ora giace - da oltre quarant'anni - una montagna di detriti, dall'aspetto lunare.
Che, nonostante i decenni, ancora non è diventata parte del tutto, ma resta lì, estranea, ostile, diversa.
Ed è ancora lì, visibilissima, la ferita del Monte Toc, lucida e scura: quel taglio netto che mi riporta alla mente - chissà poi perchè - quando mio nonno usava un filo attaccato al tagliere di legno, per asportare le fette dalla polenta appena versata dal paiolo.

Dalla diga ci siamo spostati a Erto, il paese della valle che fu schiaffeggiato da una delle due spaventose onde prodotte dalla frana (quella che scese su Longarone, superando la diga, alla partenza era alta 70 metri: ed io cerco inutilmente, da sempre, di immaginarmi un simile muro d'acqua alto come un palazzo di venti piani).
158 morti, lì, sugli oltre 1900 provocati dal disastro, di cui solo 15 corpi ritrovati.

Il vecchio paese è silenzioso e vuoto: la vita si è spostata sopra quota ottocento di altitudine, dove è stata costruita la parte nuova del paese.
In un palazzo che ospita la sede del Parco vi è la mostra permanente sul disastro. Se avete il tempo di visitarla, conoscerete e ricorderete un sacco di cose (molte le raccontò Paolini, ma molte sicuramente si sono perse negli anfratti della memoria, e conviene ricordare, ricordare, ricordare).
Ricorderete lo spirito ardito degli imprenditori e l'orgoglio degli ingegneri della SADE, che progettarono ed innalzarono quell'opera unica al mondo, la più grande diga a doppia curvatura.
Ricorderete la reazione rozza e diffidente dei valligiani, che vennero subito bollati come oscurantisti e contrari al progresso.
Ricorderete le perizie geologiche, che da subito rivelarono una frana lunga 2 km sul Toc, a sua volta relitto di una antica frana: una cosa che tutti sapevano, senza dubbi, sin dall'inizio. E che divenne evidente, dopo gli allarmi lanciati dalla coraggiosa Tina Merlin sull'Unità, con la prima frana del 1960.
Ricorderete come, in nome del progresso che non si può fermare, e per vendere alla neonata Enel la diga che non era ancora stata collaudata, nel 1963 si procedette al riempimento dell'invaso nonostante le scosse di terremoto del quinto grado della scala Mercalli, nonostante i brontolii continui e le fessure che si aprivano sul Toc, nonostante la strada costruita attorno al lago artificiale fosse ormai inagibile a causa dei disassamenti che la laceravano.
Ricorderete come al sindaco di Longarone nessuno disse che le prove fatte con un modellino della diga e della valle avevano dimostrato la possibilità che, in seguito alla frana prevedibile e prevista, un'onda alta 20 metri avrebbe potuto superare la diga ed abbattersi sul paese: e sappiamo, dalla storia, che l'onda vera fu tre-quattro volte più spaventosa di quella prevista.
Ricorderete il dopo: il dolore, il disastro, la valle del Piave spazzata dal vento e dall'acqua. I corpi recuperati con gli uncini dai ponti, le case rase al suolo, gli oggetti sugli alberi.
Ricorderete le prestigiose penne di Dino Buzzati e Giorgio Bocca che parlano di fatalità, e le Commissioni di inchiesta (del governo e dell'Enel) che lo confermano, così come una perizia dell'Università di Padova.
E ricorderete un giudice istruttore di Belluno, Mario Fabbri, che da solo contro tutti afferma che sia la frana che l'onda erano prevedibili, e che si tratta di omicidio colposo, e chiede 158 anni di pena per i responsabili.
Nessuna Università italiana osa produrre una perizia che smentisca i colleghi padovani, e Fabbri deve rivolgersi in Francia.
Dove gli confermano che tutto era prevedibile e previsto.
Ricorderete che, in primo grado, la tesi della prevedibilità della frana non viene accolta: in appello ed in cassazione (nel 1971, 15 giorni prima della prescrizione) finalmente si, ma porta alla condanna di soli due imputati per una pena complessiva (inclusi i condoni) di DUE ANNI E OTTO MESI.
Due anni e otto mesi di galera per oltre 1900 morti.

Ricorderete, ancora, che il comune di Longarone avvia anche una causa civile, che nel 1997 si conclude con l'Enel costretta a risarcire i danni ai comuni colpiti: ci sono voluti 34 anni. Ingiustizia è fatta.

Ricorderete. Almeno questo, è importante. Sempre.

UPDATE: Mi giunge adesso notizia che anche il processo per le violenze di Bolzaneto del 2001, una delle orrende code sudamericane al G8 di Genova con decine di persone ferite, umiliate, maltrattate dai poliziotti, si è concluso con pene lievi, e grazie all'indulto nessuno andrà in galera.
In galera, per ora e per altri motivi, c'è andato Ottaviano del Turco, Presidente della Regione Abruzzo, sorpreso a ricevere mazzette. Ma non tema, perchè il nostro Presidente del Consiglio ha molto a cuore la sorte dei ladri e dei corrotti, ovviamente solo se potenti, e troverà presto il modo di liberarlo dalla solita congiura della magistratura.