Quando mi apprestai a lasciar tutto per ricominciare da capo ed inseguire un sogno, ero preoccupato di coinvolgere gli altri in questa scelta.
Uno si dice sì, io riparto da capo, ma perché devo “impoverire” anche i miei figli, che colpa ne hanno loro, “porelli”, se io non ne posso più di questa vita e voglio farmene un’altra diversa, semplice, francescana, basata su quello che provo davvero?
Poi il tempo passa, e ti accorgi che più ti allontani dai finti bisogni, dalle merci, dal rassicurante potere delle cose, e più costruisci una libertà ed una ricchezza che è solo tua, che nasce da te e da quello che senti, che è sempre meno precaria, che resisterà – paradossalmente - ad ogni avversità e ad ogni rovescio finanziario.
Senti che quel che dai non è affatto poco, e vale moltissimo perché ti appartiene davvero, non è appiccicato temporaneamente a te dalle tue disponibilità economiche: è una ricchezza umana, fortemente tua, che nessuno potrà più toglierti, mai, nemmeno se vai a vivere sotto un ponte.
Ma all’inizio è normale, questa paura. E’ paura di sbagliare, è – fortemente condizionati dai modelli dominanti – paura che “semplicità” sia sinonimo di “sconfitta”, paura che “aver poco” corrisponda con “incapacità di essere”.
La casa più piccola (in affitto, e non in proprietà), l’auto che non puoi più cambiare (e che quando morirà sostituirai con quel che trovi in giro a poco prezzo, inutile lustrarsi gli occhi dai concessionari), tutte le cose che non puoi più comprare sembrano all’inizio un arretramento, un ritorno indietro.
E’, ancora, paura di lasciarsi andare, di giudicare troppo severamente quella vita vissuta anche da noi fino ad un attimo prima: è ancora il sintomo di una situazione in bilico.
Quel che lasciai era rassicurante, conosciuto, comodo. Sì, sapeva ormai di plastica e sembrava freddo, ma era “quel che tutti fanno”: non poteva essere completamente sbagliato. Sentivo di aver ragione, ma nulla sembrava darmela.
Non ci conosciamo più e non sappiamo valutarci da soli, ed il metro per capire cosa siamo è diventata la quantità di cose di cui ci attorniamo, la loro aderenza ai modelli di “modernità e moda”, lo spazio privato di cui disponiamo. Il rumore, la frenesia, la quantità di cose da fare attenuano il senso di solitudine, e la sgradevole impressione di essere uomini e donne dannatamente simili, come prodotti standardizzati: che dicono le stesse cose, vivono gli stessi eventi, agiscono secondo gli stessi comportamenti attesi.
Il percorso per liberarsi da questa schiavitù è lungo, difficile. Allontanarsi dalle cose e dalla sicurezza che danno fa paura, all’inizio. Esse sono ormai non solo la nostra intelligenza, la nostra forza, la nostra corazza, ma rassicurano il prossimo rispetto alla nostra appartenenza allo stesso identico sistema: ci rendono uguali alla massa, e dunque ci proteggono.
Reimparare ad aver fiducia in sé, a lasciare spazio alle emozioni che non nascono dalle cose, ma dall’essere, richiede davvero un grosso sforzo.
La rieducazione di sé è un processo lungo e faticoso: ma io ho forza, fiducia, e continuerò ad andare avanti.
2 commenti:
E noi siamo con te in questo processo, Lupo. Siamo i tuoi ultras.
Stai tranquillo anche per i tuoi figli, quello che puoi dare loro ora vale molto di piu' di tante cose materiali che potevi dare prima. Anche se forse non l'apprezzeranno subito, sono sicura che prima o poi capiranno la differenza.
Un abbraccio,
Vediamo se ho inteso bene quello che hai scritto.Hai impostato la tua esistenza più simile a quella vissuta dai nostri nonni, quindi prima del boom economico degli anni '60?Se è così complimenti,è un'atto eroico di questi tempi.Personalmente penso che se il petrolio ed in generale l'economia mondiale continua così ci dovremmo abituare tutti ad uno stile di vita più "francescano".
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