La porta scura e lucida si chiude per sempre davanti alla piccola palla di pelo che rotola, per un poco ancora, sul gradino, e lentamente si ferma.
La palla sta lì, ferma, e quasi non si vede nella notte poco illuminata. C’è solo uno spicchio di luna, appeso lassù nel buio, una luna timida e giovane.
Per qualche minuto non accade nulla, o quasi. La palla di pelo è davanti alla porta della casa, la casa ha davanti un piccolo prato ben curato, il piccolo prato si affaccia su una strada asfaltata da poco.
La casa, il prato e la strada si trovano in un quartiere residenziale della città, popolato di altre case basse e piccoli prati ben curati e strade asfaltate bene, e a quest’ora di notte non c’è traffico, non ci sono pedoni.
Dopo lo SBLAM! che ha rotto il silenzio tipico di questo quartiere, in questa tipica notte di estate, soltanto il rombo sguaiato di un motore che passa qualche via più in là ritarda il momento in cui il silenzio, pian piano, si ricucirà da sé.
Sul gradino, la palla di pelo sembra ascoltare il silenzio.
Poi, d’un tratto, la palla sembra aprirsi, nel buio, e compare nella parte superiore prima un triangolo, poi un altro che completa il profilo di una coppia di orecchie.
Poi si solleva, cauto, un musetto impaurito mentre, dietro, si srotola timida una piccola coda, che prende ad agitarsi con un movimento lento.
Silenzio.
Alcuni attimi dopo, il piccolo gatto si leva ritto sulle zampe, inarca la schiena. Si rilassa, si ferma, e punta lo sguardo verso l’alto, verso quella porta che non si aprirà più.
SBLAM!
Quel rumore secco e spaventoso gli riecheggia ancora nella mente, e per un attimo lo paralizza.
Poi, lentamente, si volta, flessuoso, e si lascia alle spalle la porta, inoltrandosi sul vialetto che taglia in due il prato. Per sempre.
Cammina lentamente, perché è assai giovane e le sue zampe sono ancora corte. E’ guardingo e preoccupato: uscito dal vialetto ha svoltato a destra sul marciapiede, come se avesse in testa una direzione precisa in cui andare, e lo percorre piano ma con sicurezza. Quando passa sotto un lampione il suo pelo grigio tigrato diventa visibile, lancia bagliori d’acciaio, e se a volte alza il muso la luce gli accende le pupille: poi esce dal cerchio luminoso, e ritorna ad essere un’ombra scura e silenziosa che scivola verso l’ignoto.
*
Emma, seduta sull’unica panchina di quel giardino spelacchiato, sente i brividi di freddo che la percorrono dall’alto al basso, fino a toccare le sue ciabatte di plastica.
E’ estate, la temperatura questa notte è mite, ma Emma si sente sempre così quando esce dall’appartamento in cui le voci dei suoi genitori, come tutte le sere, iniziano ad alzarsi, ed a diventare aspre, ed affilate come coltelli.
Lei esce piano, di nascosto, tanto non se ne accorge nessuno. Scende dal quinto piano, scende per le scale, con i suoi otto anni che le scivolano via dal vestito leggero e troppo corto, e dagli occhi sotto forma di lacrime trattenute.
Dovrebbe essere a nanna, a quest’ora: ma lei ci va sempre vestita, perché sa che tanto le loro voci presto iniziano a non farla dormire, e appena accade lei fugge fuori, piano, facendo attenzione a non far sentire lo scatto della porta che si chiude.
Quando arriva sotto, nell’androne di cemento che le correnti rendono inospitale anche d’estate, inizia a sentirsi meglio, e a volte sorride, sorride solo per se stessa.
Esce fuori, ed i palazzoni intorno sembrano guardarla con qualche occhio acceso qua e là, mentre arriva alla panchina.
Davanti al suo palazzo c’è un piccolo giardinetto, corroso dall’incuria e dall’abbandono, ma lei non fa più caso alle cose tristi.
Le basta il silenzio, e allora va a sedersi sullo schienale della panchina come vede fare di giorno ai ragazzi grandi, quando si affaccia alla finestra sognando di volare via.
Si mette lì, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia nude, e appoggia la testa fra le mani, con i lunghi capelli neri che le scivolano scomposti lungo le dita.
Chiude piano gli occhioni color nocciola, e ascolta con la mente ogni brivido di freddo, seguendolo nel suo percorso verso le ciabatte.
Ad ogni brivido che parte, il suo corpo sembra diventare più piccolo.
*
Palladipelo non ha la nozione del tempo, ma sente che i polpastrelli sotto le zampe iniziano a fargli male: il che vuol dire, lo capisce, che ha camminato tanto, e che i marciapiedi lisci del quartiere da cui è partito hanno pian piano lasciato il posto a percorsi più ruvidi, a lampioni più radi e case sempre più alte.
Lo SBLAM! nella sua mente ancora lo fa sobbalzare, a tratti, ma qui il silenzio è diverso da casa sua: è come se avesse un suono ed un odore diverso, lo sente più pericoloso, è costretto ad essere più attento. Non sa che cosa sia una periferia, ma ne sente il respiro ostile.
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La panchina su cui Emma sta seduta da tempo volge lo schienale al palazzo, e se lei avesse gli occhi aperti vedrebbe il vialone che parte dal suo palazzo e taglia in due la schiera di condomini come una ferita, e che se lo segui fino in fondo, camminando per ore – dicono gli altri ragazzini – ti porta nell’altra periferia, quella dei ricchi, quella che profuma di fiori, quella dove ogni ragazzino vive in case comode dove non ci sono voci affilate che li inseguono negli angoli spingendoli a scappare.
Qualcuno dice che dentro quelle case c’è troppo silenzio e presto vien voglia di scappar fuori, e che persino questo prato spelacchiato è più divertente di una vita comoda, se la si vive da soli.
Forse lassù, a casa sua, le voci si saranno abbassate, forse sarà tornato quel silenzio pesante, greve, che per Emma è quasi peggio di un urlo.
Ma Emma non ha ancora voglia di tornare su: tanto nessuno si accorge mai che non è nel suo letto, nessuno dopo una guerra ha voglia di andare a distribuire carezze a chi dovrebbe dormire.
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Palladipelo è stanco. Questa strada è troppo lunga, i palazzi che la chiudono troppo alti ed opprimenti, ed inizia a sentire la stanchezza, il freddo, la fame.
Laggiù in fondo la strada finisce, c’è qualcosa a chiuderla, e Palladipelo si dice che deve arrivare lì, poi basta, poi si troverà un posto sicuro e si fermerà, si riposerà.
E cammina ancora, con la coda verso il basso, trascinando i polpastrelli doloranti.
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Emma tiene gli occhi chiusi. Le braccia sono fredde, a causa dell’umidità che inizia a pervadere la notte, ma lei resiste, immobile, come se dovesse sfidare il tempo.
Quindi non lo vede, il piccolo felino esausto che si dirige lento verso di lei, lei che è l’unica fonte di calore rimasta in questa notte poco illuminata.
*
Palladipelo ci mette tutta la forza che gli è rimasta, per fare il balzo che lo porta su quella panchina. Non sa bene cosa fare, adesso che è di fianco a questa piccola donna che sembra una statua, che forse è davvero una statua come quella dei giardini in cui viveva lui.
Non sa bene cosa fare, e l’unica cosa che gli viene in mente è appoggiare il piccolo naso triangolare, gelido e stanco, su un polpaccio di lei, anch’esso gelido e stanco.
Emma, a quel contatto, apre gli occhi e china la testa verso la sorgente di quella strana sensazione. Lo vede lì al suo fianco, Palladipelo, con quel suo muso incerto e timoroso della sua reazione. Lei lo guarda stupita, e lui non sapendo bene cosa fare emette un miagolio stonato. Lei lo guarda sorridendo, e lui miagola di nuovo.
Allora lei alza la testa, allarga le braccia e lo afferra dolcemente, e se lo posa in grembo.
Palladipelo le aderisce come fosse un pezzo di Emma, ed Emma e Palladipelo – se uno li vedesse adesso - sembrano una cosa sola.
Stanno così per un po’, sulla panchina, a godersi per un po’ il calore l’uno dell’altra, ed a scambiarselo pian piano.
Poi, Emma se lo stringe forte al petto. Si alza, con le braccia e le gambe che le comunicano il dolore della lunga immobilità, e lasciando la panchina si inoltra verso l’androne, nel silenzio più assoluto. Sale le scale due gradini alla volta cercando di non fare rumore, ed al suo piano gira piano la maniglia della porta ed entra al buio nel corridoio di casa sua. Palladipelo tace complice.
Emma ritrova in silenzio la sua stanza, entra, tasta il letto e si infila finalmente sotto il lenzuolo: Palladipelo dal petto cerca una posizione più comoda, e la trova sulla pancia di lei che ben presto si muove sempre più lentamente, nel ciclico su e giù del sonno.
E anche Palladipelo finalmente chiude gli occhi, rasserenato.
E chi li vedesse ora, addormentati e sorridenti, direbbe che davvero stanno sognando lo stesso, identico sogno.
*