(Versione aggiornata di un mio racconto del 2004)
Sembrava un giorno come gli altri, nel piccolo paese di Castelverde. Eppure…
Tutto ebbe inizio quando la Cesira, uscita dalla porta della sua casetta come una furia, iniziò a correre lungo il perimetro del cortile con uno scatto da centometrista e starnazzando come un’anatra…
“Ho parlato con la Bice! Al telefono! Adesso!...”
Ora, cari lettori, non è affatto strano che in questi tempi la gente si parli più attraverso il telefono che di persona: vi domanderete, dunque, perché mai la Cesira starnazzasse per un fatto, in fondo, così comune e abituale.
Sapete, la Cesira ha quasi ottant’anni e non è più molto lucida: anzi, i vicini, quelli che abitano nelle case che insistono sullo stesso cortile quadrato, la considerano in generale un po’ svanita e tendono a non ascoltarla troppo.
Eppure, in quella occasione, su quelle facce abitualmente indifferenti si dipinse, per un attimo, un’espressione di sincero stupore: fu solo un attimo, ma fu stupore vero, lo posso giurare come se fossi lì presente.
Il fatto, miei cari lettori, è che “la Bice”, oltre ad essere una sorella (peraltro altrettanto bislacca) della nostra Cesira, aveva il piccolo difetto di essere perita tragicamente non meno di quindici anni prima dell’evento che stiamo narrando.
Lo starnazzo motorio della Cesira proseguì, dunque, per parecchi minuti, con una frenesia ed un livello acustico tale da indurre i più arditi alla curiosità (e questo era davvero segno di coraggio, visto che la Cesira attaccava abitualmente dei bottoni micidiali, lunghi decine di minuti, a chiunque commettesse il tragico errore di prestarle attenzione anche solo per un attimo).
Tre o quattro di essi, dunque, si avventurarono nell’atrio della casa di Cesira: e furono subito da lei seguiti con sommo sollievo degli astanti, visto che questo evento significò – contemporaneamente - il rapido cessare dello starnazzo, la quiete del turbinio di polvere sollevata dal dinamismo della donna e, non ultima in termini di gradimento, la scomparsa della stessa dal campo visivo del cortile.
Lo starnazzo, in realtà, riprese all’interno della casa, non appena la Cesira volle offrire ai suoi ospiti la prova provata della causa dei suoi strepiti: e, afferrata la cornetta quasi a stritolarla, compose l’antico numero di sua sorella sull’antiquato disco, e nel silenzio irreale che ne seguì, il “tuuuu…tuuuu…” della chiamata fu presto sostituito da un dialogo urlato ad un volume esagerato.
“Prontoooooo?” urlò la inequivocabile voce della Bice dalla cornetta.
“Biiiiiiiceeeeeee!!!!” urlò in risposta la Cesira, oscurando a suon di decibel il pallore sui visi dei testimoni.
Quasi tutti i presenti erano sufficientemente anziani da aver conosciuto “dal vivo” la vecchia Bice: una donna insopportabile, acida, la cui morte improvvisa era stata nascostamente salutata con sollievo da quasi tutto il paese.
Risentirne la voce, nitida e acuta, provenire da un tempo lontano, era un evento che faceva venire i brividi: ma non c’erano dubbi, era proprio lei.
“Come stai, stellassa?” disse la Bice all’indirizzo della sorella, che le rispondeva a tono senza minimamente preoccuparsi del fatto che, a prima vista, stava conversando con quello che avrebbe dovuto ormai essere soltanto un piccolo cumulo di ossa e polvere.
La conversazione tra le due sorelle proseguì, urlata e inutile, per un bel pezzo ancora, e quando finalmente la Cesira soddisfatta posò la cornetta, i paesani si guardarono a lungo tra loro senza saper bene se e cosa pensare.
L’Amilcare, imbarazzatissimo, ruppe per primo il silenzio: “Cesira, ma che numero hai fatto per parlar con la Bice??”.
“Il suo, no?”, rispose con naturalezza la Cesira, “quello che aveva prima”, dove il “prima” stava probabilmente a significare “quando era viva”.
“Ma è un numero di 15 anni fa, Cesira, come diavolo fa a funzionare ancora?”.
“L’ho fatto, e mi ha risposto. Cosa c’è di strano?”.
Già, cosa c’è di strano?
I vicini uscirono nel cortile, borbottando sotto voce: avevano bisogno di prendere aria, e probabilmente di dimenticare quell’ultima mezz’ora della loro vita.
Altri, che non avevano avuto il coraggio di entrare in casa di Cesira, si avvicinarono ora per carpire informazioni che, a giudicare dal livello della gazzarra inscenata dalla donna, sembravano essere ghiottissime.
Nacque così, quasi senza volerlo, un comitato spontaneo per condurre le indagini su questo misterioso evento.
Il vecchio Nestore fu subito mandato in bici, di volata, a controllare che al posto della casa della vecchia Bice, abbattuta dieci anni prima dalla parte opposta del paese, ci fosse ancora la nuova villetta del dottore: gli fecero però pressanti raccomandazioni affinchè superasse di slancio e senza fermarsi, lungo il percorso, l’intoppo del Bar Centrale di cui era un affezionatissimo cliente.
Il resto del comitato decise un piano di azione articolato su due linee; a) una fase di sperimentazione telefonica approfondita dall’apparecchio della Cesira; b) la chiamata ai tecnici della Telecom.
Molti corsero allora alle loro case, tornando a raggrupparsi una decina di minuti dopo, recando mucchi di foglietti ingialliti e colmi di vecchi numeri telefonici estinti.
Giovanni, a tradimento ed in un attimo di distrazione, fu nominato all’istante dai presenti Sperimentatore Capo, e, ricevuta la massa di foglietti tra le mani, si recò di nuovo dalla Cesira per avviare la ricerca.
La Cesira intanto si era messa a guardare la TV in bianco e nero, come al solito ad un volume altissimo, e pareva essersi completamente dimenticata del bailamme sollevato poco prima.
Giovanni entrò e si avvicinò (completamente ignorato dalla padrona di casa) al vecchio comodino di legno su cui era posato l’ancor più antico apparecchio telefonico di bachelite nera.
Consultò frettolosamente i bigliettini in decomposizione che aveva in mano, e ne estrasse uno annuendo con convinzione, mostrandolo ai coraggiosi che lo avevano seguito.
Era quello che recava, vergato con inchiostro violetto, il numero della gloriosa Osteria del Barba, abbattuta dieci anni prima per consentire l’allargamento della statale che sfiorava il paese.
Teatro delle più spaventose bevute ed ubriacature mai viste in loco, l’osteria era gestita da un omone chiamato il Grande Thor, peloso e barbuto, di cui si erano perse le tracce dopo la chiusura del locale (alcune leggende narrano che vaghi nel bosco vicino, impazzito e allo stato selvatico, urlando e spaventando gli incauti che si avventurano nel cuore della macchia: altre, invece, che vaghi per le isole dei Caraibi in compagnia di una fata che ha quarant’anni meno di lui).
Quel numero di telefono era stato uno dei primi rilasciati in paese, decine di anni prima: era assolutamente impossibile che fosse ancora attivo.
Al silenzioso assenso degli altri, Giovanni (dopo aver costretto la Cesira ad abbassare il volume della TV ed aver scoperto che le sue lamentazioni sono ancora più rumorose dei programmi) alzò la cornetta e compose, lentamente, il breve numero presente sul foglietto: poi, volse la cornetta verso il centro della stanza, in modo che tutti potessero sentire, stupefatti, dapprima il segnale di chiamata, e poi…
“BUURRPP! Chi èèèè??”, urlò una voce alterata dalla cornetta, e tutti si gettarono istintivamente a terra, riconoscendo inconfondibilmente la risposta detta “a megarutto”, caratteristica leggendaria del Grande Thor.
Solo Giovanni restò in piedi, impietrito, con la cornetta in mano, mentre dalla stessa provenivano inequivocabili rumori di fondo: il vecchio Gino sbraitante “Sei un mona! Se non ci sai giocare, a scopa, va a casa!”, Mike Bongiorno gracchiante dalla vecchia TV sulla mensola, la burrosa Nilde che urlava “alloraaaaa per chi èèèè questo quartinooooo??”…
Una bestemmia del Grande Thor chiuse la chiamata, prima di un fragoroso sbattimento di cornetta, e tutti i convenuti si guardarono con terrore.
L’arrivo di Nestore nel cortile confermò che tutto era regolare, anche se si mise a farfugliare e nessuno lo capì perché, non resistendo alla tentazione di un bicchierozzo al Bar Centrale, pedalò poi come un pazzo per recuperare il tempo perduto, arrivando sullo sterrato in clamoroso debito di ossigeno.
Ma non riuscì neppure a recuperare l’uso intelligibile della parola, che subito lo mandarono in ispezione verso il nuovo ipermercato: lì sorgevano, infatti, le fondamenta e le celebri sedie di plastica rosse nel dehor dell’Osteria del Barba.
Arturo aveva intanto chiamato un suo cugino, che faceva il tecnico della Telecom ed era fortunosamente nei paraggi. Così, un quarto d’ora dopo, la Panda rossa giunse nel cortile; il cugino di Arturo estrasse dal bagagliaio un set di strumenti ipertecnologici che destarono stupore ed ammirazione nel pubblico, e li introdusse nella casa di Cesira, che subito insistette per rifilare all’ospite un abituale quanto ammuffito caffè di cicoria.
Dribblando la molesta vecchia, il cugino si mise al lavoro: guardò il vecchio telefono con commozione, visto che gli ricordava l’inizio della sua carriera.
Messa al bando l’emozione, operò con efficienza: svitò il microfono, lo collegò ad uno strumento misterioso, e per una decina di minuti telefonò, parlò con personaggi misteriosi, si fece richiamare, richiamò, sempre sotto lo sguardo attento del comitato.
Alla fine rimontò tutto come prima, riordinò l’apparato tecnologico e, prima di uscire, gelò l’attesa del pubblico con un “Tutto regolare, funziona come un gioiellino”.
Il pubblico lo seguì fuori borbottando, deluso per la mancanza di soluzioni tecniche al mistero: rimase in casa solo Ermete, che con fare guardingo si avvicinò al fatale apparecchio con un biglietto misteriosamente estratto dalla tasca dei pantaloni da lavoro, ed incurante della Cesira in agitazione si accinse a telefonare.
Lo sorpresero così, quando rientrarono alla spicciolata dopo la dipartita della Panda, accucciato per terra a sussurrare parole incomprensibili…
“Ermete!!! Cos’è che fai li?” gli gridarono, e lui troncò la telefonata, si rialzò, rosso come un peperone, e non si avvide che uno degli amici aveva già in mano il bigliettino che aveva incautamente appoggiato sul tavolino.
Questo lesse, lo guardò sbigottito e lo apostrofò: “Ma hai telefonato alla vedova Chiri! Maiale! Con una morta!”, ed Ermete divenne pallido, avrebbe voluto scappare, perché tutti in paese sapevano che dieci anni prima lui sbavava dietro quella vedova, anche lei deceduta pochi anni prima, ma nessuno ne aveva mai avuto la prova: ora se lo sentiva, Ermete, se lo sentiva che sua moglie lo avrebbe ammazzato di botte…
Giovanni entrò in quel mentre, e non si avvide neppure dell’avvenimento perché stava conversando fitto con il Professore.
Il Professore era davvero un professore, ormai in pensione, che insegnava fisica nel liceo in città, ed era unanimemente ritenuto l’uomo più colto ed intelligente del paese: impensabile non consultarlo su un argomento simile.
Il Professore ascoltò attento quel che gli disse Giovanni, e poi quello che gli dissero gli altri, in un crescendo di concitazione e confusione, ma quando alla massa vociante si avvicinò anche la Cesira per dire la sua, intuì il grave pericolo e alzò la mano intimando “Basta! Fatemi pensare!”.
In un silenzio precario, il Professore valutò a lungo gli eventi, a occhi socchiusi.
“Evidentemente…” disse poi aspirando letteralmente l’attenzione di tutti, “evidentemente…beh, siamo in presenza di un varco spazio-temporale, non c’è dubbio”.
Le facce del pubblico, sulle prime entusiaste, volsero rapidamente all’ebetismo: “Ehhh? Che cosa? Un varco che? Un temporale ha scassato il telefono? Mah…! Beh…! Boh!...”
“Si”, ebbe ad insistere il professore, ma già capiva che era inutile, “è chiaro che, per una circostanza che non so dirvi, da questo luogo il telefono della Cesira riesce a chiamare oltre lo spazio ed il tempo che conosciamo e che stiamo vivendo tutti assieme in questo momento. Per adesso lo ha fatto solo verso il passato, ma potrebbe farlo anche verso il futuro”.
Ben pochi si accorsero che una specie di lampo azzurro aveva attraversato il cielo, proprio mentre il Professore pronunciava queste parole: anche perché, concentrati nell’ascolto, stavano cercando di capire le conseguenze pratiche di questa affermazione.
Presto, gli occhi di molti dei presenti iniziarono a brillare. Giovanni tirò fuori, da una tasca interna, una schedina vergine e stropicciata del Superenalotto; Ermete, che se ne stava in disparte, iniziò a pensare a tutte le scommesse sulle corse dei cavalli che da tempo non poteva più permettersi, da quando la moglie aveva minacciato il divorzio a causa delle ingenti perdite.
“Verso il futuro? E come facciamo a scoprirlo?”
“Beh, è molto semplice”, disse il Professore, “proviamo a fare con un cellulare la stessa operazione che abbiamo fatto con il telefono fisso: è una semplice ipotesi, ma può darsi che in questo momento su una rete diversa, da questo stesso punto, si riesca ad uscire dallo stesso varco spazio temporale in direzione del futuro.
Proviamo ad esempio a chiamare casa tua, Ermete: dimmi il numero…”
Ermete compitò con difficoltà le cifre, il Professore le replicò sulla tastiera del suo cellulare e premette il pulsante verde, passando poi l’apparecchio ad Ermete che con un certo timore lo accostò all’orecchio.
“Prontiii!”, gli rispose dopo qualche squillo una sonora voce da uomo: e con sollievo, ma insieme con orrore, Ermete si accorse che quella voce sconosciuta non era la sua.
“Pronto…posso parlare con la Wanda, per favore?” chiese intimorito Ermete, sperando ed insieme temendo di sentire dal futuro la voce stridula di sua moglie.
La risposta lo lasciò di sasso: “Oggi non c’è, è a fare volontariato: ma lei chi è, e cosa vuole da mia moglie?”
Ermete impallidì, guardò sgomento gli occhi curiosi che lo circondavano, staccò il cellulare dall’orecchio e lo porse al Professore, senza più avere il coraggio di pronunciare una parola: non voleva sapere perché nel suo futuro sua moglie sarebbe stata la moglie di un altro, no no, non voleva saperne nulla!
Il Professore, chiusa la comunicazione, non riuscì a farsi spiegare granchè da Ermete, che si allontanò dal crocchio che li circondava, tremante ed assai turbato. Il Professore decise di fare un altro esperimento: “Giovanni, dimmi il numero di casa tua”, e Giovanni, obbediente, glielo dettò.
Quando rispose la voce di una giovane donna, il Professore rimase un attimo perplesso, ma si riprese subito sorridendo e chiedendo “Potrei parlare con il signor Giovanni, per cortesia?”.
Ma stentò a mantenere il sorriso quando la voce gli rispose con cordialità un po’ affranta: “Guardi, il signor Giovanni…noi abitiamo qui da tre anni, siam venuti qui quando l’han venduta…dopo la morte del signor Giovanni, appunto…”
Il Professore bofonchiò un confuso “Scusi…grazie…”, interruppe la comunicazione e si lasciò scivolare il cellulare dalla mano, che si schiantò al suolo separandosi in innumerevoli pezzi. Sotto lo sguardo sbalordito dei presenti, il Professore si accanì sui resti dell’apparecchio calpestandoli a colpi di tacco, fin quando non restò nemmeno un pezzo più grosso di un’unghia.
Il Professore allora si ricompose, si riassettò la giacca, sostenne le occhiate interrogative di chi lo circondava e, con un tono che non ammetteva repliche, disse: “Basta. Basta con questi esperimenti. Sono troppo pericolosi, possono portare solo guai. Da oggi, nessuno deve mai più fare telefonate da questo luogo. E’ maledetto! Tanto la Cesira è sorda, e se ha bisogno di telefonare può andare da chiunque di voi. Giovanni, vieni qui: prendi una mazza e distruggi anche il fisso della Cesira. Da oggi è vietato telefonare da qui in qualsiasi modo ed a qualsiasi numero, guai a chi lo fa.”.
Chissà come e portata da chi, una mazza si materializzò in fretta tra le mani di Giovanni.
Che subito, in preda ad una certa inquietudine, strappò l’apparecchio di bachelite nera dal filo che lo collegava al muro, lo appoggiò per terra vicino ai miseri resti del cellulare del Professore, ed iniziò a menare mazzate fino a quando del vecchio telefono non rimasero piccoli frammenti plastici e ramati.
Ad ogni colpo, Ermete sentiva allontanarsi per sempre il sogno di realizzare il suo desiderio per la vedova Chiri, ma al contempo si sentiva sollevato; questi viaggi nel tempo non gli piacevano, adesso aveva solo voglia di tornarsene a casa. Dalla sua Wilma, a pacioccarla un po’, che quando la baciava almeno non la sentiva usare quella voce che gli faceva un po’ senso…e sperava, Ermete, che nel futuro, al suo numero di telefono, avrebbe risposto sempre lui.
Quando tutti furono in silenzio attorno alle spoglie dei due apparecchi telefonici, il Professore fece un cenno per indicare che tutto poteva considerarsi finito, che ognuno poteva tornare alle proprie case e che – non lo disse, appunto, ma tutti lo capirono – di questa strana giornata era meglio che, in futuro, non se ne parlasse più.
La gente del paese sciamò fuori in silenzio, ma quando furono in cortile non rinunciarono a ciarlare ancora un po’ su tutto quello che era accaduto: da domani avrebbero rispettato il vincolo del silenzio imposto dal Professore, ma per quella sera e quella notte gli avvenimenti sarebbe stati rivissuti, raccontati, sviscerati mille volte, fino a rimanere senza voce.
Nestore, tornato senza sorprese dall'ultimo sopralluogo, si era fatto raccontare gli ultimi avvenimenti.
Uscendo anche lui nel cortile della Cesira, quando ormai il vociare delle comari costituiva un sottofondo armonico, Nestore si allontanò di qualche decina di metri per fare i suoi bisogni, ed alzò gli occhi al cielo nel pomeriggio ormai morente.
Fu allora che la vide, ferma e scintillante ad alcune centinaia di metri sopra la sua testa, ed esclamò: “Ma cos’è sta roba lì?”
*
L’astronave galattica Pterodont-3000, immobile da qualche tempo nello spazio aereo sopra Castelverde, riluceva al sole con il suo disco argenteo, in attesa di ripartire per il pianeta che i terrestri chiamavano OGLE-2005-BLG-390Lb, ma a cui gli abitanti davano il nome di Iddu.
Il computer di bordo dell’astronave registrò in quella occasione una conversazione tra il Comandante dell’astronave e sua moglie, che si svolse con toni estremamente concitati (sullo sfondo, il pianto di un soggetto Idduiano di giovane età).
(Il dialogo è traslitterato in caratteri latini dall'alfabeto Idduiano, in cui ogni carattere rappresenta concetti complessi fino a 22.000 frasi).
Comandante Xerdorf: "ytro! sebert hu oip..."
Xilia:"ghiz, jjhot fil zas zac"
Comandante Xerdorf:"streb 7 juf liko!".
Se i terrestri avessero a quel tempo avuto a disposizione il Dizionario Galattico, che per loro sventura fu pubblicato solo alcuni millenni dopo, avrebbero potuto decodificare la conversazione nel modo che segue:
Comandante Xerdorf: “Xilia, accidenti, possibile che non mi possa concedere un pisolino in santa pace senza che accadano guai? Lo sai quanto mi stancano questi viaggi intergalattici… però lo devi controllare, il ragazzino, non puoi permettergli di giocare con le leve del Raggio Temporale quando siamo in sosta! Siamo pure sopra la Terra, e sai bene che i nostri Testi parlano spesso della complessità e della stranezza degli abitanti del Sistema Solare! C’è il rischio di combinare guai grossi!”
Xilia: “Xerdorf, calmati…è vero, Xigno ha toccato quel che non doveva, ma non credo sia accaduto nulla di grave, laggiù…al massimo possiamo dare una spruzzatina di Gas Obliante sul luogo di sosta, per non correre rischi”.
Xerdorf: “Va bene, va bene…programma una irrorazione di 7 millisecondi, dovrebbe bastare: e poi partiamo, che ho fretta di tornare a casa stasera, le autostrade galattiche il venerdì sono sempre incasinate e abbiamo ancora 22.000 anni luce da percorrere!”.
*
Nestore fece appena in tempo a vedere un lampo, ma poi una nebbiolina che cadeva dal cielo lo avvolse dolcemente e qualcosa accadde nei suoi ricordi.
Voltò lo sguardo verso il paese: la nebbiolina si dissolse immediatamente, e le ombre tornarono ad allungarsi pigramente lungo le strade.
Si grattò la testa, a lungo, come se avesse la sensazione di aver dimenticato qualcosa:poi, tornato nel cortile della Cesira – che si era improvvisamente svuotato, come se la gente avesse iniziato a chiedersi d’un tratto che cosa ci faceva lì - inforcò la bicicletta, ed iniziò a pedalare tranquillo verso casa.
Dalla casa della Cesira giungeva, come sempre, lo strepito del televisore acceso ad un volume altissimo ed insopportabile.
Nestore scrollò le spalle, come faceva ogni volta, e continuò a pedalare ed a fischiettare.
Il sole tramontò definitivamente, di lì a poco, su questa strana giornata di Castelverde, baciando per l’ultima volta la bici di Nestore appoggiata alla vetrina del Bar Centrale.
Da dentro, come al solito, giungevano echi delle solite discussioni sul calcio e sulla formula uno.
NOTE PER IL LETTORE: il pianeta OGLE-2005-BLG-390Lb (o, in breve OB053) non è una sigla a caso né una mia invenzione. Cito dal sito http://www.scienceinschool.org/2006/issue2/exoplanet/italian: “Scoperto nel 2006, il pianeta ha una massa pari a cinque volte quella terrestre (cioè è più simile alla Terra di Marte, la cui massa è un decimo di quella terrestre), si muove intorno a una stella lontana 22 000 anni luce, in un’orbita che ha le dimensioni pari a tre volte quella terrestre. Questo lo classifica come l’unico esopianeta che, in accordo con la teoria è fatto di roccia solida, e orbita intorno alla sua stella ad una distanza alla quale esso potrebbe anche essersi formato. Esso potrebbe essere il primo sistema planetario mai visto nel quale i pianeti sono in un’orbita stabile, e dove le condizioni per la vita sono stabili su una scala temporale biologica, come nel nostro Sistema Solare.”