Nell’estate del 2005 ho visitato per la prima volta Auschwitz. Ci sono tornato l’estate scorsa, visitando anche Auschwitz 2 (Birkenau).
L’emozione provata non si può descrivere facilmente: forse la comprende soltanto chi ci è stato.
E’ uno dei pochi luoghi e dei pochi momenti, nella mia vita, in cui ho percepito intorno a me il MALE come sensazione fisica reale: come se fosse un odore, una nuvola, una condizione atmosferica.
Quel che abbiamo compiuto in quel luogo (come umanità, come cittadini di un’Europa colta, ricca, “superiore”) è come rimasto immobile nell’aria, si può respirare ancora oggi: e induce al silenzio, alla riflessione. A tacere ed a pensare.
Solo un’altra volta, nella mia vita, ho provato emozioni più forti di quelle sentite ad Auschwitz. Nel 1989, in un viaggio di conoscenza in Brasile, alternai la frequentazione delle spiagge dorate (e dei luoghi meravigliosi di quello straordinario paese) alla conoscenza della realtà.
E, dietro la copertina esibita ai turisti, la realtà era (ed è ancora, purtroppo, nonostante Lula) favelas, miseria, oppressione dei deboli, distruzione della dignità dell’uomo.
A Salvador de Bahia, una delle città più belle e disperate del Brasile, puoi essere portato ad ammirare la splendida città vecchia, capolavoro dell’architettura coloniale portoghese, fatta di bellissimi edifici color pastello, di stucchi candidi, di forme morbide e curvilinee, e rimanerne affascinato.
Ma non puoi (e non devi) non andare in altri due posti della città dove puoi comprendere il senso della parola “inferno”.
Il primo luogo è (ancora oggi) il poverissimo quartiere detto degli “Alagados”. Il nome è ironico, perché si tratta di palafitte di legno costruite direttamente sugli scarichi fognari a mare della città., collegate fra loro da incerte e precarie passerelle marcite.
L’alta marea provvede periodicamente a innalzare il livello dei liquami sui pavimenti della abitazioni. Qui vivono centomila persone. Centomila. Arrivate da qualsiasi parte del paese, come gli abitanti della favelas di Rio e San Paolo, in cerca di una speranza qualsiasi tra l’immondizia del presente. Come a Rosarno e nelle periferie delle nostre città, anche se a Salvador tutto è moltiplicato per cento: i numeri, così come la disperazione e l’orrore.
Immaginate la situazione igienica, morale, educativa.
Non vi racconto cosa significa, qui, guardare negli occhi le persone, o – peggio ancora - i bambini.
Immaginate da voi la sensazione che si può provare: immaginate come quello sguardo – accompagnato spesso, e questa è la cosa più sconvolgente, da un sorriso sincero - possa cancellare in un millisecondo, dal nostro cervello da uomini superiori, tutte le migliaia di cazzate che ci hanno inserito a forza.
L’affollamento di minchiate (i programmi tv, la macchina nuova, il cellulare, i viaggi, la “qualità della vita”, il buon cibo, gli abiti eleganti, l’invidia, la carriera, la competizione sociale) si dissolve all’istante, e nell’immenso spazio vuoto che si crea all’improvviso lampeggia una scritta che recita qualcosa come “dare un senso alla vita”.
E’ uno shock. Uno schiaffo violento al castello di bugie su cui costruiamo l’idea di un mondo “sviluppato” e di uno “arretrato”, che lo fa crollare come fosse sabbia – e poi, per tutta la vita, non c’è più verso di rimetterlo insieme.
Un altro inferno, a Bahia, è la discarica della città. O, meglio, la città nella discarica.
Tra le montagne di rifiuti di ogni genere, ed i milioni di variopinti sacchetti di plastica lacerati e sventolanti come bandiere tibetane, ci sono delle autentiche strade. E, ai margine delle strade, direttamente su rifiuti, le tende in cui vivono le persone. Quasi sempre si tratta solo di un telo di plastica agganciato su qualche bastone. Qui vivono centinaia di persone, in maggioranza bambini.
Attendono l’arrivo dei camion della spazzatura, attorno ai quali, quando il pianale rovescia altra immondizia sulle montagne già esistenti, si affollano come formiche operose.
E dallo scarto della società civile traggono non solo rifiuti da rivendere o da impiegare per costruire rifugi meno precari (materiale ferroso, legno): ma cibo, che viene consumato subito, con le mani che pescano a cucchiaio, perché la fame e la disperazione se ne fottono assai del bonton.
Moltitudini, dunque, che non possono essere definite deficienti o “fallite”, come si è tentati di fare sbrigativamente secondo la nostra concezione “da vincenti”: sono soltanto parte di quella immensa maggioranza di persone che nel mondo hanno avuto la sfiga di nascere dalla parte sbagliata del mondo (a Salvador de Bahia, si tratta del 90% della popolazione).
Senza lavoro, senza soldi, senza averi, senza cibo, senza presente né futuro, in un mondo che non tollera la povertà: e, anzi, non vuole nemmeno pensarci.
Noi “che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, noi che troviamo tornando a sera il cibo caldo”, come diceva Primo Levi, siamo portati a pensare che la differenza tra noi e “gli altri”, nel senso degli ultimi del mondo, sia solo una questione di “volontà”.
Se uno ha buona volontà…se ha voglia di lavorare…se si comporta bene…se dice sempre sì…se si adatta…
Continuiamo a raccontarci queste palle, d’accordo: è molto più semplice che ammettere che l’ingiustizia su cui si basa questo mondo è semplicemente intollerabile, e che ne siamo in qualche modo complici nel momento in cui neghiamo la verità, e ci ostiniamo a “parlare d’altro” (mai della vita, ma in genere di ciò che in essa vi è di più futile).
Ma torniamo ad Auschwitz.
Auschwitz 1 (dove vi è il famoso cancello con la scritta irridente “Arbeit macht frei”) è un complesso di fabbricati tutto sommato “decenti”, in un contesto urbanistico che trasmette – se uno si astrae dall’uso finale del luogo - un senso di ordine, come in un tranquillo ed ordinato quartiere industriale.
Gli edifici sono stati trasformati in museo permanente, e solo all’interno l’orrore di quel che accadde si esplica davvero, con tutta la sua forza.
Nelle impressionanti vetrine colme di capelli. Di protesi. Di scarpe. Di valigie con i nomi scritti con il gesso, come gli indirizzi verso cui quegli uomini, quelle donne e quei bambini non avrebbero più fatto ritorno, mai. Di oggetti di uso quotidiano (tazze, pettini), resi inutili dal fatto che alle persone a cui appartenevano, prima ancora di passare per il camino, era stato strappato dal corpo e dall’anima il senso stesso della parola “persona”.
E poi, l’infinita galleria di foto di identici fantasmi, a cui il taglio dei capelli e l’imposizione della divisa a righe verticali ha già cancellato ogni apparenza, ogni specificità umana: che riesci a ritrovare solo in poche espressioni disperate, perché nella maggior parte dei volti domina l’attonimento, la legittima assenza di comprensione di quel che sta accadendo.
Auschwitz 2 (Birkenau) rappresenta il passaggio al momento seriale ed industriale del sistema di sterminio. E’ alcune decine di volte più grande del complesso originario, ed è l’immagine più comune che il nostro cervello richiama alla mente quando sente le parole “campo di sterminio”.
Un vasto quadrato di territorio su cui sorgono i resti di centinaia di baracche identiche, il cui format di origine è una stalla: ovviamente gli ex.umani che qui giunsero vennero stipati in esse in quantità infinitamente superiore a quella originaria degli animali.
All’ingresso, una costruzione con una piccola torre che consente il controllo visivo completo sul campo: attraverso di essa, quei binari che tagliano in due il campo, ed ancora oggi ci danno i brividi.
Le baracche sono state tutte distrutte, ad eccezione della fila più vicina all’ingresso. Dentro quelle superstiti, i fitti soppalchi di legno su cui gli uomini a righe dovevano stendersi alternati, piedi contro testa, a tre a per volta. In mezzo alla baracca, una misera stufa a sfidare insulsamente i rigori dell’inverno polacco.
Bisogna prendersi il tempo che serve, e camminare piano su quei prati, in mezzo a quei ruderi. E leggere con attenzione i cartelli, che raccontano nei dettaglio il sistema organizzativo dello sterminio. Il settore dedicato agli zingari. Gli ampliamenti, come si fa per i cimiteri (anche questo lo era di fatto, anche se i morti che vi giungevano conservavano della vita solo gli aspetti biologici).
In fondo, sulla destra, qualcosa di agghiacciante.
Un ameno boschetto, due laghetti. Un luogo apparentemente di pace, di ristoro, di quiete.
Poi leggi che, sotto questi rami e queste foglie, venivano inviati a sostare coloro che – in tempi di “eccesso di scorte in magazzino” - passavano direttamente dal treno ai forni, senza nemmeno subire il processo intermedio di degrado da persone a fantasmi.
Alcune foto rappresentano, sotto quegli alberi, famiglie con i bambini: stretti nei cappotti e nei foulard, vicini agli altri per difendersi dal freddo, inconsapevoli (o forse no, ed è ancora peggio) del futuro prossimo. E vengono i brividi anche a te, nonostante sia una giornata estiva e relativamente calda.
Nell’acqua dei laghetti, sono dissolte le ceneri di migliaia di persone.
O forse sono ancora lì sotto, come un incubo, una massa grigia e densa che incombe sulla coscienza del mondo.
Al fondo del campo, ai lati, i forni crematori fatti saltare dai nazisti prima dell’arrivo delle armate sovietiche. Conservare la memoria, anche se sembra paradossale, implica la necessità di conservare questi ruderi e queste macerie così come sono. Macerie che sono il simbolo di un’Europa obbligata a ricostruirsi dopo la follia, il disastro, l’allucinazione collettiva del totalitarismo, l’olocausto.
In un’altra occasione, qualche anno fa, andai a Terezin, nella Repubblica Ceca, sede di un famigerato campo della Gestapo. Lì, gli ebrei transitavano in attesa di essere inviati ad Auschwitz.
Ho passato la notte nel piccolo paese presso cui sorge il campo, che visitai il giorno dopo, e non ho chiuso occhio. Anche in questo caso il Male mi penetrava nei pori. Mi domandavo di continuo come fosse possibile che – in quel luogo, in quelle modeste case, solo sessant’anni prima – le persone potesse vivere normalmente, e condurre la propria esistenza pur nella consapevolezza dell’orrore che avveniva a poche decine di metri da loro.
Ma a Terezin vi fu un evento particolare, nella storia dell’Olocausto, che merita di essere ricordato.
Riporto da Wikipedia:
“Il 23 giugno 1944, in seguito alle proteste del governo danese che dall'ottobre 1943 chiede notizie sul destino degli ebrei catturati a Copenaghen, Adolf Eichmann accorda una visita al campo ai rappresentanti della Croce Rossa internazionale al fine di dissipare le voci relative ai campi di sterminio. Per eliminare l'idea di sovrappopolazione del campo molti ebrei vennero ulteriormente deportati verso un tragico destino ad Auschwitz. L'amministrazione del campo si occupò inoltre di costruire falsi negozi e locali al fine di dimostrare la situazione di benessere degli ebrei di Theresienstadt. I danesi che la Croce Rossa visitò erano stati temporaneamente spostati in camere riverniciate di fresco e non più di tre per camera. Gli ospiti poterono apprezzare l'esecuzione dell'opera musicale Brundibar (scritta dal deportato Hans Krása) eseguita dai bambini del campo.
La mistificazione operata nei confronti della Croce Rossa fu così riuscita che i tedeschi girarono un film di propaganda a Theresienstadt le cui riprese iniziarono il 26 febbraio 1944. Diretto da Kurt Gerron (un regista, cabarettista e attore apparso con Marlene Dietrich nel film L'angelo azzurro), esso era destinato a mostrare il benessere degli ebrei sotto la "benevolente" protezione del Terzo Reich. Dopo le riprese la maggior parte del cast, e lo stesso regista, vennero deportati ad Auschwitz dove Gerron e sua moglie vennero uccisi nelle camere a gas il 28 ottobre 1944. Il film completo non venne mai proiettato ma alcuni spezzoni vennero utilizzati dalla propaganda tedesca ed oggi ne rimangono solo alcuni frammenti.”
Non vi ricorda qualcosa di molto attuale, questa mistificazione della realtà ad uso di occhi non informati (o volontariamente chiusi)?
Per finire.
Io non credo che sia necessario andare ad Auschwitz, e nemmeno nelle periferie di Salvador di Bahia, per diventare consapevoli. Di quello che come umanità siamo stati e siamo capaci di fare.
Certo, se uno ci va, poi non può più far finta di “non sapere”.
Ma gli strumenti per essere consapevoli della situazione del mondo, oggi, sono tutti qui, a nostra disposizione. E non usarli, o ignorarli, significa scegliere di nuovo di essere complici, come è già accaduto, come sta accadendo.
Ecco, la memoria è indispensabile perché ci permette di avere consapevolezza.
Una volta che si ha consapevolezza, non si può più fingere.
Ieri, ad esempio, un articolo di Carlo Petrini su Repubblica raccontava di come le potenze economiche emergenti (Cina, India, Corea) stiano comprandosi pezzi interi di Africa e li stiano dedicando a monoculture (riso, cereali), per l’esportazione verso il paese proprietario, con altissimo impiego di fertilizzanti chimici e semi OGM. Quando il territorio sarà impoverito e reso improduttivo, verrà semplicemente abbandonato, e reso come un involucro vuoto e morto ai legittimi proprietari.
Inoltre, sui mercati africani le potenze neocoloniali (che di nuovo derubano quel continente usando gli strumenti finanziari, al posto degli eserciti, ma provocando di nuovo devastazione e morte) vendono le eccedenze di produzione a metà del prezzo dei prodotti locali, distruggendo ogni forma di economia locale, senza nessuna possibilità di salvezza.
E obbligando gli africani a lasciare il mondo che appartiene loro, per venire da noi a occupare l’ultimo gradino della scala sociale – odiati, perseguitati, lasciati morire nel deserto libico, scacciati.
Come dice il sociologo Jean Ziegler: «Da una parte si organizza la fame in Africa, dall’altra si criminalizzano i rifugiati della fame».
Un altro esempio del fatto che ricordare non basta.
Che sia indispensabile farlo, ma che occorra un passaggio in più: la consapevolezza, appunto. Perché ricordare i nostri crimini passati ha senso solo se serve ad evitare di compierne di nuovi, presenti e futuri.