St-Barthelemy (Valle d'Aosta), domenica 18 febbraio, mattino.
La pista "Gran Fondo" è ricoperta da un sottile strato di neve fresca, grazie ad una modesta precipitazione che è iniziata la sera prima e non è ancora terminata, ed è percorribile per tutti i 27 km del suo sviluppo.
Ci inoltriamo nei boschi, e dopo una decina di chilometri ci ritroviamo da soli in un paesaggio finalmente nordico e invernale.
Il nevischio sferza il viso e cancella a poco a poco le tracce tra le conifere. Silenzio, freddo (siamo a tre sotto zero), un biancore candido e accecante.
L'inverno, quello che non c'era più, si manifesta qui, d'improvviso, in uno spazio ed in un tempo che sono estremamente limitati ma reali, veri.
E' piacevole, paradossalmente, anche la sensazione di congelamento alle mani che ci coglie quando, incautamente, ci fermiamo sotto la tettoia di una baita a mangiare un panino e bere del tè caldo, mentre intorno infuria la tormenta.
Il dolore, acuto, provocato dal sangue che rifluisce nelle estremità gelate è un segno di vita, di ritorno alla vita in una condizione avversa.
Il freddo, la fatica, la solitudine sono qualcosa a cui non siamo più abituati, che ci spaventano.
Che dovremo ritrovare spesso, però, per capire quanto sono intrinsecamente connessi con la vita.
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