giovedì, aprile 30, 2009

Irene e le rose (racconto)

(Un racconto del 2007 rivisto sulla base dei consigli dei lettori dei Quindici.)

Era una caldissima mattina di luglio del 2022, quando Irene finalmente decise di trasferirsi nella piccola casa in collina che un tempo era appartenuta ai suoi nonni.

Lasciare la città in cui era vissuta sin da bambina non sarebbe stato facile, ma – finita l’università – Irene là non aveva più nessuno.

I suoi genitori erano tornati da tempo al paese di origine, ed i suoi amici erano andati via da mesi: da quando fu chiaro che la situazione, nonostante le assicurazioni del Governo, non sarebbe più migliorata.

Là, nel modesto appartamento del quartiere in cui era nata, Irene non sopportava più il silenzio delle lunghe giornate afose, rotte solo dagli altoparlanti montati sulle auto della polizia.

Percorrendo a bassa velocità le strade deserte del quartiere, quelle voci ricordavano ai cittadini che le razioni di acqua venivano distribuite solo una volta al giorno presso i punti di raccolta, e che la corrente elettrica ci sarebbe stata solo di notte, per poche ore.

Irene finì di preparare la valigia, con pochi abiti leggeri e qualche libro. Guardò l’ora, calcolando che per prendere l’autobus che l’avrebbe portata in collina c’era ancora una discreta quantità di tempo. Si sedette al tavolo della cucina, sfogliando distrattamente il quotidiano acquistato poco prima.

Era leggero, e di carta di pessima qualità: a causa delle Grande Crisi Idrica il numero di pagine era stato drasticamente ridotto per decreto, per risparmiare energia. In prima pagina era evidenziato, come ogni giorno, il riepilogo delle severissime misure prese dal Governo per fronteggiare la Crisi: il razionamento dell’acqua potabile, la proibizione di tutti gli usi diversi dall’agricoltura e dal consumo umano.

Una foto sgranata mostrava il panorama della pianura padana, ormai un’immensa piana desolata, arida, con l’orizzonte sfocato da nuvole di polvere ocra. Irene la guardò distrattamente, perché a quel paesaggio si era abituata nel corso degli ultimi anni, guardandolo dalla finestra della casa in collina durante le estati passate a studiare.

Viste dall’alto, solo le coltivazioni e gli allevamenti splendevano di un verde intenso, ma si trattava ormai di piccole macchie cromatiche, in un deserto di prati ingialliti e fiumi ridotti a esili fili argentei.

Anche il Po, poco a poco, era praticamente scomparso. Irene sorvolò distrattamente con gli occhi un articolo che raccontava delle decine di tendopoli sorte nel letto del fiume: erano centinaia coloro che speravano di sfuggire alla fame coltivando qualsiasi cosa nascesse vicino alle poche, residue pozze putride di quello che un tempo era considerato un Grande Fiume.

Irene guardò l’orologio a muro: ancora dieci minuti, poi avrebbe abbandonato per sempre quelle stanze, quel tavolo di legno su cui aveva preparato, china, un incredibile numero di esami. Appallottolò il giornale gettandolo nel cestino dell’immondizia, finì lentamente di vestirsi e uscì, chiudendosi per sempre quella porta alle spalle.

*

L’autobus uscì lento dalla città, ed imboccò la strada ai piedi della collina, da cui si vedeva in distanza la pianura arrossata dalle polveri e dai fumi di carbone: ai bordi delle poche coltivazioni rimaste risaltavano gli scintillii delle recinzioni di filo spinato e delle garitte da cui l’esercito sorvegliava ed impediva alle popolazioni assetate di avvicinarsi agli impianti di irrigazione.

Irene volse lo sguardo fuori dal finestrino, e guardò in lontananza, oltre l’orizzonte offuscato, le montagne senza neve.

Le ultime precipitazioni nevose si erano verificate oltre dieci anni prima, poi tutto era stato abbandonato: i paesi, le località turistiche, gli impianti di risalita restavano immobili e deserti a testimonianza di un tempo che non sarebbe più tornato.

La gente era fuggita dapprima in città, dove molti avevano iniziato a vivere sotto i ponti cercando umidità e riparo dal calore asfissiante. Ma quando anche in città i controlli del Governo sull’uso dell’acqua si fecero strettissimi, ed i primi sciacalli -che scavavano danneggiando le tubature dell’acquedotto per rubare il prezioso liquido e rivenderlo al mercato nero- furono uccisi dalle Forze dell’Ordine, molte famiglie decisero che l’unica speranza di sopravvivenza fossero i boschi delle colline intorno alla metropoli.

Si attendarono in molti, allora, sotto i faggi ed i castagni, ritornando ad una vita primordiale, vivendo di frutti di bosco e di baratti , ricevendo acqua e viveri dalle popolazioni locali che ancora disponevano di pozzi non esauriti. In cambio davano quel poco di prezioso che avevano salvato dalla fuga – gioielli, denaro – o si offrivano, finito questo e nella maggior parte dei casi, come forza lavoro disperata e sfruttata.

Irene aveva la fortuna di avere ancora un luogo dove andare, e tra pochi minuti sarebbe scesa nella piazza del piccolo paese in cui, d’estate, passava le vacanze: ora sarebbe stato il suo rifugio.

Scese in piazza, quando l’autobus si fermò cigolando ed aprì le porte: era passato da poco mezzogiorno, ed il caldo era anche lì intollerabile. La sua attenzione fu attratta da un manifesto rosso appeso al muro: il Sindaco invitava i paesani alla vigilanza, ed a chiudersi in casa di notte.

La collina, si leggeva, era popolata di sbandati e di persone poco raccomandabili che vivevano alla macchia. La gente aveva paura, soprattutto dei profughi che giungevano dalla Russia: nel 2015 gli Stati Uniti d’America l’avevano invasa per assicurarsi le immense risorse idriche del paese, anticipando di poco un analogo piano di occupazione da parte di India e Cina.

L’Unione Europea non si schierò con nessuno dei contendenti, ma il suo territorio fu invaso da centinaia di migliaia di profughi russi.

La casa era a poche centinaia di metri dalla piazza.Irene la raggiunse quasi correndo, aprì sferragliando la porta di ingresso con la grande chiave lasciatale in eredità, ed entrò aspirando a pieni polmoni il familiare odore delle vecchie mura, che la difendevano dalla calura esterna. Aprì una delle imposte e guardò fuori, sul giardino e sulla valle sottostante.
Il frutteto, il vecchio roseto e le ortensie, che i suoi nonni coltivavano, prima di morire, negli anni in cui non c’era ancora lo stato di emergenza, erano ormai morti e mummificati da tempo.
Da oltre cinque anni era assolutamente proibito usare l’acqua per scopi di giardinaggio. I vivai erano stati tutti chiusi, ad eccezione di pochi considerati di “interesse nazionale”, in cui si tentava di salvare dalla scomparsa – con uno specifico progetto governativo – le specie floreali e le piante originarie del paese. Qui, la coltivazione era ovviamente sorvegliata dalla polizia, come capitava per qualsiasi attività in cui l’acqua era disponibile in quantità normali – ed avrebbe quindi potuto attirare l’interesse delle popolazioni o della criminalità.

Lo sguardo di Irene spaziò da destra a sinistra, accarezzando quei colli amati.

La collina aveva quindi perso il suo aspetto vivace di molti decenni prima, ed erano scomparsi i vasi di gerani alle finestre, e dai giardini gli arbusti, le rose e le ortensie, gli orti, ed anche gli alberi da frutta non fiorivano più e seccavano in seguito alla lunga siccità. Anche se qualcosa fosse sopravvissuto, le leggi speciali della Grande Crisi Idrica impedivano severamente ogni forma di coltivazione autonoma ed individuale. Qualcuno lo faceva lo stesso, in clandestinità, nonostante le severe pene previste, per produrre qualche frutto stentato o qualche ortaggio rachitico – che aveva comunque un valore altissimo sul mercato nero.
Dal 2010 gli effetti dei cambiamenti climatici si erano fatti sempre più evidenti ed irreversibili, e la serie di inverni senza freddo e senza precipitazioni era continuata facendo capire che non si sarebbe trattato di episodi. I governi delle maggiori potenze mondiali (Stati Uniti, Unione Europea, Russia, Cina, India) si erano riuniti per giungere ad un accordo che stabilisse un battuta di arresto nelle attività che avevano influenza sul clima, ma senza successo. Le potenze occidentali non intendevano ridiscutere il tenore di vita delle proprie popolazioni, le potenze emergenti non intendevano fermare i propri piani di sviluppo.
La situazione delle risorse idriche divenne così critica che ogni governo europeo dovette varare delle leggi speciali. La scarsità di acqua dolce impose una sorta di economia di guerra, che ebbe riflessi immediati sull’attività industriale e sulla economia.

Si interruppe l’erogazione dell’acqua via rubinetto, ed ogni famiglia aveva diritto ad una quantità giornaliera di acqua – erogata con le autobotti nelle diverse località – sulla base del numero dei componenti e della loro età.

Le lunghe code nelle piazze, con le taniche in mano, divennero presto familiari, ed in molti casi la principale attività quotidiana di molti componenti delle famiglie.

La quantità di acqua disponibile era così ridotta che presto divenne impossibile tenere pulite le case, lavare bene i piatti e farsi il bagno: l’acqua veniva usata esclusivamente per calmare la sete.

L’acqua minerale, nei negozi, era diventata rarissima ed a prezzi proibitivi: un genere di lusso che veniva comprato dai pochi privilegiati quasi di nascosto, ed a rischio di rapina.

Le piscine all’aperto, in stato di abbandono, si erano trasformate in polverosi parchi giochi per i ragazzi.

*

Gli amici di Irene si erano dispersi tutti, nel corso degli anni. Molti di loro si erano trasferiti nel Nord Europa, dove il clima era diventato quasi mediterraneo. La Norvegia, ad esempio, aveva quasi raddoppiato la sua popolazione nel giro di pochi anni, anche grazie al fatto che la neve ed il gelo – in inverno – erano sempre più limitati a poche settimane di vero inverno.

Irene, in quella piccola casa in collina, custodiva da sempre un segreto: ed una delle prime cose che fece, dopo essere arrivata, fu di andare, con il cuore in gola, a riappropriarsene.

Nel piccolo giardino ormai in abbandono, tra il capanno degli attrezzi ed il muro che divideva la casa dal terreno del vicino, in uno spazio di un metro quadro illuminato di rado dal sole, era sopravvissuto – seminascosto, clandestino, sovversivo - un cespuglio di rose Alba.

Irene soffocò un grido di gioia, nonostante le condizioni del cespuglio.

Miracolosamente e misteriosamente sfuggito alla morte per sete, il cespuglio non era più cresciuto in altezza da anni, ma conservava la capacità di emettere ancora due o tre rose l’anno – bianche, a fiore semplice, dal profumo forte ed intenso – che spuntavano come gioielli tra il rado fogliame, spesso decimato dal mal bianco.

Irene amava quelle rose, le amava pazzamente: rappresentavano per lei la vita, la speranza, il ricordo di tutto quello che di bello, profumato e dolce c’era nel mondo – il suo mondo – prima della Crisi, della polvere, della scomparsa della vita e dei colori.

Per qualche tempo dopo l’inizio delle leggi speciali, Irene aveva con ogni cautela (se l’avessero vista, sarebbe stata arrestata ) utilizzato l’acqua di un vecchio, piccolo pozzo presente nel giardino.

Una volta ogni due o tre settimane, in estate, tirava su un secchio di acqua, ormai verde e salmastra, per diffonderlo amorevolmente attorno al colletto del vecchio cespuglio, attorno al quale aveva scavato una piccola fossetta circolare in cui concentrare le poche forme di energia – acqua salmastra, appunto, residui di foglie secche e polverose, qualche manciata di erba strappata per strada… - che ancora poteva fornire alla pianta.

Irene aveva paura: che qualcuno la scoprisse.

Che le Forze dell’Ordine sentissero quel profumo, che qualcuno gettasse passando uno sguardo di là dal muro e la tradisse. Che qualcuno la vedesse al pozzo, o peggio ancora nell’atto di versare l’acqua alla base del cespuglio.

Poi, il vecchio pozzo si asciugò irrimediabilmente.

Per qualche tempo, Irene condivise la propria razione d’acqua con le rose. Ma la sete era spaventosa, e spesso dalla sua tanica, appena dopo averla ritirata, Irene donava parte della sua razione a famiglie del paese con figli piccoli, ammalati e piangenti.

Per lei ne restava pochissima, ed anche metterne da parte a sufficienza per le rose, ed innaffiarle ogni due settimane, divenne presto impossibile.

Così, Irene fu costretta a fare quel che non avrebbe mai voluto fare.

In paese, tra la gente in coda, tutti sapevano che il vecchio Robelli vendeva acqua al mercato nero.

Disponeva di un pozzo di acqua dolce che attingeva da una falda non ancora estinta, e poi aveva certi legami con qualche potente che gli consentivano – diceva la gente – di avere persino l’acqua corrente in casa per qualche ora al giorno.

Robelli, un settantenne dal viso prosciugato dall’avidità che viveva in una grande casa poderale ai margini del paese, accettava in pagamento qualsiasi cosa: denaro, preziosi, gioielli, ma anche capi di vestiario, lenzuola, asciugamani.

Non disdegnava il baratto con qualche giornata di lavoro forzato – il taglio della legna, principalmente. Ma si sapeva, si sapeva che lo si poteva pagare anche con il proprio corpo.

Molte donne del paese lo avevano già fatto, per disperazione, e soprattutto lo facevano le cittadine sfollate in collina, sperando che con il ritorno alla normalità ed alle case, quando la Crisi fosse finita, tutto sarebbe stato dimenticato come un brutto incubo.

In una sera di quella lunga estate, dopo aver atteso il tramonto e osservato con apprensione il cespuglio sempre più sofferente, Irene partì, nel buio, e si recò a casa di Robelli.

Irene, camminando verso la grande casa, ignorò le persone che, fuori dalla soglia, trattavano sommessamente con i dipendenti di Robelli – aveva dovuto assumere qualcuno per gestire i suoi traffici -; ignorò le loro occhiate sarcastiche e laide, e chiese di vedere il vecchio.

Due ore dopo, era di ritorno a casa con cinque litri d’acqua in tre bottiglie di plastica che nascose sotto la camicia. Aveva gli occhi colmi di lacrime ed il cuore in rivolta.

Lo scambio con Robelli era così insopportabile, per Irene, che tentò di evitarlo il più possibile. Ma vedere il cespuglio morire lentamente era una vista insopportabile, ed avrebbe fatto qualunque cosa – qualunque cosa – per evitarlo.

Le foglie cadevano inesorabilmente, una ad una, attaccate dalla malattia, ed alla fine dell’estate solo un’ultima, piccola rosa bianca stava per fiorire.

Irene la vide, nel giro di pochi giorni, sbocciare, rilasciare il suo delizioso profumo e poi, lentamente, ripiegare, abbandonarsi, sfiorire.

Quando l’ultimo petalo cadde a terra, Irene li raccolse delicatamente tra le mani: tuffò il suo viso in quel soffice profumo, lo inspirò a fondo ad occhi chiusi.

Capì d’un tratto, e irrimediabilmente, che il cespuglio aveva perso vita, speranza: che sarebbe stato, da quel momento, null’altro che un pezzo di legno contorto e morto.

Che tutto era finito.

Lasciò cadere i petali a terra, senza preoccuparsi – come aveva sempre fatto con estrema attenzione – di sotterrarli, per evitare che un refolo di vento potesse tradire l’esistenza delle rose ad occhi estranei.

Afferrò forte con le mani i rami nudi, sentì le spine morderle la carne, e il cuore sanguinare, e le lacrime roventi scivolare lungo la guance arrossate.

Stette lì, a lungo, immobile, ad aspettare che l’aria diventasse meno rovente, e il cielo rosso, ed infine stellato.

*

Poi, improvviso, si alzò il vento: un vento forte, impetuoso, selvaggio.

Strappo’ i petali caduti al suolo, li rialzò, li fece turbinare nella notte chiara.

Scompigliò i capelli di Irene, le sollevò la gonna fino a costringerla a muoversi.

Lei si alzò con difficoltà, e rivolse gli occhi verso il cielo, a guardare i petali bianchi che salivano a spirale, sempre più su.

Li vide passare, come uccelli, di fronte alla luna che si era fatta luminosa, immensa, spaventosamente vicina.

Irene sorrise: forse la speranza non era morta, non era scomparsa per sempre;aveva solo bisogno di trovare un nuovo luogo, una nuova casa, qualcuno – o qualcosa - che se ne prendesse cura.

Forse, semplicemente, non era più qualcosa che gli esseri umani potessero comprendere.

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