Lo spunto di questo post nasce da una notizia (un tizio ha percorso di corsa, impiegandoci nove mesi, la distanza tra Pechino e Parigi, quasi 20.000 km, senza fermarsi mai neppure per un giorno, con una media di 73 km di corsa quotidiana) e dalla lettura di un libro biografico su Walter Bonatti (l'alpinista/esploratore dell'era ante-Messner che partecipò in modo drammatico alla spedizione italiana di conquista del K2 nel 1955).
Quando si parla di imprese del genere (o di quelle di Messner) si resta sulle prime ammirati, ma un attimo dopo si liquida la questione dicendo semplicemente "quello è matto..."
"Matto" perchè razionalmente tali imprese sono così faticose e/o rischiose da non essere giustificabili semplicemente con il ritorno economico e di immagine che possono dare, in questa società dove esiste solo quello che fa notizia: nel senso che si può benissimo diventare ricchi e famosi senza rischiare l'osso del collo.
Infatti, c'è qualcosa di più del bisogno di esporre un ego dalle dimensioni notevoli: e questo "di più" credo sia umanamente interessante.
Queste imprese non vogliono soltanto dire "io sono il migliore", ma - a leggere le dichiarazioni dei protagonisti - vogliono soprattutto dire "io posso farlo". Servono a misurare l'estensione del proprio essere, cosa che in genere il "sistema" non chiede a nessuno: perchè persone consapevoli delle proprie possibilità diventano presto indomabili, ingestibili, incontrollabili, "antipatiche" (e Bonatti e Messner sono sempre stati sulle balle a quasi tutti).
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