L’Iran che racconterò in queste pagine è ovviamente parziale e soggettivo. E’ quel che ho visto e capito in 10 giorni di viaggio (6–15 ottobre 2015), e quindi — inevitabilmente — coglie soltanto frammenti della complessità di quel paese. Un luogo dove la separazione tra la vita pubblica (soggetta alle aspre regole di un potere islamico invadente e intollerante) e quella privata (dove ognuno cerca di essere quel che realmente desidera) è talmente ampia da rasentare la schizofrenia.
Per dire, l’obbligo per le donne di indossare il velo (reintrodotto da Khomeini nel 1980, dopo che era stato abolito con un atto contrario negli anni ’30 del secolo scorso), ed il conseguente tentativo di nascondere le donne e le loro parti “impudiche” alla vista degli uomini, provoca per reazione il fatto che la gran parte delle donne e delle ragazze siano molto più seducenti di quanto accadrebbe se questo obbligo decadesse.
I veli sono diventati colorati, leggeri, fluidi, e scivolano sempre più indietro, fino a raggiungere il limite estremo prima della caduta.
Caduta che avviene spesso, e provoca l’atto di raccogliere i capelli e risistemare il velo, anch’esso seducente.
Dal velo, fuoriescono capelli lunghi e spesso biondi, orecchie ben forgiate, trucchi curatissimi, sopracciglia disegnate ad arte sopra meravigliosi occhi scuri e fondi.
Anche i vestiti sono colorati, fascianti, gioiosi. E così, quel che l’ayatollah vorrebbe evitare (il pericolo della seduzione) diventa gioco e scommessa, e forte e perentoria affermazione di sé, spinta al limite estremo del possibile.
(Si, la “polizia morale” che aggredisce le donne contestando la lunghezza dello jihab o la foggia del vestito esiste ancora, ne abbiamo testimonianza. Così come esistono ancora le aggressioni alle donne con l’acido da parte di alcuni fanatici, sempre per punirle della loro presunta “immoralità”. Ma camminando per le strade delle città, si ha la sensazione che ci vorrebbero ormai migliaia di pasdaran per tentare di arginare il fenomeno. O si nascondono molto bene tra la folla, rinunciando ad intervenire, o sono davvero pochi e possono soltanto mettere in atto eventi simbolici, tentando di “colpirne una per educarne mille”).
*
La tomba di Hafez a Shiraz è un luogo importante, per gli iraniani.
Della biografia di Hafez (il cui nome significa “colui che conosce a memoria [il Corano]”) si sa molto poco.
Nato nel 1300 circa, poeta di corte, scrisse circa 500 poemi (“gazhal”) dedicandoli all’amore, alla bellezza ed al vino. E’ aperto da sempre il dibattito sul livello di simbolicità della sua poesia: si riferisce a pulsioni reali, fisiche, o racconta di un universo esclusivamente simbolico? Non è dato sapere con certezza: e probabilmente, non ha alcuna importanza risolvere il dilemma.
Quel che è certo è che Hafez (e quel che narra) è radicato nel cuore di ogni iraniano, di qualsiasi età.
Ne ho avuto la prova portandomi in Iran una edizione Einaudi con “Ottanta canzoni” di Hafez, con il testo persiano a fronte. Facendo leggere alle persone, in lingua persiana, i gazhal che più mi piacevano nella traduzione italiana, ho sentito non solo come il testo persiano fosse musicale e in rima, ma ho visto la commozione e la gioia negli occhi dell’interlocutore.
Gli iraniani vanno sulla tomba di Hafez come se andassero a trovare un vecchio amico. Si siedono sulla tomba di alabastro chiaro, vi appoggiano fiori, libri (spesso il Divan, la raccolta completa delle sue opere) e carezze, e tocchi affettuosi.
O passeggiano per il bel giardino circostante, godendone la freschezza e il verde, delizia per gli occhi ed il cuore, e l’atmosfera che agevola le relazioni umane, l’empatia, il sorriso, il gesto affettuoso.
Ci siamo seduti anche noi sui gradini, ed in un attimo siamo stati accerchiati da un nugolo di curiose e simpatiche insegnanti in pensione, venute in pellegrinaggio sulla tomba del Poeta, e come tutti gli iraniani curiose di sapere (in inglese, of course) chi fossero questi stranieri, da dove venissero e cosa pensassero dell’Iran e del suo popolo.
Ha quindi avuto inizio una bellissima conferenza/confronto sulle nostre sensazioni ed emozioni, ormai consolidate dopo più di una settimana di viaggio (siamo arrivati a Shiraz alla fine del viaggio), con grande foto di gruppo finale (in cui si sono imbucati, bene accetti, anche due turisti parigini:-)).
Alla fine della quale è stato bello, aspettando degli amici iraniani conosciuti a Teheran, continuare a star seduti sui gradini ad osservare le persone, i loro atteggiamenti, il modo in cui interagivano ed il modo in cui erano vestiti — soprattutto le donne e le ragazze.
Poi, in un bagliore, è scoppiato l’immenso sorriso di Pegah, bellissima e fragrante di gioventù nei suoi vent’anni di studentessa, ed è iniziato un altro pezzetto della nostra storia iraniana. Che forse racconteremo dopo, o forse no.
(1 — continua)