Nella vita di un lettore accanito, una volta ogni tanto capita un libro davvero faticoso. Intendiamoci: io non sono un lettore democratico, e non concedo ad ogni libro le stesse possibilità. Se mi stufo, o non mi ritengo all’altezza di quello che leggo, lascio perdere senza troppi complimenti (applico questa regola da molto tempo prima che Pennac catalogasse i diritti del lettore in “Come un romanzo”…:-)).
Diciamo che circa un libro ogni quindici, tra quelli che compro (pochi) o prendo in prestito (cinque/sei al mese) dal paio di biblioteche che frequento, finisce per essere abbandonato, a volte entro le prime dieci pagine, ma a volte anche oltre la metà…(ed anche in questo caso lo faccio rientrare nella categoria dei “non letti”).
Non è un problema di dimensione: non è mai stato un argomento che mi spaventasse. Nei periodi di bulimia da lettore, come quello in cui mi trovo in queste settimane, la lettura mi assorbe al punto di superare, a volte, le sei-settecento pagine al giorno (nell’ultimo weekend ho letto, tra sabato pomeriggio e domenica notte, tre libri diversi, superando di slancio le mille pagine – nell’apposito box a destra, per chi è curioso, ecco autori e titoli).
Non è un problema di tipologia: saggi o romanzi, per me pari sono.
Non è un problema di autore: anche per lo stesso, ci sono libri che consumo con l’avidità di un gelato in estate, ed altri che tornano pressoché intonsi da dove son venuti, conditi però con sbuffi e sguardi annoiati (primo esempio: Saramago!).
Sto divagando: torniamo al tema iniziale.
Il libro che mi è costato più fatica in questo 2009 è senza dubbio il “Libro Nero” di Orhan Pamuk.
Avevo già preso il vaccino-Pamuk leggendo “Il mio nome è rosso”, un sofisticato e colto giallo ambientato nel XVI secolo, e “”Istanbul”, una sorta di complessa mappa mentale che incorpora la biografia di Pamuk nei luoghi fisici della città, in un disegno tanto affascinante quanto incomprensibile.
Qualcuno, commentando “Istanbul”, parla di “Weltanschauung”: ed io sono assolutamente d’accordo, perché essendo un concetto che non ho mai capito a causa delle mie lacune culturali – in filosofia sto, come si dice da noi, “al pian dj babi” (1)– si adatta perfettamente ad un libro incantevole e in fondo indefinibile.
Si, perché Pamuk non è uno scrittore facile: se leggete una sequenza di frasi dei suoi romanzi, ne cogliete la profondità e la magia, ma vi rendete immediatamente conto che
a) non avete capito quasi nulla di quel che c’è scritto, perché la densità di riferimenti storici/geografici/filosofici è insostenibile per qualsiasi lettore medio;
b) non sareste mai in grado di ripetere il concetto che lui ha appena descritto: non siete neppure certi che vi sia un concetto solo o mille.
Questo vale in generale per Pamuk.
Ma nello specifico, il “Libro Nero”, ragazzi miei…fa sputare sangue.
Pamuk, nella postfazione, racconta di averci messo almeno quattro anni a scriverlo, e per procedere si è dovuto rinchiudere in un appartamento di Istanbul, lasciando la moglie a New York, passando infinite notti a scrivere e fumare come un turco (suvvia, passatemela:-)). Personalmente penso che abbia anche bevuto parecchio, per arrivare in fondo.
La storia, in sé, è persino semplice da raccontare: Galip, un avvocato, un bel giorno scopre che la sua amata moglie Ruya è scomparsa. Nel seguirne le tracce, scopre che contemporaneamente è scomparso anche Celal, un suo fratellastro diventato celebre come titolare di una rubrica di costume su uno dei più diffusi quotidiani della città.
Tra questo inizio ed il finale (probabilmente tragico, ma ho dei dubbi sulla mia capacità di averlo compreso davvero), il lettore attraversa quasi 500 pagine di sofferenza, emozione, gioia, fatica, certezza di essere un imbecille, certezza (costante) di aver frainteso le dieci pagine o frasi appena lette, anche nelle migliori condizioni di lucidità e concentrazione.
Il mio calvario è durato oltre un mese.
Ho deciso almeno dieci volte di abbandonare il maledetto libro, mandandolo a quel paese. Ma malgrado la sofferenza, una sorta di maleficio mi obbligava sempre a riaprirlo e proseguire, e seguire quella insopportabile carogna di Galip in giro per Istanbul.
Lui segue Celal, si identifica in lui, e tu segui lui e Celal e rimani intrappolato come una mosca in questa rete mostruosa fatta di luoghi celebri e sconosciuti, odori, cibi, presente e passato, sultani, ghiaccio e neve, amori felici ed infelici, moschee, sufismo, leggende, manichini, film americani, albi di Tex (!), gangster, palazzi, manoscritti, redazioni e centinaia di altre cose che vi sarà assolutamente impossibile da digerire, per quanto descritte magnificamente.
Mio figlio Luca (13 anni) l’ha preso anch’egli in mano e – accorto! - abbandonato in tempo, prima di contaminarsi, preferendo divorarsi il non meno lieve (e decisamente più duro) “Cecità” di Saramago: e non ha mai smesso di prendermi per i fondelli, durante il mese di lettura, per questa assurda ostinazione nel portare, con visibile affanno e fatica, un fardello che tutto sembrava donarmi, meno che gioia.
Arrivato in fondo, lo confesso, ho gettato il libro sul letto unendo al senso di liberazione anche un sonoro e liberatorio “ma vaffanculo, và…”, sentendomi come un galeotto a fine pena, quando gli si chiudono finalmente alle spalle le pesanti porte del penitenziario, e davanti a sè ha la strada che porta ad una realtà completamente trasformata dal tempo.
Insomma, che vi devo dire? Questo libro è come una passione contrastata: se ci entrerete dentro maledirete il momento in cui avete deciso di farlo, ma non potrete rinunciare al doloroso piacere che vi dona, e da cui non potete più separarvi fino all’epilogo.
Io vi ho avvisati, poi fate come credete.:-)
(1) Il babi, in piemontese, è il rospo. Essere "al piano dei rospi" significa "stare a zero, al punto di partenza, non aver combinato nulla".