lunedì, luglio 02, 2012

Boschi, Regine e uomini

Un bosco.
Se lo guardi da lontano, arrivandoci, è soltanto una delle piccole macchie scure nel mare di declivi verdissimi della Lessinia - rimasta senza alberi secoli fa, forse per farne navi o case...

Una faggeta, per esser più esatti.
Ombrosa e fresca, mentre oltre le chiome l'afa si deposita come un sudario sui dolci versanti nudi e privi di acqua.

Una Regina, altissima e indifferente, si erge in mezzo al piccolo bosco: è un faggio secolare (fratello del Grande Faggio del Bosco del Vaj, o della Ru Verda del Bosc Grand).

Siamo in tanti, in questa domenica, a far da corte alla Regina.
Giorgio Conte

Walter Porro
Sotto di lei, una chitarra ed una fisa raccontano storie piccole e normali. Di uomini e donne, di amori finiti o nemmeno iniziati. 

Della normale fatica di vivere, quella di cui non ci si può nemmeno lamentare, ma che è bello condividere.

Note e voci risuonano per un tempo umanamente significativo, ma di certo irrilevante per la Regina (come irrilevanti per lei, di certo, risuonano le nostre piccole, umane storie).

Noi si sta distesi ad ascoltare la musica, e spesso a ridere ed a batter le mani per il piacere di condividere quelle parole e quelle note, e a percorrere con lo sguardo il grande fusto, dapprima irregolare e poi liscio, grigio chiaro, che sale sale sale, e solo in cima si apre in una chioma che offre ombra e riparo, così vasto ed imponente da non permettere a null'altro di crescervi sotto.

Grande ed utile, il faggio.

"Da particolari tronchi, dovevano essere diritti e a venatura compatta, venivano conservati i pezzi vicino alla base che poi, spaccati con precisione lungo la venatura, venivano messi a stagionare sotto il portico appesi a uno spago. Da questi pezzi uscivano i manici per ogni uso: scuri, mazze, martelli, picconi, scalpelli perchè il faggio è il legno che meglio di ogni altro si adatta alle mani dell'uomo, e ben lo sapevano i Veneziani che saggiamente amministravano le faggete per avere gli alberi da remi per le loro navi.
Dove un bel ramo si innestava al tronco con giusta inclinazione, il pezzo veniva scelto per costruire la "slitakufa", slittastorta: dal tronco smussato in punta si ricavava lo scivolo e il ramo faceva da stanga, tutto in un unico pezzo. Se poi si mettevano su un'asse di ferro e due ruote si otteneva un carrettino per uso di bosco o di campo. Ma noi ragazzi si cercava tra i tronchi quello da cui, segato in tavole e dopo due anni di stagionatura, Giacometto Bhet, il falegname, ci avrebbe ricavato gli sci."
(Mario Rigoni Stern, "Arboreto selvatico").

Coriandoli di sole ci cascano addosso da lassù, gettati dalla brezza che combatte con il caldo. 

Sotto le mani e sotto le piante dei piedi - finalmente nudi!, il frantumarsi morbido delle foglie degli scorsi autunni. 
Nel palato, il gusto dolce e intenso del genepy, che ci ricrea dentro lo stesso piacevole e condiviso tepore che proviamo fuori.

Il mondo, qui,  è contemporaneamente vicino e molto, molto lontano.

Non ci sono mercati da convincere, qui, ma solo sensi da esercitare. 
E tutto, tutto sembra molto più vero e convincente di quel che ci raccontano gli uomini che vorticano come falene attorno all'accecante luce di qualsiasi potere.

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