mercoledì, gennaio 27, 2010

La mia personalissima giornata della memoria


Nell’estate del 2005 ho visitato per la prima volta Auschwitz. Ci sono tornato l’estate scorsa, visitando anche Auschwitz 2 (Birkenau).

L’emozione provata non si può descrivere facilmente: forse la comprende soltanto chi ci è stato.

E’ uno dei pochi luoghi e dei pochi momenti, nella mia vita, in cui ho percepito intorno a me il MALE come sensazione fisica reale: come se fosse un odore, una nuvola, una condizione atmosferica.

Quel che abbiamo compiuto in quel luogo (come umanità, come cittadini di un’Europa colta, ricca, “superiore”) è come rimasto immobile nell’aria, si può respirare ancora oggi: e induce al silenzio, alla riflessione. A tacere ed a pensare.

Solo un’altra volta, nella mia vita, ho provato emozioni più forti di quelle sentite ad Auschwitz. Nel 1989, in un viaggio di conoscenza in Brasile, alternai la frequentazione delle spiagge dorate (e dei luoghi meravigliosi di quello straordinario paese) alla conoscenza della realtà.

E, dietro la copertina esibita ai turisti, la realtà era (ed è ancora, purtroppo, nonostante Lula) favelas, miseria, oppressione dei deboli, distruzione della dignità dell’uomo.

A Salvador de Bahia, una delle città più belle e disperate del Brasile, puoi essere portato ad ammirare la splendida città vecchia, capolavoro dell’architettura coloniale portoghese, fatta di bellissimi edifici color pastello, di stucchi candidi, di forme morbide e curvilinee, e rimanerne affascinato.

Ma non puoi (e non devi) non andare in altri due posti della città dove puoi comprendere il senso della parola “inferno”.

Il primo luogo è (ancora oggi) il poverissimo quartiere detto degli “Alagados”. Il nome è ironico, perché si tratta di palafitte di legno costruite direttamente sugli scarichi fognari a mare della città., collegate fra loro da incerte e precarie passerelle marcite.

L’alta marea provvede periodicamente a innalzare il livello dei liquami sui pavimenti della abitazioni. Qui vivono centomila persone. Centomila. Arrivate da qualsiasi parte del paese, come gli abitanti della favelas di Rio e San Paolo, in cerca di una speranza qualsiasi tra l’immondizia del presente. Come a Rosarno e nelle periferie delle nostre città, anche se a Salvador tutto è moltiplicato per cento: i numeri, così come la disperazione e l’orrore.

Immaginate la situazione igienica, morale, educativa.

Non vi racconto cosa significa, qui, guardare negli occhi le persone, o – peggio ancora - i bambini.

Immaginate da voi la sensazione che si può provare: immaginate come quello sguardo – accompagnato spesso, e questa è la cosa più sconvolgente, da un sorriso sincero - possa cancellare in un millisecondo, dal nostro cervello da uomini superiori, tutte le migliaia di cazzate che ci hanno inserito a forza.

L’affollamento di minchiate (i programmi tv, la macchina nuova, il cellulare, i viaggi, la “qualità della vita”, il buon cibo, gli abiti eleganti, l’invidia, la carriera, la competizione sociale) si dissolve all’istante, e nell’immenso spazio vuoto che si crea all’improvviso lampeggia una scritta che recita qualcosa come “dare un senso alla vita”.

E’ uno shock. Uno schiaffo violento al castello di bugie su cui costruiamo l’idea di un mondo “sviluppato” e di uno “arretrato”, che lo fa crollare come fosse sabbia – e poi, per tutta la vita, non c’è più verso di rimetterlo insieme.

Un altro inferno, a Bahia, è la discarica della città. O, meglio, la città nella discarica.

Tra le montagne di rifiuti di ogni genere, ed i milioni di variopinti sacchetti di plastica lacerati e sventolanti come bandiere tibetane, ci sono delle autentiche strade. E, ai margine delle strade, direttamente su rifiuti, le tende in cui vivono le persone. Quasi sempre si tratta solo di un telo di plastica agganciato su qualche bastone. Qui vivono centinaia di persone, in maggioranza bambini.

Attendono l’arrivo dei camion della spazzatura, attorno ai quali, quando il pianale rovescia altra immondizia sulle montagne già esistenti, si affollano come formiche operose.

E dallo scarto della società civile traggono non solo rifiuti da rivendere o da impiegare per costruire rifugi meno precari (materiale ferroso, legno): ma cibo, che viene consumato subito, con le mani che pescano a cucchiaio, perché la fame e la disperazione se ne fottono assai del bonton.

Moltitudini, dunque, che non possono essere definite deficienti o “fallite”, come si è tentati di fare sbrigativamente secondo la nostra concezione “da vincenti”: sono soltanto parte di quella immensa maggioranza di persone che nel mondo hanno avuto la sfiga di nascere dalla parte sbagliata del mondo (a Salvador de Bahia, si tratta del 90% della popolazione).

Senza lavoro, senza soldi, senza averi, senza cibo, senza presente né futuro, in un mondo che non tollera la povertà: e, anzi, non vuole nemmeno pensarci.

Noi “che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, noi che troviamo tornando a sera il cibo caldo”, come diceva Primo Levi, siamo portati a pensare che la differenza tra noi e “gli altri”, nel senso degli ultimi del mondo, sia solo una questione di “volontà”.

Se uno ha buona volontà…se ha voglia di lavorare…se si comporta bene…se dice sempre sì…se si adatta…

Continuiamo a raccontarci queste palle, d’accordo: è molto più semplice che ammettere che l’ingiustizia su cui si basa questo mondo è semplicemente intollerabile, e che ne siamo in qualche modo complici nel momento in cui neghiamo la verità, e ci ostiniamo a “parlare d’altro” (mai della vita, ma in genere di ciò che in essa vi è di più futile).

Ma torniamo ad Auschwitz.

Auschwitz 1 (dove vi è il famoso cancello con la scritta irridente “Arbeit macht frei”) è un complesso di fabbricati tutto sommato “decenti”, in un contesto urbanistico che trasmette – se uno si astrae dall’uso finale del luogo - un senso di ordine, come in un tranquillo ed ordinato quartiere industriale.

Gli edifici sono stati trasformati in museo permanente, e solo all’interno l’orrore di quel che accadde si esplica davvero, con tutta la sua forza.

Nelle impressionanti vetrine colme di capelli. Di protesi. Di scarpe. Di valigie con i nomi scritti con il gesso, come gli indirizzi verso cui quegli uomini, quelle donne e quei bambini non avrebbero più fatto ritorno, mai. Di oggetti di uso quotidiano (tazze, pettini), resi inutili dal fatto che alle persone a cui appartenevano, prima ancora di passare per il camino, era stato strappato dal corpo e dall’anima il senso stesso della parola “persona”.

E poi, l’infinita galleria di foto di identici fantasmi, a cui il taglio dei capelli e l’imposizione della divisa a righe verticali ha già cancellato ogni apparenza, ogni specificità umana: che riesci a ritrovare solo in poche espressioni disperate, perché nella maggior parte dei volti domina l’attonimento, la legittima assenza di comprensione di quel che sta accadendo.

Auschwitz 2 (Birkenau) rappresenta il passaggio al momento seriale ed industriale del sistema di sterminio. E’ alcune decine di volte più grande del complesso originario, ed è l’immagine più comune che il nostro cervello richiama alla mente quando sente le parole “campo di sterminio”.

Un vasto quadrato di territorio su cui sorgono i resti di centinaia di baracche identiche, il cui format di origine è una stalla: ovviamente gli ex.umani che qui giunsero vennero stipati in esse in quantità infinitamente superiore a quella originaria degli animali.

All’ingresso, una costruzione con una piccola torre che consente il controllo visivo completo sul campo: attraverso di essa, quei binari che tagliano in due il campo, ed ancora oggi ci danno i brividi.

Le baracche sono state tutte distrutte, ad eccezione della fila più vicina all’ingresso. Dentro quelle superstiti, i fitti soppalchi di legno su cui gli uomini a righe dovevano stendersi alternati, piedi contro testa, a tre a per volta. In mezzo alla baracca, una misera stufa a sfidare insulsamente i rigori dell’inverno polacco.

Bisogna prendersi il tempo che serve, e camminare piano su quei prati, in mezzo a quei ruderi. E leggere con attenzione i cartelli, che raccontano nei dettaglio il sistema organizzativo dello sterminio. Il settore dedicato agli zingari. Gli ampliamenti, come si fa per i cimiteri (anche questo lo era di fatto, anche se i morti che vi giungevano conservavano della vita solo gli aspetti biologici).

In fondo, sulla destra, qualcosa di agghiacciante.

Un ameno boschetto, due laghetti. Un luogo apparentemente di pace, di ristoro, di quiete.

Poi leggi che, sotto questi rami e queste foglie, venivano inviati a sostare coloro che – in tempi di “eccesso di scorte in magazzino” - passavano direttamente dal treno ai forni, senza nemmeno subire il processo intermedio di degrado da persone a fantasmi.

Alcune foto rappresentano, sotto quegli alberi, famiglie con i bambini: stretti nei cappotti e nei foulard, vicini agli altri per difendersi dal freddo, inconsapevoli (o forse no, ed è ancora peggio) del futuro prossimo. E vengono i brividi anche a te, nonostante sia una giornata estiva e relativamente calda.

Nell’acqua dei laghetti, sono dissolte le ceneri di migliaia di persone.

O forse sono ancora lì sotto, come un incubo, una massa grigia e densa che incombe sulla coscienza del mondo.

Al fondo del campo, ai lati, i forni crematori fatti saltare dai nazisti prima dell’arrivo delle armate sovietiche. Conservare la memoria, anche se sembra paradossale, implica la necessità di conservare questi ruderi e queste macerie così come sono. Macerie che sono il simbolo di un’Europa obbligata a ricostruirsi dopo la follia, il disastro, l’allucinazione collettiva del totalitarismo, l’olocausto.

In un’altra occasione, qualche anno fa, andai a Terezin, nella Repubblica Ceca, sede di un famigerato campo della Gestapo. Lì, gli ebrei transitavano in attesa di essere inviati ad Auschwitz.

Ho passato la notte nel piccolo paese presso cui sorge il campo, che visitai il giorno dopo, e non ho chiuso occhio. Anche in questo caso il Male mi penetrava nei pori. Mi domandavo di continuo come fosse possibile che – in quel luogo, in quelle modeste case, solo sessant’anni prima – le persone potesse vivere normalmente, e condurre la propria esistenza pur nella consapevolezza dell’orrore che avveniva a poche decine di metri da loro.

Ma a Terezin vi fu un evento particolare, nella storia dell’Olocausto, che merita di essere ricordato.

Riporto da Wikipedia:

“Il 23 giugno 1944, in seguito alle proteste del governo danese che dall'ottobre 1943 chiede notizie sul destino degli ebrei catturati a Copenaghen, Adolf Eichmann accorda una visita al campo ai rappresentanti della Croce Rossa internazionale al fine di dissipare le voci relative ai campi di sterminio. Per eliminare l'idea di sovrappopolazione del campo molti ebrei vennero ulteriormente deportati verso un tragico destino ad Auschwitz. L'amministrazione del campo si occupò inoltre di costruire falsi negozi e locali al fine di dimostrare la situazione di benessere degli ebrei di Theresienstadt. I danesi che la Croce Rossa visitò erano stati temporaneamente spostati in camere riverniciate di fresco e non più di tre per camera. Gli ospiti poterono apprezzare l'esecuzione dell'opera musicale Brundibar (scritta dal deportato Hans Krása) eseguita dai bambini del campo.

La mistificazione operata nei confronti della Croce Rossa fu così riuscita che i tedeschi girarono un film di propaganda a Theresienstadt le cui riprese iniziarono il 26 febbraio 1944. Diretto da Kurt Gerron (un regista, cabarettista e attore apparso con Marlene Dietrich nel film L'angelo azzurro), esso era destinato a mostrare il benessere degli ebrei sotto la "benevolente" protezione del Terzo Reich. Dopo le riprese la maggior parte del cast, e lo stesso regista, vennero deportati ad Auschwitz dove Gerron e sua moglie vennero uccisi nelle camere a gas il 28 ottobre 1944. Il film completo non venne mai proiettato ma alcuni spezzoni vennero utilizzati dalla propaganda tedesca ed oggi ne rimangono solo alcuni frammenti.”

Non vi ricorda qualcosa di molto attuale, questa mistificazione della realtà ad uso di occhi non informati (o volontariamente chiusi)?

Per finire.

Io non credo che sia necessario andare ad Auschwitz, e nemmeno nelle periferie di Salvador di Bahia, per diventare consapevoli. Di quello che come umanità siamo stati e siamo capaci di fare.

Certo, se uno ci va, poi non può più far finta di “non sapere”.

Ma gli strumenti per essere consapevoli della situazione del mondo, oggi, sono tutti qui, a nostra disposizione. E non usarli, o ignorarli, significa scegliere di nuovo di essere complici, come è già accaduto, come sta accadendo.

Ecco, la memoria è indispensabile perché ci permette di avere consapevolezza.

Una volta che si ha consapevolezza, non si può più fingere.

Ieri, ad esempio, un articolo di Carlo Petrini su Repubblica raccontava di come le potenze economiche emergenti (Cina, India, Corea) stiano comprandosi pezzi interi di Africa e li stiano dedicando a monoculture (riso, cereali), per l’esportazione verso il paese proprietario, con altissimo impiego di fertilizzanti chimici e semi OGM. Quando il territorio sarà impoverito e reso improduttivo, verrà semplicemente abbandonato, e reso come un involucro vuoto e morto ai legittimi proprietari.

Inoltre, sui mercati africani le potenze neocoloniali (che di nuovo derubano quel continente usando gli strumenti finanziari, al posto degli eserciti, ma provocando di nuovo devastazione e morte) vendono le eccedenze di produzione a metà del prezzo dei prodotti locali, distruggendo ogni forma di economia locale, senza nessuna possibilità di salvezza.

E obbligando gli africani a lasciare il mondo che appartiene loro, per venire da noi a occupare l’ultimo gradino della scala sociale – odiati, perseguitati, lasciati morire nel deserto libico, scacciati.

Come dice il sociologo Jean Ziegler: «Da una parte si organizza la fame in Africa, dall’altra si criminalizzano i rifugiati della fame».

Un altro esempio del fatto che ricordare non basta.

Che sia indispensabile farlo, ma che occorra un passaggio in più: la consapevolezza, appunto. Perché ricordare i nostri crimini passati ha senso solo se serve ad evitare di compierne di nuovi, presenti e futuri.

venerdì, gennaio 22, 2010

Putacaso

Metti che (è pura accademia) una persona a me molto cara muoia nel rogo di una fabbrica, o perda tutti i risparmi a causa dei consigli di un bancario di merda che gli fa comprare titoli spazzatura.

Metti che (è pura accademia) si facciano le indagini e si apra il processo nei confronti dei responsabili dei fatti, che sono stati identificati e di cui si accerta la responsabilità.

Metti che (è pura accademia) il parlamento del paese in cui vivo faccia una legge che impone una durata predeterminata dei processi per ogni tipo di reato, fottendosene della complessità specifica di ogni vicenda (un po' come se si imponesse una permanenza limite del ricovero in ospedale per ogni tipo di malattia, indipendentemente dal suo decorso...oddio, mica gli avrò dato un'idea?:-()

Metti che (è pura accademia) questa legge faccia sì che il mio avvocato, un bel giorno, mi chiami e mi dica che il processo si è estinto per superamento dei termini di uno dei gradi di giudizio.

Metti che (è pura accademia) io vada allora a prendere da qualche parte dei nomi a caso: quello di un parlamentare che ha votato quella legge, quello del responsabile della sicurezza dell'azienda in cui ci son state le morti bianche, quello del direttore della banca che ha venduto o del dirigente dell'azienda che ha garantito i titoli spazzatura.

Metti che (è pura accademia) io non abbia i soldi per pagarmi un valido avvocato: perchè sennò gli chiederei quale tipo di reato potrei commettere a danno delle persone di cui al punto precedente, scegliendoli tra quelli per cui la legge sul processo breve (la stessa che mi ha negato giustizia) può con ragionevole certezza garantirmi l'impunità.

Metti che (è pura accademia) io abbia comunque i soldi sufficienti a comprare un bastone robusto, un passamontagna, un po' di esplosivo, un'arma. E che, invece di farmi assistere da un avvocato, decida di farmi assistere dal buio, dalla notte, dal silenzio, dai luoghi poco frequentati.

Ecco. Io credo che questa legge funzionerà, sissì.
Svuoterà di certo le aule dei tribunali, e cancellerà nel tempo quella "vergogna" nazionale che sono i processi interminabili.

Ma penso anche che riempirà le notti di ombre furtive, e gli angoli bui di movimenti sospetti, e i selciati di sangue, e l'aria di paura.

Quando la giustizia si ritrae, il suo posto viene inevitabilmente occupato dalla vendetta.

Ma che bella e nuova società, ci stanno preparando costoro.

giovedì, gennaio 21, 2010

Fiabe italiane

(Foto tratta dal sito www.sentieriselvaggi.it)

Simpatico e divertente.
Lo spettacolo allestito da John Turturro - partendo da alcune fiabe italiane raccolte da Calvino, Basile e Pitrè, e coinvolgendo alcuni pezzi da novanta della scena attoriale americana - scorre gioioso davanti agli occhi dello spettatore, che resta affascinato dalla scenografia fantastica e dal continuo mutare degli eventi...che non vi racconto qui, rimandandovi a distanza di un clic direttamente alle parole di John Turturro...
La compagnia ci mette un evidente impegno a parlare in italiano più che può: ma la rappresentazione vira costantemente sull'inglese, e risulta un po' difficoltoso seguire i sopratitoli, proiettati altissimi - nel modo più scomodo possibile da leggersi, con torcicollo garantito per gli sfigati delle prime file:-)
Ovviamente, anche le parti recitate in italiano risentono pesantemente di una dizione alla "broccolino", il che provoca a tratti un effetto parodistico.
Il peggio (si fa per dire) capita nelle canzoni, dove domina un grammelot americano-siculo-partenopeo italiano in cui - come direbbe una vecchia pubblicità - finisci per sentire il suono ma non capire una cippa delle parole.
Bravi e simpatici tutti gli attori, con una menzione speciale per il mostro sacro Richard Easton (la scena in cui lo "travestono" da drago lo sputtana un pochino, ma pazienza...:-))
Bellissima, come detto, la scenografia, fiabesca al punto giusto per contenere e rappresentare i sortilegi, gli oggetti magici, gli oceani, i castelli, le navi, le streghe, i principi, gli asini:-)...naif e appropriata, ospita invenzioni simpatiche (bambini di pezza che crescono con il passare degli anni, fratelli moolto "incombenti"...).

Molte risate, e prolungati applausi alla fine dell'unico atto. Si replica al Carignano fino al termine di gennaio.

mercoledì, gennaio 20, 2010

Diluvio

Il processo breve di merda passa al Senato.
Un certo tizio fa porcate tutti i giorni, e nei sondaggi il suo indice di gradimento cresce.
L'ultima che aveva proposto l'ha persino ritirata, perchè era davvero troppo grossa: un altro vergognoso premio agli amici suoi, al costo di 24 miliardi che avremmo pagato noi in qualche altro modo, come accadde per l'abolizione dell'ICI.
I soldi per la scuola pubblica non ci sono: e il Ministero manco si vergogna di dirlo, e suggerisce senza arrossire di usare i soldi dei genitori per pulire anche i cessi.
Anzi, per evitare che i nostri ragazzi diventino troppo intelligenti, è meglio farli studiare un anno di meno. Un anno di studio in meno per fare gli apprendisti o i fantasmi?
E, come fa notare Gramellini, riusciamo pure a commuoverci per la morte di tutti quegli esseri umani della cui vita, fino al giorno prima, non ce ne fotteva assolutamente niente.

In tutta questa merda, di cui quanto sopra è soltanto un piccolo e miserabile distillato, la cosa migliore da fare è certamente riabilitare Craxi, invece di lasciarlo nel cassonetto della storia dove merita di stare. E' di certo un fulgido esempio morale per i giovani: visto che tanto per vivere dovranno rubare, che sappiano almeno farlo con stile ed imparando a fare le vittime.
Craxi, un altro eroe dell'Italia di Mangano?...pazzesco. E che delusione, Presidente, che delusione.


Altro che campagna d'odio...qui ci vuole come minimo un diluvio universale. Che duri un paio d'anni. Preceduto dal divieto assoluto di costruire arche.
Anche solo localizzato su questo paese assurdo, eh: mi accontento.

venerdì, gennaio 15, 2010

Buon Dio a cui molti sinceramente credono...


...e di cui avremmo disperatamente bisogno, tutti, come di una speranza...

Che stai facendo, di bello?
Sei in vacanza?

No, non ti attribuisco la perdita di Angela, o la catastrofe di Haiti - che non riesco nemmeno a ricondurre a qualcosa di comprensibile, di misurabile - e mi riferisco anche al dolore di quella terra PRIMA del terremoto.
E nemmeno la situazione del mondo: quella è tutta colpa nostra, me ne faccio carico anch'io per quanto pecco - quotidianamente - di ignavia o di indifferenza.

Ho smesso di considerarti possibile molti anni fa, dopo aver perso uno dei miei affetti più cari: mi sono serviti anni per tornare a vivere senza quella parte di me. Era una parte buona, gentile. Non aveva colpa, ma la vita (o quella sua parte oscura che è la morte) l'ha strappata e gettata via.

Ho smesso di sperare che ci fossi leggendo la storia dell'uomo.
Tutti quelli che ti hanno chiamato, disperati, non hanno mai avuto la fortuna di averti dalla propria parte, nè uscendo da un camino nè subendo la fame, il dolore, la violenza.
Sono sempre stati gli uomini - e quelli che credono in te spesso con maggior forza degli altri, lo riconosco - a doversi gestire il male ed il bene: DA SOLI.

Se tu fossi ancora una speranza, sarebbe splendido. Daresti forza, volontà, energia, ed il coraggio per resistere, per sognare, per cambiare. Per sorridere all'uomo.
Purtroppo per il mondo, ultimamente assomigli sempre di più ad una semplice distrazione.

giovedì, gennaio 14, 2010

Angela esiste.

Dunque, la tua lunga battaglia è finita, amica mia.
Ti immagino serena, finalmente, e pronta a riposare: questo mi rincuora.
Il dolore ti ha lasciata, e questo mi solleva.

Non resta che salutarti, allora: solo per il momento, eh...
Tanto so - sappiamo - dove venire a trovarti, in futuro (PRIMA di lassù): nel giardino di uno dei luoghi più belli e dolci in cui siamo mai stati, ed in cui abbiamo davvero sentito cos'è l'amicizia, l'affetto, la vicinanza, ed anche la bellezza della diversità tra noi; tutto quel che ci ha legato, irreversibilmente, profondamente.

Rintraccio, negli angoli della Rete e della mia posta, i nostri primi contatti: la scoperta dei reciproci blog, non mi ricordo nemmeno più come (perchè forse non ha importanza il momento, ma il fatto che, semplicemente, ci incontrassimo, e che questo evento possa considerarsi in qualche modo predestinato).
E subito, immediata, quella sensazione di condividere una visione del mondo e della vita che andava semplicemente "rivelata", pian piano.

L'idea - la necessità - di vederci nasce nella primavera del 2008.
Incominciamo a ipotizzare un incontro, perchè da subito sono molte le persone che - leggendo e scrivendo le parole che abbiamo umilmente deciso di usare come semi di un dialogo sui nostri dubbi, sulle nostre domande - sembrano "sentire" la vita come la sentiamo noi, e si avvicinano ai nostri - ed altrui - blog come ai tavoli di un'osteria in cui di nuovo e finalmente, con un bicchiere di rosso in mano, si parla della vita.
E pian piano aggiungiamo sedie, e ognuno si ferma.
Ed inizia a dire la sua.

Ci vuole un po' di tempo e pazienza, ed intanto le relazioni si approfondiscono, i "riconoscimenti" reciproci sono sempre più forti.
La fase preparatoria inizia a settembre, ed a dicembre ciò che è naturale - finalmente - accade.

I nostri corpi, le nostre voci, i nostri volti escono finalmente dalla virtualità e diventano carne e sangue, sorrisi, abbracci, occhi che parlano, orecchie e cuori che ascoltano.

Partiamo da Torino in tre: non ci siamo mai visti prima, ma dopo un'ora siamo amici da sempre.

E quando arriviamo a Collevecchio, il viso tuo e quello di J. si collocano esattamente nei posti bianchi già riservati nei nostri cuori: collimano perfettamente, come se fossero immagini che avevamo già dentro da un tempo lontano.

Il resto è delizia.
Sentirsi in armonia assoluta con il mondo, quando il mondo è rappresentato da persone con cui non devi proteggerti nè nascondere quello che sei: anzi, ti vien voglia di dare il meglio, di rassettare il tuo animo, di fare le pulizie di primavera, di dare aria alle stanze ed imbiancare lo spirito.
Perchè senti, con persone così, di dover spontaneamente offrire i doni che hai raccolto lungo la vita ed il percorso fatto fino a qui: perchè senti che stai ricevendo un flusso caldo e dolce che si chiama "umanità", e che ha un valore inestimabile.
Perchè ti senti pieno di gioia e di gratitudine, e sai bene che è la cosa più bella che ti può capitare nella vita: non la puoi comprare, non la puoi cercare con una mappa - puoi solo sperare di incontrarla.

A noi è capitato. Siamo persone fortunate, immensamente fortunate.
Quella "rete", quella "altra Italia possibile" che si è saldata davanti al camino di un antico convento, ed a cui abbiamo dato il nome antico di Compagnia di Collevecchio, nell'anno successivo ha lentamente catturato altre persone straordinarie, altre esperienze, altre storie, ed oggi è la eredità più ricca che potremmo ricevere da te, e che non esiteremo a reinvestire, per sempre: con te nel cuore.

Conto i momenti di gioia che abbiamo trascorso con te: li ricordo tutti, ma elencarli è impossibile: mi basteranno per la vita, e si è trattato per me di un solo anno...
Collevecchio, Torino, Milano, la Val d'Orcia. Il sole, la nebbia, la neve (perchè tu eri con noi anche quando non eri con noi:-)), attraversando insieme tutte le stagioni di questo anno straordinario.
E la condivisione antica del pane (e del vino, e - diciamolo - di ogni ben di dio, a dare ancora più gusto a questa amicizia), e la emozione di essere insieme in alcuni degli angoli più entusiasmanti di questo nostro paese martoriato dal male, eppure così bello...
Le canzoni, le poesie. Le scemate, meravigliose e serie anch'esse, come il pellegrinaggio della sezione NordOvest a Pian della Mussa per prenderti un'acqua speciale...

Ehi, Angela, te lo prometto: non smetteremo. Non smetteremo mai di volerci bene, perchè così tu sarai sempre qui e ci mancherai di meno.

Ci vediamo, presto. E ci vedremo anche in futuro, no?

Ti diremo ancora le parole che ascoltavi con amore ed attenzione, certi che in qualche modo ci ci ascolterai e ci dirai la tua.
Davanti a quel melograno, ad esempio..

Si, ci sarai sempre, Angela cara.
Questo è solo un passaggio: ora che tu sei più leggera, ognuno di noi ti porta con sè, dentro di sè, e si sente ancora illuminato dal tuo splendido sorriso.

P.S. Ho qui accanto a me "L'era della debolezza": credo che rileggerlo questa notte sarà il modo migliore per sentirti vicina.

mercoledì, gennaio 13, 2010

Post confuso di inizio anno: dalle parole irritanti, via Bersani, alla Rivoluzione del Grande Silenzio

(L'immagine è stata rubata da questo sito)

Si, lo ammetto, è evidente a chiunque: il primo post di questo sesto anno di blog sta avendo una gestazione particolarmente difficoltosa (e questo incipit è indubbiamente candidato a finire nella famosa rubrica "Chissenefrega" del compianto "Cuore" di Michele Serra, se ancora fosse in edicola).

Una delle cause è che in questo periodo nutro poca fiducia nelle parole: le mie mi sembrano inutili ed un po' autistiche, quelle più pronunciate e scritte in giro mi creano una fortissima irritazione.

Chessò, giusto per fare un esempio: la parola "amore" in bocca a Berlusconi fa venire voglia di non pronunciarla mai più. E' irrimediabilmente contaminata.
Peraltro, anche la parola "Berlusconi" vorrei cancellarla per sempre dal vocabolario, mi ha stomacato.
Si, sento il forte bisogno di una neolingua come quella proposta in appendice a "1984" di Orwell: per depurare l'italiano di oggi da un sacco di vocaboli che sono irrimediabilmente infetti, insani, e puzzano irrimediabilmente di marciume ("riforma", "dialogo", "ad personam", e anche "democrazia"...).
Sperando che la cancellazione dei vocaboli cancelli anche le cose, che - secondo la tesi di "1984" - vengono meno se non esistono parole per descriverle.
Perchè in questi anni il potere ha applicato una strategia opposta: inflazionarci di parole, in numero tutto sommato limitato ma ripetute e riciclate fino a logorarle, renderle vuote, inutili, ridotte a semplici suoni. A volte anche sgradevoli, insopportabili. Creando "immagini di concetti" anche dove esiste il nulla.
(Da leggersi, al proposito, questo post.)
Pare che la comunicazione su web tra le generazioni più giovani si basi su una base di non più di 800 parole (1), una frazione infinitesimale tra quelle disponibili nel nostro lessico, che sono diverse decine di migliaia (2).
Ma son cose che dico spesso, e quindi non riprenderò qui la mia abituale elegia del silenzio: anzi, come è nella tradizione del peggior bloggerismo nostrano, "scriverò alcune cose" per unirmi al tremendo rumore di fondo di parole insensate ed inutili:-)))

Rimanendo più o meno in tema, partirò da una notazione del tutto superflua, e - credo - estremamente impopolare.
Ovvero, che a me il silenzio di Bersani piace.
Drogati dall'orgia di parole di cui non sappiamo fare a meno, assetati dell'ultima inutile dichiarazione dell'ultimo cretino che ci consenta di dare il via ad una stura di controdichiarazioni altrettanto inutili, il fatto che un leader "non parli quasi mai" risulta sanamente spiazzante.
Alla domanda "che cosa ha detto Bersani oggi?", si può quasi sempre rispondere "nulla", o "la stessa singola frase che ha detto il mese scorso", e senza alcuna ironia asserisco che questo ci fa bene.
Ci aiuta a credere che, nell'ambito della politica, possa di nuovo esistere un ambito del "silenzioso fare" che è diverso da quello del "dichiarare", e Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno.
Ci aiuta a credere che possano di nuovo esistere "spazi vuoti", e non occupati dal turbodichiaratore di turno, che esistano tempi e luoghi per riflettere, che si possa operare senza parlare di continuo, incessantemente, e che l'immagine e la rappresentazione delle cose possano finalmente diventare accessorie rispetto alle cose stesse.

Di questi "spazi vuoti", io credo, abbiamo un immenso bisogno.

Sogno, da tempo, una "rivoluzione bianca" che per prima cosa si impossessi dei mezzi di comunicazione, e li spenga a tempo indeterminato.
Attraverso la tecnologia, un gigantesco "schermo" protettivo verrebbe steso sul paese per inibire qualsiasi forma di comunicazione collettiva a distanza, inclusa la rete di telefonia cellulare.
Nessun canale televisivo, nessun giornale, nessuna notizia, niente Internet.
Nessun blog, social network fatto di bit, forum, chat.
Nessun programma, gioco, quiz, documentario.
Nessuna immagine di governanti ed oppositori, nessuna dichiarazione di Cicchitto. Fine.
Solo l'elite dominante che ha preso il potere disporrà di informazioni centralizzate e relative al mondo.

Con le frontiere volutamente aperte e spalancate, i drogati con maggiori disponibilità e gli intellettuali fuggirebbero immediatamente all'estero, creando nuclei di resistenza la cui principale attività sarebbe quella di rilasciare interviste alle principali televisioni europee - che peraltro non sarebbero visibili qui, depotenziando l'effetto di questo nuovo fiume di parole inutili.

Le masse costrette o decise a restare, invece, rese rabbiose dalla improvvisa indisponibilità di qualsiasi droga alternativa, ritroverebbero d'un tratto la forza e la volontà di scendere spontaneamente in piazza - al solo scopo di riavere quella merda moderna con cui si drogano tutti i santi giorni che iddio mette in terra, e - in parte- vivendo sinceramente come una privazione antidemocratica l'improvviso Grande Silenzio.

Ecco, a quel punto bisognerebbe arrestare - anche brutalmente - quelle masse e deportarle - dolcemente - in ampi spazi ameni e silenziosi, precedentemente predisposti nel paese, in cui attuare la decontaminazione da notizie. (Lo so che a qualcuno non sembra giusto: ma in un sogno, si può, si può anche questo:-))
Spazi bellissimi, verdi, gioiosi, di assoluta libertà, ma di nuovo isolati da ogni forma di comunicazione collettiva, recintati e controllati a vista da sentinelle spietate con licenza di uccidere.

La rabbia dei deportati, giunta ad un picco che provocherà purtroppo spiacevoli conseguenze, prima o poi lascerà il posto a qualcosa di diverso.
Non potendosi trastullare con le cazzate con cui fino a prima della rivoluzione ognuno riempiva la propria vita, ogni persona sarà inevitabilmente costretta ad occuparsi di qualcosa di assolutamente nuovo: il prossimo, l'altro, il vicino.
Ognuno parlerà poco, all'inizio, e parlerà di se e ascolterà l'altro parlare di sè, perchè andrà progressivamente perduta l'idea che "avere un'opinione su tutti i fatti del mondo" sia la cosa più importante della vita.
Ognuno conoscerà di nuovo la fatica di dover costruire, partendo solo da se stesso e dalla realtà che conosce, un pensiero ed un ragionamento in modo tale da dover convincere il prossimo della bontà dello stesso: questo selezionerà spietatamente le cose utili alla convivenza rispetto alle cazzate, permettendo alle comunità spontaneamente formate da coloro che si sentiranno più affini il riconoscimento dei bisogni fondamentali.
Chi avrà più idee e mezzi personali per propugnarle (dapprima di persona in persona, lentamente e faticosamente) diverrà inevitabilmente leader riconosciuto.
Le ragazze bellissime perderanno molte possibilità di diventare leader, se non sono anche intelligenti, a scapito probabilmente di oscuri travet e sfigati che potranno mettere a disposizione degli altri insospettate capacità e competenze: ma questo non impedirà che esse trovino molto presto un ruolo nella nuova società.
Anzi, l'assenza di forme di comunicazione collettiva farà cessare la diffusione di "modelli" di uomini e di donne inesistenti, ed ogni persona dovrà "accontentarsi" di innamorarsi di una persona vera, reale, invece che di una immagine sessuale/commerciale/virtuale di esseri inesistenti nella realtà.
Questo creerà un rapido calo delle "aspettative", e porterà a scoprire che le cose "che esistono" hanno un loro gusto ed un loro valore che è assai più piacevole delle cose "che si desiderano".
Il tempo restituito alle persone, che prima della rivoluzione passavano oltre quattro ore a testa ogni giorno ad abbeverarsi di veleno mediatico davanti alla TV, progressivamente non darà più agli individui un vertiginoso senso di vuoto, ma un brivido di felicità, e nessuno vorrà mai più impiegarlo per stare a drogarsi da solo.

Le comunità, in questi centri di disintossicazione, si riformeranno spontaneamente, in tempi lunghi: si daranno dei capi (i più capaci ed i più scaltri: comunque quelli in grado di soddisfare le esigenze di chi si affida a loro), e delle organizzazioni a più livelli che si baseranno di nuovo sulla conoscenza diretta delle cose e delle persone: rinascerà la fiducia reciproca tra chi delega e chi è delegato, che è la miglior forma di controllo possibile.

Dopo un sufficiente periodo di tempo, alle masse naturalmente rieducate potrà essere concessa una libertà vigilata, per consentire il progressivo reinserimento nella società (nel contempo guidata da chi, fuori, ha aderito onestamente alla rivoluzione).

Progressivamente, allora, potrà essere dato ad ogni individuo rieducato l'accesso a conoscenze ed informazioni di ambito più ampio: a condizione che ognuno, prima, acquisisca consapevolezze ed operi come deve nell'ambito di sua competenza, a giudizio della comunità in cui è inserito.

Gli autori della rivoluzione, che non saranno mai scoperti grazie al Grande Silenzio, scompariranno per sempre, mescolati ad una porzione di umanità di nuovo felice...

(il sogno potrebbe continuare...:-)))

(1) da una ricerca inglese, da cui risulta che "le 20 parole più in voga tra gli adolescenti, come Yeah, no e ma, rappresentano circa un terzo di tutte le parole utilizzate."
(2) vedi qui alcuni dati interessanti....