Credeva che avere un sacco di soldi e fornire lavoro comportasse doveri ineludibili nei confronti delle persone e del territorio in cui si avviava la propria attività economica.
Era convinto che formare e trattare bene gli operai fosse fondamentale per il successo dell'impresa. E così non gli riduceva la pause, ma le allungava: e dentro, ci metteva Gassman che recitava l'Adelchi in sala mensa, e Pasolini e Moravia e Dario Fo che tenevano lezioni ai dipendenti.
Potete immaginare come gli Olivetti fossero visti male non solo dagli altri industriali, ma anche dal sindacato, che ne detestava il presunto "paternalismo" e l'idea di cogestione: Adriano fondò anche un sindacato aziendale, Autonomia Aziendale, che svuotò interamente la UIL di iscritti (restituendoglieli al termine della sua storia).
Convinto che le sue idee (un originale mix di marxismo, elitismo e liberalismo) potessero diventare un progetto politico, fondò il progetto di Comunità e si presentò alle elezioni politiche (con scarsi risultati: divenne senatore solo lui, ma lasciò presto per gli impegni imprenditoriali). Comunità elesse molti amministratori locali nel Canavese, ma dopo la morte di Adriano (febbraio 1960) pian piano la spinta morale ed etica della famiglia si spense.
L'Olivetti fu "normalizzata", costretta ad uscire dall'elettronica su pressioni Fiat (nonostante la creazione del primo grande computer, l'Elea) e pian piano diventò un'azienda come le altre. Anche se, ancora negli anni '80, essere dipendente Olivetti dava un senso di appartenenza ad un'esperienza unica nella storia imprenditoriale (ed a vantaggi ancora nettamente superiori, dal punto di vista dell'assistenza sociale, a qualsiasi altro posto di lavoro).
E dire che, oggi, c'è chi pensa che Marchionne sia un mito...che tristezza!
Di Marchionne scrissi abbondantemente qui a suo tempo, ma mi ripeto brevemente.
Egli interpreta il suo mestiere in modo decisamente diverso da quello di Adriano Olivetti: il suo unico scopo è procurare profitto per gli azionisti e per sè, producendo merci (automobili, ma non solo).
E tale obiettivo non prevede – anzi, esplicitamente esclude – la “responsabilità etica dell’impresa”: ovvero che sia lui ad occuparsi del futuro del pianeta, della compatibilità di ciò che produce con una visione sobria e sostenibile del mondo, e nemmeno della felicità delle persone che lavorano per lui.
Quindi tutte le cose che disse nel "Porta a porta di sinistra" di Fazio non vanno analizzate una ad una, è abbastanza inutile.
Esse sono perfettamente logiche e coerenti nel contesto di una visione di cui Marchionne è consapevolmente (e doratamente) prigioniero: questo è il capitalismo di oggi, bellezza.
Visibile nella sua nudità, spogliato da ogni residuo etico, ridotto all’essenza: e dunque vero, reale, spietato (come direbbe Cetto Laqualunque; “io sono la realtà: voi siete la fiction!”).
Il capitalismo, sistema di merda (iniquo, egoista, infame) ma unico rimasto in piedi tra le macerie del mondo (macerie che esso stesso produce).
C'è chi vince, e detta le regole, e c'è chi perde, e deve subirle: al massimo può mitigarle, ma mai partecipare a scriverle.
Una volta accettata questa visione come unica possibile, ogni discussione finisce per vertere su corollari e dettagli.
Sono corollari (pienamente legittimi) di questa visione le posizioni di Bonanni ed Angeletti ("Prima manteniamo i posti di lavoro, dopo pensiamo ai diritti") o quelle del Governo ("L'impresa è libera di agire come meglio crede, lo strumento con cui governiamo le crisi è la Cassa Integrazione").
Sono dettagli le surreali dissertazioni sul valore dei dieci minuti di pausa in più o in meno.
Sono dettagli le dichiarazioni di Bersani ("Ricordiamoci che siamo in Europa, e non in Cina"): non sono gli "auspici" a determinare le forme in cui il capitalismo si manifesta nelle diverse parti del mondo, ma solo la resistenza che incontra nel suo affermarsi.
La posizione della CGIL (e, seppur con accenti più vistosi ed apparentemente radicali, della Fiom) è, a mio avviso, una posizione di resistenza "emotiva" ed inconscia a questa visione, ma il linguaggio con cui si esprime alla fine non esce dallo schema e dalla visione di cui sopra. Si richiede di fatto un “capitalismo più umano” (ma in una visione infinitamente meno coraggiosa di quella che aveva elaborato Olivetti), che presti più attenzione alla dignità del lavoro, al mantenimento dei diritti.
Ma, alla fine, si fanno proposte che restano completamente in seno a questa visione: non si mette in discussione quel che viene prodotto, se non per dire che sarebbe meglio produrre in Italia i modelli di auto di fascia medio-alta che sono più redditizi, se non per suggerire strategie che permettano di “competere sui mercati” salvaguardando un certo livello di qualità della vita dei lavoratori.
Si “resiste”: ed anche questa è una posizione legittima, onorevole.
Sia ben chiaro: non sto criticando nessuno degli attori in gioco, ognuno dei quali ha una posizione “realista”. Ed è giusto, perché i conti con la realtà sono ineludibili.
Quel che mi chiedo, però, da essere umano miseramente pensante, è: “è davvero finita qui?”
Davvero quel che si poteva produrre attraverso quella immensa e faticosa sovrastruttura che chiamiamo “pensiero” deve considerarsi esaurito?
E’ questo, dunque, è questo mondo il massimo e più avanzato punto di equilibrio possibile che siamo stati capaci di raggiungere?
Un capitalismo (dal volto più o meno feroce a seconda delle possibilità) è davvero il massimo che gli uomini riescono ad immaginare ed a mettere in pratica?
Abbiamo sviluppato tecnologie straordinarie, capaci di curare e dar da mangiare a tutta l’umanità, eppure non riusciamo a stabilire ed a mettere in pratica priorità semplici come “far vivere il maggior numero possibile di persone in un modo decente”?
L’essere umano è davvero, in fondo, inseparabile dal suo istinto alla sopraffazione?
Dobbiamo accettare l’idea che né la cultura né la consapevolezza della capacità di amare, in fondo, possano modificare questo istinto?
Ad esempio: Marchionne è una persona indubbiamente colta ed intelligente, eppure quando afferma “lavoro 18 ore al giorno, QUINDI ho pienamente diritto di godere di un reddito 435 volte superiore a quello di un operaio italiano, (e MIGLIAIA DI VOLTE rispetto ad un abitante dell’Africa)” non esprime con semplicità il più feroce degli istinti di sopraffazione?
Sentire affermare con naturalezza che il valore di sé (o il valore che IL MERCATO attribuisce alla propria professione) può essere pari alla somma di quello di centinaia, migliaia di altri individui nel mondo non è una cosa che dovrebbe farci sobbalzare sulla sedia?
Occhio, non lo dice e non lo pensa mica solo Marchionne.
Lo pensiamo anche noi quando, istintivamente, ci sentiamo “superiori” non solo a chi “non ha voluto studiare” o “non ha voluto farsi il culo”, ed in questo inseriamo almeno una giustificazione di tipo meritocratico, ma anche a chi – semplicemente – ha avuto la sfiga di nascere in una parte del mondo esente da privilegi.
Riteniamo che il nostro lavoro, il nostro salario sia qualcosa di dovuto, “un diritto”, mentre esser nati qui – dove il capitalismo, per ragioni storiche e di “resistenza culturale” non ha semplicemente potuto esprimere appieno il suo potenziale di ferocia – è stata semplicemente una botta di culo (e poi, sì, ci sono infinite varianti: c’è chi di culo ne ha avuto meno e chi di più, ma se assumete come parametro di riferimento questo o questo direi che sul termine “culo” ci sia alla fine da convenire).
E’ vero, a volte ci “sensibilizziamo” od acquistiamo consapevolezza, ma nel quotidiano, anche per meri motivi di sopravvivenza, non possiamo star lì tutti i momenti a pensare che anche la nostra sfigatissima e precaria condizione quotidiana è comunque infinitamente migliore di quella in cui versano i cinque sesti dei nostri fratelli umani che sono sparsi per il mondo.
Riporto qui un pezzo di post che scrissi a gennaio:
"A Salvador de Bahia, una delle città più belle e disperate del Brasile, puoi essere portato ad ammirare la splendida città vecchia, capolavoro dell’architettura coloniale portoghese, fatta di bellissimi edifici color pastello, di stucchi candidi, di forme morbide e curvilinee, e rimanerne affascinato.
Ma non puoi (e non devi) non andare in altri due posti della città dove puoi comprendere il senso della parola “inferno”.
Il primo luogo è (ancora oggi) il poverissimo quartiere detto degli “Alagados”. Il nome è ironico, perché si tratta di palafitte di legno costruite direttamente sugli scarichi fognari a mare della città., collegate fra loro da incerte e precarie passerelle marcite. L’alta marea provvede periodicamente a innalzare il livello dei liquami sui pavimenti della abitazioni.
Qui vivono centomila persone. Centomila. Arrivate da qualsiasi parte del paese, come gli abitanti della favelas di Rio e San Paolo, in cerca di una speranza qualsiasi tra l’immondizia del presente.
Come a Rosarno e nelle periferie delle nostre città, anche se a Salvador tutto è moltiplicato per cento: i numeri, così come la disperazione e l’orrore. Immaginate la situazione igienica, morale, educativa. Non vi racconto cosa significa, qui, guardare negli occhi le persone, o – peggio ancora - i bambini. Immaginate da voi la sensazione che si può provare: immaginate come quello sguardo – accompagnato spesso, e questa è la cosa più sconvolgente, da un sorriso sincero - possa cancellare in un millisecondo, dal nostro cervello da uomini superiori, tutte le migliaia di cazzate che ci hanno inserito a forza.
L’affollamento di minchiate (i programmi tv, la macchina nuova, il cellulare, i viaggi, la “qualità della vita”, il buon cibo, gli abiti eleganti, l’invidia, la carriera, la competizione sociale) si dissolve all’istante, e nell’immenso spazio vuoto che si crea all’improvviso lampeggia una scritta che recita qualcosa come “dare un senso alla vita”.
E’ uno shock. Uno schiaffo violento al castello di bugie su cui costruiamo l’idea di un mondo “sviluppato” e di uno “arretrato”, che lo fa crollare come fosse sabbia – e poi, per tutta la vita, non c’è più verso di rimetterlo insieme.
Un altro inferno, a Bahia, è la discarica della città. O, meglio, la città nella discarica. Tra le montagne di rifiuti di ogni genere, ed i milioni di variopinti sacchetti di plastica lacerati e sventolanti come bandiere tibetane, ci sono delle autentiche strade. E, ai margine delle strade, direttamente su rifiuti, le tende in cui vivono le persone. Quasi sempre si tratta solo di un telo di plastica agganciato su qualche bastone.
Qui vivono centinaia di persone, in maggioranza bambini. Attendono l’arrivo dei camion della spazzatura, attorno ai quali, quando il pianale rovescia altra immondizia sulle montagne già esistenti, si affollano come formiche operose.
E dallo scarto della società civile traggono non solo rifiuti da rivendere o da impiegare per costruire rifugi meno precari (materiale ferroso, legno): ma cibo, che viene consumato subito, con le mani che pescano a cucchiaio, perché la fame e la disperazione se ne fottono assai del bonton.
Moltitudini, dunque, che non possono essere definite deficienti o “fallite”, come si è tentati di fare sbrigativamente secondo la nostra concezione “da vincenti”: sono soltanto parte di quella immensa maggioranza di persone che nel mondo hanno avuto la sfiga di nascere dalla parte sbagliata del mondo (a Salvador de Bahia, si tratta del 90% della popolazione).
Senza lavoro, senza soldi, senza averi, senza cibo, senza presente né futuro, in un mondo che non tollera la povertà: e, anzi, non vuole nemmeno pensarci.
Noi “che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, noi che troviamo tornando a sera il cibo caldo”, come diceva Primo Levi, siamo portati a pensare che la differenza tra noi e “gli altri”, nel senso degli ultimi del mondo, sia solo una questione di “volontà”.
Se uno ha buona volontà…se ha voglia di lavorare…se si comporta bene…se dice sempre sì…se si adatta…se è “meritevole”…
Continuiamo a raccontarci queste palle, d’accordo: è molto più semplice che ammettere che l’ingiustizia su cui si basa questo mondo è semplicemente intollerabile, e che ne siamo in qualche modo complici nel momento in cui neghiamo la verità, e ci ostiniamo a “parlare d’altro” (mai della vita, ma in genere di ciò che in essa vi è di più futile).”
E dunque: dobbiamo rassegnarci all’idea che la rappresentazione di un mondo RADICALMENTE sovvertito nel suo assetto attuale sia non solo non proponibile, ma nemmeno più IMMAGINABILE?
NO. Io credo di no. Perché solo continuando disperatamente, forsennatamente, maledettamente ad immaginare, sognare, desiderare, spargere i semi di un mondo profondamente diverso, potremo trovarci preparati quando - per una di quelle circostanze che capitano ogni tanto ma inesorabilmente nella storia - si creerà una fessurazione, una crepa di questo mondo.
Quello sarà il momento in cui infilare in essa, con tutta la forza possibile, il cuneo della nostra rabbia.