Nel giorno d’inverno in cui Diego Arvezzi riuscì finalmente a mettere a punto il suo registratore di emozioni, la prima cosa che fece fu incidervi la sua felicità.
Dopo sette lunghi anni di lavoro, lo strumento era finalmente pronto.
Prese la scatola grigia dal tavolo del laboratorio, e si recò in salotto, dal lato opposto della sua vecchia casa con giardino: aveva bisogno di un’atmosfera tranquilla per la prova definitiva.
Si sedette comodo sull’ampio divano, di fronte al camino; si mise una coperta sulle ginocchia – adorava farlo, nella stagione fredda - e appoggiò lo strumento al suo fianco. Prese e collocò delicatamente i contatti di gomma sulle tempie, collegati al registratore, poi sfiorò docilmente con l’indice destro il tasto “REC” e si lasciò andare, cercando di distillare quello che provava ripulendolo da ogni distrazione ed emozione di disturbo.
Rimase così per alcuni minuti, in silenzio: perfettamente felice. Quando ritenne sufficiente la quantità di registrazione, premette “STOP” e si tolse i contatti dal viso.
Aveva lavorato duro, in quegli anni, per incorporare nel suo strumento due funzioni che aveva sognato sin dall’inizio della ricerca. Il registratore poteva registrare e replicare, verso un soggetto umano, una emozione; ma poteva anche trasformare l’emozione registrata in una sequenza audio, che poteva essere diffusa in pubblico su una frequenza non udibile dall’orecchio umano.
L’idea dello scienziato era che si potesse trasferire ed infondere speranza, fiducia, felicità tra singoli esseri umani; ma che si potessero anche diffondere in modo massivo emozioni positive, da utilizzare ad esempio in luoghi di conflitto e di dolore.
La sua idea era che si potesse, ad esempio, bombardare un paese in guerra con sequenze di emozioni di amore, di pace, di solidarietà, per far giungere queste emozioni in modo massivo al maggior numero possibile di persone.
L’idea era anche quella di produrre apparecchi simili per uso personale e famigliare: per recuperare, nei momenti più difficili della vita delle persone, emozioni non sbiadite dal ricordo, per superare l’angoscia e la paura di non farcela.
Ora, il ricercatore era pronto per provare la prima funzionalità rivoluzionaria del suo strumento: il Ripristino delle Emozioni.
Per farlo, decise di abbassare in modo deciso il suo livello di felicità. Prese il quotidiano che aveva acquistato la mattina, prima di iniziare l’esperimento, e lo lesse a fondo.
Dopo una approfondita ed ostinata ingestione di violenze, corruzioni, guerre, catastrofi climatiche, scandali, recensioni di programmi TV, Arvezzi si sentì deluso, amareggiato, depresso al punto giusto per continuare l’esperimento.
Si rimise comodo: premette il tasto “INDEX”, poi il tasto “1” e, dopo aver riposizionato i contatti di gomma sulle tempie, sfiorò il tasto “PLAY”.
Appena un attimo dopo, senti fluire dentro di sé una sensazione di calore crescente; presto, questa lasciò il posto ad una euforia che si consolidò, negli istanti successivi, in quella felicità che Arvezzi riconobbe subito, senza alcun dubbio.
Spense lo strumento e staccò i contatti dal proprio corpo:chiuse gli occhi, e si lasciò andare, sul divano, ad un irrefrenabile pianto di gioia.
Quando si riprese, e l’effetto della felicità registrata finì, si fece spazio in lui una felicità nuova e diversa: il pensiero che la sua creazione, per la prima volta nella storia, poteva rendere gli esseri umani sorridenti e felici lo fece traboccare di gioia. Il mondo poteva finalmente cambiare, diventare più bello ed umano, e lui ne sarebbe stato l’artefice.
*
Soltanto una settimana dopo, in un pallido pomeriggio invernale, Arvezzi era seduto in attesa su un divano rosso, con la scatola grigia tra le mani, in un vasto salone al secondo piano del nobile palazzo romano in cui risiedeva il Ministero della Salute Pubblica.
La porta del Sottosegretario presso cui aveva appuntamento era ancora inesorabilmente chiusa: Arvezzi aveva mobilitato le sue conoscenze in ambito universitario, i suoi docenti e baroni, che gli avevano consentito di giungere fin lì ed ottenere un appuntamento; ma nessuno di essi se l’era sentita di spingersi fino a sponsorizzare apertamente la sua invenzione.
Sentiva il clima pesante di scetticismo che circondava la sua creatura, ma era certo che una dimostrazione pratica – se gliela avessero consentita – avrebbe dissipato ogni dubbio.
Dopo un’ora abbondante, il cigolio della pesante porta alla sua sinistra lo distrasse dal corso dei suoi pensieri. Un tizio grassoccio e vestito in modo costoso ma volgare lo squadrò con freddezza e lo invitò con un cenno ad entrare.
Arvezzi si alzò ed entrò, e subito la porta si chiuse alle sue spalle.
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Camminando per le strade di Roma, distratto dal flusso di pensieri che lo attraversavano dopo quel pomeriggio al ministero, si dirigeva meccanicamente verso la stazione, urtando i passanti.
Era andato tutto malissimo.
Arvezzi aveva proposto al Sottosegretario di provare egli stesso il meccanismo, garantendogli che non ci sarebbero stati problemi di sorta, ma il funzionario lo aveva guardato come si guarderebbe un pazzo, affatto rassicurato dalle sue afffermazioni (“Guardi, l’ho provato più volte su di me, non c’è pericolo…”).
Nemmeno l’assistente aveva voluto sottoporsi al test. Non era rimasto altro da fare che provare su Saetta, il gatto del Ministero – avvistato nei corridoi ed attirato vigliaccamente nell’ufficio con la promessa di cibo.
Arvezzi aveva anticipato di non aver mai sperimentato il meccanismo su animali, ma il Sottosegretario non volle sentir ragioni.
Il felino reagì con morsi e graffi all’idea di farsi applicare due pezzi di gomma alle tempie, e dovettero tenerlo fermo in due mentre Arvezzi accendeva la macchina.
Ma Saetta non mostrò, né subito né in seguito, alcun sintomo di felicità: dopo alcuni secondi si divincolò al punto da sfregiare con gli artigli la mano del Sottosegretario, il quale - bestemmiando - comunicò a Arvezzi che il tempo dedicato a questo sciocchezza poteva ritenersi esaurito.
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“Non poteva funzionare”, si diceva Arvezzi ripensando alla scena, consapevole dell’occasione perduta.
Presto fu al treno, dove salì e posò la preziosa valigetta con il registratore sopra i sedili di fronte al suo. Non le staccò gli occhi di dosso per tutto il lungo viaggio di ritorno a casa…
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“Mooolto, molto interessante!” gli disse, qualche settimana dopo, il Responsabile delle Innovazioni nella sede milanese di Confindustria. Arvezzi non riuscì a trattenere un sorriso.
“Si, pensiamo che sia una invenzione interessante ed utile. Diffusa nelle fabbriche e negli uffici, potrebbe incrementare il livello di produttività generale eeee…ehi, ma dove diavolo va?”
Arvezzi uscì senza salutare, e sbattendo la porta. Pensò a suo padre, vecchio operaio comunista, ed alle occasioni di felicità che aveva avuto nella vita: tutte conquistate a fatica, strappate con i denti, e non certo diffuse gratis dai padroni per fregargli anche il diritto di essere incazzato!
*
“Mio caro”, gli disse mesi dopo l’Arcivescovo con la sua caratteristica pronuncia strascicata, “Lei ha creato qualcosa di veramente bello, di veramente vicino a Dio! Anzi, è sicuramente Dio che ha guidato la sua mente.
Perché questo nostro mondo ha un gran bisogno di serenità e di pace. Perché troppe cose strane turbano il cuore e le menti delle nostre pecorelle, che troppo spesso si perdono cercando la strada verso una felicità fasulla, vuota, lontana dalla retta via.
Questa sua invenzione di certo ci aiuterà a proporre il giusto, retto modello di felicità di cui gli uomini hanno bisogno. Di certo il Santo Padre…”
L’Arcivescovo si fermò, perché Arvezzi non lo ascoltava più. Aveva richiuso lo strumento nella valigia, aveva rispettosamente salutato con un inchino e si era diretto verso la porta.
*
Si diresse verso Piazza Duomo. Da lì veniva, sgradevole, lo strepito del Grande Comizio del Grande Presidente. Prima ancora che dalle parole aggressive, Arvezzi fu colpito dall’onda di rancore che saliva dalla folla, prima ancora di vederla.
Non era poi molta, quella adunata di fronte al palco, ma emanava una sorta di afrore odioso, che sembrava quasi riverberare sopra le teste in quel pomeriggio di primavera, caldo e morente.
Arvezzi ne fu colpito, come da uno schiaffo.
Si avvicinò cautamente al mixer. L’uomo che controllava il suono sembrava assente, semiaddormentato a causa del calore e stordito dalla valanga di parole.
Si mise a terra, alle sue spalle, ed estrasse la scatola grigia dalla valigetta. La accese, la mise in modalità di riproduzione, la posò a terra: prese dalla valigetta un cavo di connessione, lo collegò alla scatola e – con naturalezza – lo innestò su un canale del mixer.
Dopo pochi secondi, chiunque si trovasse ad osservare la folla ebbe la netta sensazione che su quei volti induriti, aspri e incattiviti si facesse largo un rilassamento generale, e fiorisse qualcosa che sempre più chiaramente assomigliava ad un sorriso.
Si percepì chiaramente che la voce iraconda che sovrastava la folla perdeva, progressivamente, il controllo su di essa.
Le persone iniziarono a guardarsi intorno, come a chiedersi perché diavolo fossero lì, e a mostrare segni di fastidio per lo sgradevole rumore che li avvolgeva.
Così, sorridendosi e scambiandosi frasi che divennero sempre più fitte, iniziarono ad allontanarsi verso gli angoli della piazza, sfuggendo all’asprezza di un suono ormai intollerabile.
Arvezzi sorrise, amaramente.
Quando la piazza fu quasi completamente svuotata, ed il Grande Presidente progressivamente incespicò e si inceppò, furente, per quello che ritenne un oltraggio – per il quale chiese im-me-dia-ta-men-te ai suoi uomini di trovare il colpevole -, Arvezzi incrociò lo sguardo interrogativo dell’uomo del mixer, al suo fianco, e sorrise anche a lui.
Con un improvviso colpo di tacco, sfasciò la scatola grigia che stava a terra; poi si girò e se ne andò, con le mani in tasca, fischiettando una stupida canzone dei tempi del liceo.