Il ritorno al lavoro è sempre un trauma, da quando lavoro in una multinazionale (non l'ho scelta io, è lei che si è mangiata per motivi meramente finanziari la vecchia, storica, solida società in cui lavoravo prima: e quel che prima contava 100 per noi ora conta 0,8 nel nuovo contesto).
Qui a Torino è ancora forte l'emozione per il dramma della Thyssen, dopo la strage in cui sono morti sette operai (gli invisibili di questo tempo), solo perchè la proprietà tedesca considerava lo stabilimento torinese, e gli uomini che ci lavoravano dentro, alla stessa stregua con cui le proprietà italiane considerano i propri stabilimenti nell'est europeo (inclusi gli uomini che ci lavorano dentro).
Il loro era un lavoro duro ed oscuro, destinato all'estinzione - il destino della siderurgia torinese e italiana in genere, ormai presente solo più a Terni - e malpagato.
Ma forse aveva un senso, come tutto quello che produce e trasforma materia, che produce effetti fisici e visibili, che occupa spazio, che pesa, che esiste, che si può toccare.
Una parte sempre crescente dei mestieri del mondo occidentale, invece, sta alla realtà come il consumismo sta ai bisogni elementari dell'uomo: produce cose in buona parte inutili, non essenziali, di cui si potrebbe benissimo fare a meno.
Quando il mestiere poi rientra nell'ambito dei "servizi immateriali", la sensazione di fare e generare cose superflue si acuisce. Se poi le si fa nel contesto di una organizzazione spaventosamente grande, dare un senso al lavoro quotidiano diventa veramente difficile.
Dal mio punto di vista, posso stimare che l'80% delle attività quotidiane è puramente funzionale alla sopravvivenza dell'organizzazione.
Se improvvisamente smettessimo di farle non accadrebbe nulla di male alla realtà: verremmo pagati per fare nulla anzichè cose palesemente inutili, ma almeno sarebbe un patto più chiaro:-)
Prova ne è che - in queste ultime settimane - decine di colleghi sono andati in mobilità ed in pensione: e con loro è "partito per sempre" il lavoro che facevano, e non si sente la loro assenza; le quattro cose davvero utili vengono ripartite con facilità, o addirittura vengono semplicemente dimenticate:-)
Ho letto ieri "Il Sistema Periodico", un libro che Primo Levi scrisse nei primi anni '80, dopo il bellissimo "La chiave a stella", e raccoglie episodi e aneddoti relativi alla sua attività lavorativa, che Levi proseguì fino alla fine nonostante dal 1956 avesse raggiunto la notorietà come scrittore.
Levi era un chimico, che amava la chimica perchè gli permetteva di entrare nel mistero della materia e tentare di svelarlo: faceva il suo lavoro con passione, tra alambicchi e attrezzature artigianali disponibili nel dopoguerra, anche se col tempo perse l'attitudine al laboratorio occupandosi di assistenza ai clienti e diventando, poi, direttore di una fabbrica di vernici.
Racconta quindi (svelando che lui stesso era il modello per il Faussone della Chiave a Stella) di attività fatte con passione, con gusto, con amore, del lavoro inteso come sfida posta da un problema all'intelligenza ed alla conoscenza di uno specialista, inteso come occasione per superare i proprio limiti, ampliare la conoscenza specifica, raggiungere un orizzonte nuovo.
Lui - il tecnico - era lasciato solo davanti al problema: poteva solo far affidamento su se stesso, sulle proprie intuizioni e sulle proprie esperienze. Ma era libero: libero di sperimentare, di provarci, di tentare, di inventare. La chimica lo permetteva: prendo un frammento di materia, lo sottopongo ad un processo, guardo cosa accade, sperimento, analizzo, imparo, risolvo. E se non ottengo risultati ne prendo un altro, e cambio strada, finchè le esperienze e le intuizioni non mi guidano su quella giusta.
Oggi questa libertà non c'è più, se non in un numero limitato di mestieri. Le procedure aziendali servono a rendere gli uomini intercambiabili, e questo significa voler esplicitamente fare a meno della diversità, della unicità di ogni individuo. Più l'azienda si ingrandisce, più il peso dato all'individuo si assottiglia. Nelle grandi organizzazioni, si è in genere assolutamente inutili in buona parte dei livelli organizzativi, anche se (l'ho già annotata in precedenza con fastidio, questa cosa) è normale che il direttore generale megagalattico dia del tu all'ultimo degli impiegati, con ipocrito familiarismo.
Non c'è spazio per i matti, per l'alzata di ingegno, per l'idea nata al caffè, per le competenze fuori registro, per le conoscenze informali, per il disordine creativo: no, giammai. Tutti a morire sullo stesso foglio excel, a riempire caselline di codici e cifre, a sentirsi imbecilli. A inseguire date definite su criteri irrealistici. A scrivere documenti che nessuno leggerà mai. Ad affogare tra le mail, sepolti da informazioni disperse, frammentarie, incomprensibili, disorganiche, ma sempre caratterizzate dal richiamo all'urgenza ed alla incazzatura di qualcuno in alto.
Insomma, le grandi aziende non sono affatto meglio della società e della politica, al di là dell'immagine che si danno. E quel che producono (o non producono) riflette lo stesso, identico smarrimento di una società che si è perduta e non sa più ritrovarsi.