venerdì, aprile 13, 2007

Io me stavo lì (racconto dedicato a tutte le vittime dei PEC - Piani di Edilizia Convenzionata)

Io me ne stavo lì, da almeno cento anni, grasso e pasciuto, a farmi i fatti miei.

Pigro, si, lo sono sempre stato: ma non è che nella mia condizione si possa essere diversi.

Si, lo vedevo bene il disordine crescere su di me, ma anch’esso, in fondo, aveva una sua ragione d’essere ed una sua bellezza.

I ragazzini di qui, del paese, mi han sempre chiamato il Grande Prato: certo, tutto è relativo, e quel che viene visto dagli occhi dei bambini e degli adolescenti può sembrare grande anche se non lo è.

Io, a dirla sinceramente, non è che fossi immenso, però su di me si poteva correre a perdifiato per almeno due minuti di fila per la mia lunghezza, e non è che ci fossero poi molti altri posti per farlo.

E, visto che “per largo” sono in forte discesa, ci si poteva pure buttare di corsa verso il basso urlando come ossessi, fino a sentire le gambe esplodere, per lo sforzo di frenare prima di piombare come fulmini nel bel mezzo della strada asfaltata che mi sfiora a sud.

Si poteva far decollare l’aquilone, e poi farlo volare per un bel pezzo prima di essere obbligati a fermarsi e vederlo scendere sull’erba.

Si poteva aggrapparsi e arrampicarsi al noce che mi era cresciuto proprio in mezzo, un vecchio nodoso brontolone pieno di cicatrici, che non sopportava i bambini e li guardava truce mentre gli si posavano sui solidi rami, come grossi uccelli.

Si poteva mangiare more fino a scoppiare, prendendole una ad una dai rovi che c’erano al confine nord, facendo ben attenzione a non farsi catturare o graffiare dalle spine.

D’inverno, poi, in quegli inverni lontani in cui il paesaggio ancora si trasformava in incanto, c’erano notti e giorni interi in cui la neve mi copriva come una candida pelliccia.

E appena il manto si faceva denso e sufficiente, i ragazzi si infilavano sotto il sedere qualsiasi cosa scivolasse, una slitta un bob un sacco dell’immondizia, e volavano letteralmente lungo la discesa divertendosi come pazzi.

Beh, certo, io non è che possa andarmene in giro, lo capirete bene, ed il mondo intorno non l’ho visto, ma ho visto invece un piccolo pezzo di mondo passarmi sopra, in tutti questi anni, ed era un mondo che mi piaceva.

I fidanzati che, al tramonto, occultavano i loro baci dietro il caos dei noccioli lasciati crescere ad est senza criterio, intricati e scomposti.

I contadini (due anziani, lui e lei, piccoli e rinsecchiti sul minuscolo trattore) che, a fine estate, venivano a fare l’erba (e quanto ero grato, accidenti, che mi ripulissero un po’, che mi rendessero un po’ più ordinato).

E gli ospiti notturni, i cinghiali, i tassi, i gatti, silenziosi e guardinghi…

Poi, un giorno di fine autunno, sono arrivati quei due tizi.

Avevano la cravatta al collo e delle valigette, dalle quali han tirato fuori un sacco di carte con delle linee, e strumenti che non avevo mai visto.

Io, non è che sia razzista, ma gente con la cravatta al collo e le valigette non l’ho mai vista girare sui prati, non è ambiente suo, e mi è venuta subito un po’ di diffidenza.

Son stati qua sopra tutto il pomeriggio, ma non è che mi guardassero, non è che gli sia venuta voglia di sdraiarsi un attimo sull’erba. Erano qui, mi calpestavano, ma era come se non ci fossero. Distratti, non vedevano neanche le cincie ed i rondoni che si mettevano a giocare sopra la loro testa.

Quando sono andati via mi son sentito meglio, devo dire.

D’inverno, quando tutte le foglie del noce e dei noccioli erano a terra, i contadini son venuti a ripulire tutto. A ripulire troppo, devo dire, rispetto a come facevano di solito. E sembravano stanchi, e anche un po’ con gli occhi lucidi. Si muovevano piano, e spesso si fermavano a guardarmi con uno sguardo strano: non è che io sappia interpretare le emozioni che gli uomini si tengono dentro, ma sentivo che c’era qualcosa di diverso dal solito.

Prima ancora che arrivasse la primavera, quando tutto su di me dormiva – era un mattino presto, ed ancora mi beavo della freschezza della rugiada – ho sentito un rumore tremendo provenire dalla strada asfaltata: uno stridio, un cigolio impressionante.

Mentre stavo lì un po’ stupito, mi è venuto sopra un enorme coso giallo, con ruote grandissime e con davanti una specie di cucchiaio quadrato; e prima ancora che capissi che cosa stava per succedere, quel coso mi aveva piantato il suo cucchiaio nella carne, ed aveva iniziato a…si, a scuoiarmi!!!

Un male cane, mi ha fatto, mentre mi toglieva la parte di me più bella…ha lavorato per tutto il mattino, ed io ero ormai dolorante ed irriconoscibile, pieno di zolle marroni, ammucchiate qua e là senza criterio.

Ma la cosa peggiore, se peggiore poteva essere, è successa dopo, quando sono arrivati tutti quegli uomini: avevano in mano cose orrende, taglienti, e rumorose e puzzolenti, e con quelle si avvicinarono al vecchio noce, e lo fecero letteralmente a pezzi!!!

Io solo sentivo le sue urla di dolore, ma non potevo fare nulla. Dopo poche ore, il cadavere del mio vecchio, burbero amico se ne andava per sempre, ridotto in piccoli pezzi, sul cassone di un carro attaccato ad un trattore.

Giunse poi la volta, nei giorni successivi, dei noccioli, e dei rovi, e di nuovo tornò il mostro giallo a farmi del male, e poi altri mostri, sempre più rumorosi e puzzolenti e selvaggi.

Ero a pezzi, non mi riconoscevo più. Gli uomini vennero sempre più numerosi, mi infilarono nella carne infiniti pezzi di metallo, e poi mi fecero dolorose iniezioni di cemento, ma stavo sempre più male. Sempre più male.

Io me ne stavo lì, da almeno cento anni, grasso e pasciuto, a farmi i fatti miei.

Ed ora sono qui, schiacciato da queste otto case che mi distruggono le ossa, e sono stanco, e non ho più voglia di vivere. Al posto dell’erba hanno fatto delle strade, delle piccole piazze, e adesso ci abitano molti uomini, qui, e sul mio corpo passano le auto.

Nessuno corre più a perdifiato, non c’è più lo spazio.

Ci sono ancora dei bambini che giocano, li sento, però stanno nascosti dietro i muri,e quando escono stanno chiusi dentro alti recinti di ferro, su piccoli pezzi ben curati di verde, in mezzo a fiori colorati.

Non mi vedono più, non sanno neppure che esisto.

Io spero solo che, dopo quello che mi hanno fatto, ci sia almeno più felicità, qua sopra.

Beh, non potrebbe essere altrimenti: non è che sono stupidi, gli uomini.

2 commenti:

Andrea Rendi ha detto...

Uno strano lupo, che scrive belle parole, piene di sentimento, qui ed altrove. Bravo. :-)

Anonimo ha detto...

Coraggio, vecchio prato, vedrai che pian piano le tue ferite guariranno. La vita cambia, anche il tuo ruolo adesso è cambiato. Sei sempre stato un solido pezzo di terra, vedi di fare il possibile anche adesso e sostenere le nuove vite che vivono su di te.
E di notte, quando tutto tace, continuerai a sognare i cinghiali, i tassi e anche qualche riccio e un paio di volpi piccole e rosse... come facciamo tutti noi, ricordando di quando liberi e selvaggi ci rotolavamo giù dai prati e ci arrampicavamo sui ciliegi. Anche per noi la vita è cambiata, sai? E cambia sempre. Solo che noi dopo un po' andiamo a finire "dentro" un grande prato, pieno di piccole casette sotterranee, o meglio, cassette...
Ciao, grande prato, stammi bene. Ti sono vicina col cuore. Forse mi incontrerai, se osservi la lucertola che sta pigramente distesa sul muretto dell'ultima villetta, sotto l'alto recinto di ferro. :o))