Ho letto ieri il tragico “A colpi di machete”, in cui un giornalista francese intervista un gruppo di ruandesi hutu che, nell’aprile 1994, parteciparono al genocidio dei tutsi che provocò la morte di 800.000 persone in poco più di 100 giorni (e, considerando che non è stato uno sterminio “tecnologico”, ma un duro lavoro individuale di machete e bastoni, il sistema si è rivelato persino più efficiente, in termini pratici, di quello adottato dai nazisti).
I ruandesi di etnia hutu e quelli di etnia tutsi sono praticamente indistinguibili: stesso aspetto, lingua identica, stessa religione (la cattolica romana…). Gli hutu considerano i tutsi un po’ più belli e slanciati, e questi ultimi sono stati accusati, tra le altre cose, di voler approfittare di queste caratteristiche per assumere ruoli dominanti…
Comunque, succede che le due etnie vivono da sempre mescolate. Gli europei (i belgi, in primo luogo, che in quanto a criminalità coloniale non erano secondi a nessuno), però, nel corso del ventesimo secolo trovano giusto e conveniente iniziare a mettere l’una contro l’altra le due etnie: dividere per “imperare” meglio, as usually.
E allora scelgono i tutsi come delfini, e li mettono in prima fila nel sottobosco del potere. Poi se ne vanno, alla fine degli anni ‘50, e arriva l’ora degli hutu. Che, simpaticamente, dall’indipendenza del ’59 in poi, oltre a occupare con la violenza i posti da cui scacciano i tutsi, iniziano a parlare – ma così, senza malizia - di quanto sia bello sterminarli.
Per tre decenni, anche i tutsi sorridono sentendono alla radio le canzoncine – spiritose, ironiche, divertenti – in cui si invita l’etnia hutu a massacrare i propri indistinguibili nemici.
I tutsi non è che stanno tutti lì con le mani in mano a canticchiare le canzoncine hutu: organizzano anche un bell’esercito per prepararsi, vista l’aria che tira.
E quindi l’odio diventa un simpatico ingrediente della vita quotidiana, per cui tu, hutu, porti le vacche a pascolare o lavori l’orto fianco a fianco con il tuo vicino di villaggio tutsi, gli sorridi, condividi con lui il lavoro, e dopo vai a berti una birra Premium con gli amici ridacchiando su quanto sarebbe bello tagliargli la gola con lo stesso machete con cui poti le piante.
Quando il 6 aprile del 1994 il presidente hutu della Repubblica Ruandese (si, va beh, era arrivato al potere con un colpo di stato militare alla fine degli anni ’70, ma poi si era fatto eleggere, eh!) precipita con il suo aereo abbattuto da un razzo, tutto diventa molto molto semplice.
Tutte le autorità del paese dicono quel che si cantava da decenni o si diceva nei bar: i tutsi son cattivi, e adesso bisogna sterminarli.
Loro capiscono che tira una brutta aria, e mentre un esercito tutsi tenta di puntare sulla capitale Kigali, i tutsi dei villaggi lasciano le loro case e si raggruppano nelle paludi e nelle foreste, ma anche nelle chiese.
Qualche giorno dopo, le autorità mandano emissari in tutti i villaggi per dire alla etnia hutu due cose molto semplici: affilate i machete, e ammazzateli tutti.
E’ una cosa giusta, non ci sarà punizione, fate in fretta.
E così, dall’11 aprile, circa due milioni di hutu lasciano le attività rurali e si dedicano al nuovo lavoro.
Incominciano dalle chiese. In un solo villaggio del sud del paese, in due giorni le chiese si riempiono di dieci-quindicimila cadaveri tutsi.
Poi iniziano a perlustrare paludi e foreste, facendo a pezzi tutti quelli che trovano. Beh, ovviamente le ragazze e le donne vengono fatte a pezzi due volte, la prima con una violenza infinita e prolungata e la seconda con le lame.
Gli hutu che fanno questo sono...persone normali.
Si, salutano le mogli al mattino, vanno al raduno preparatorio nella piazza del villaggio, si dedicano per tutto il giorno alla carneficina, allo stupro ed al saccheggio, e la sera tornano al villaggio a fare festa, con carne e birra a volontà.
Le mogli sono contente, perché il tenore di vita di quella straordinaria primavera del 1994 è irripetibile: tutti sono ricchi, sazi, senza dover prendere la zappa in mano. E poi quelle donne tutsi erano davvero antipatiche, col fisico slanciato e la loro pelle liscia, ed i loro bambini “scarafaggi” (questo il simpatico nomignolo affibbiato da decenni ai tutsi).
Bambini che non vengono risparmiati, salvati, nascosti: no, in questa storia non ci sono i Giusti, gli Schlinder, o almeno sono così pochi che quanto raccontato in Hotel Rwanda è davvero un’eccezione.
Ci sono solo i Normali.
Dopo i 100 giorni di massacri, l’esercito tutsi è pronto alla vendetta.
Allora due milioni di hutu lasciano le loro case, il loro paese e varcano la frontiera con il Congo, dove rimarranno profughi per anni, in compagnia dei loro fantasmi.
E poi, anni dopo, ritornano. Finiscono in prigione, increduli, sconcertati dal fatto che l’impunità promessa in quella splendida estate sia stata revocata, dal fatto che qualcuno voglia ricordare, punire, condannare. E poi escono, dopo pochi anni, grazie ad un clima di "riappacificazione nazionale", e ritornano negli stessi villaggi di un tempo, a vivere a fianco dei sopravvissuti, dei familiari delle vittime.
Come se nulla fosse accaduto, o come se ciò che è accaduto fosse riconducibile ad una follia temporanea, ad una notte di bagordi, ad una scappatella.
La foto che correda questo post è presa da questo articolo della Stampa on line, che costituisce anche un raccapricciante update della vicenda.
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