(Appunti su un viaggio d'ottobre)
Oggi Istanbul conta tra i 16 ed i 20 milioni di abitanti
(son raddoppiati negli ultimi 10 anni), quindi “conoscere Istanbul” non è
ovviamente cosa che si possa fare in pochi giorni: ci si deve limitare a
piccoli assaggi.
Si può scegliere la parte storica, che fu prima romana, poi
bizantina, poi ottomana: tenendo conto che tra spoliazioni ed incendi (che
distrussero fino al XIX secolo buona parte di una città costruita
prevalentemente in legno) assai poco è rimasto di tutte queste epoche.
Istanbul è l’unica grande città del mondo che si sviluppa su
due continenti diversi, separati dal Canale del Bosforo: l’Asia ad Est,
l’Europa ad Ovest…
E’ una città, a prima vista, perennemente sveglia ed
indaffarata, nonché intasata dal traffico (almeno in centro). Costruita su
sette colline assai più erte dei colli di Roma, il centro è un dedalo di
stradine strette e ripidissime, di scalinate che scendono vertiginosamente
verso il mare, le une e le altre perennemente intasate di auto e di folla…
Il quartiere di Galata, ad esempio, è stato per secoli una
colonia genovese (si, qui ci son stati tutti, compresi i veneziani): dominato
da una bella torre, che svetta nel panorama di Istanbul e diventa subito
riferimento, verso sud declina rapidamente verso il mare e verso il ponte omonimo
che lo collega agli storici quartieri ottomani di Sultanhamet: sul ponte, dove
passa ora il tram, decine di cittadini si mettono a pescare, la dove il Corno
d’Oro (che è un fiordo) si apre sul Bosforo.
Stupisce pensare che, ai tempi dei bizantini e fin verso il
XV secolo, il Corno d’Oro in quel punto era sbarrato da una colossale catena
che univa le due rive (distanti circa 450 m); e che persino Maometto II il
Conquistatore, che nel 1453 prese la città, non riuscì a violare la catena e fu
costretto a far passare le sue 260 navi via terra, come Fitzcarraldo, su una
passerella di legno lunga 2 km che risaliva e riscendeva la collina di Galata,
facendole trascinare a mano dai suoi schiavi!
Quando gli Ottomani giunsero alle porte della città,
Costantinopoli era ormai difesa da poche migliaia di bizantini, e da pochi
genovesi giunti in soccorso (la Chiesa rimase sorda alle richieste di aiuto).
Edmondo De Amicis, che ha scritto una splendida guida
“Costantinopoli” agli inizi del ‘900 (vi viaggiò per mesi in compagnia di un
pittore, come inviato de “L’Illustrazione Italiana”) descrive quei momenti in
modo palpitante. Patrizi, plebei, vergini, ecclesiasti, a decine di migliaia,
si rinchiusero nella storica chiesa di Santa Sofia (fondata da Costantino nel V
secolo), sperando fino all’ultimo che un angelo dalla spada fiammeggiante o la
Madonna stessa li salvasse dalle orde infedeli.
Non giunse, ovviamente, nessun salvatore, ma arrivarono le
orde asiatiche, guerrieri lordi di sangue e polvere, che sfondarono le porte e
diedero il via al saccheggio di cose e persone, violentando, uccidendo,
distruggendo, portandosi via schiavi e schiave.
Mehmet II giunse a cavallo dopo qualche ora, si affacciò
sulla carneficina ancora in corso e proclamò che la chiesa sarebbe diventata la
casa di Allah (e ridusse da 3 a uno i tradizionali giorni di saccheggio
permessi alle truppe, affinchè rimanesse almeno qualche bizantino prigioniero…)
I primi Sultani ottomani, almeno fino al XVII secolo, furono
guerrieri valorosi e terribili. Le loro truppe scelte e fidate, i Giannizzeri,
erano costituite da ragazzi prelevati dalle famiglie cristiane dell’Impero ed
educati all’Islam ed alla guerra.
Valorosi anch’essi, mieterono successi militari che parevano
inarrestabili, mentre i sultani costruivano palazzi bellissimi, decorati di
mosaici, dalle tinte pastello, con giochi d’acqua, raffinati e in grado di
affascinare il mondo.
Poi, finite le guerre, i Sultani si fecero pingui e viziosi.
Tra le centocinquante schiave dell’harem, tra cui spiccavano per bellezza le
circasse, sceglievano la ristretta quindicina con cui concubinare regolarmente,
e tra di esse la Sultana.
L’Impero si manteneva (e marciva) da solo, e non restava che
amministrare – assai annoiati – la giustizia, con qualche eccesso di crudeltà
non separabile dall’immensità del potere, e poi fornicare, mangiare e sperare
di durare a lungo.
Perché anche i Giannizzeri, nei secoli, si erano fatti
casta, acquisendo sempre più potere (e perdendo sempre più capacità militari di
fronte ai sorgenti eserciti moderni delle potenze occidentali).
Non era raro che si recassero al Topkapi, il Palazzo
Imperiale, a reclamare nuovi privilegi e mettendo in pericolo lo stesso
Sultano, non prima di avergli sterminato visir e ministri, nonché tutto
l’harem, per fargli capire che non scherzavano.
Fu anche per questo che nel 1826 un Sultano più accorto dei
precedenti formò una nuova guardia scelta e, di fronte al protervio rifiuto dei
Giannizzeri a confluirvi, colse il pretesto per “scioglierli” – facendoli
letteralmente tutti a pezzi.
Sempre verso la fine del 1800, i Sultani decisero di
abbandonare il meraviglioso Palazzo Imperiale in stile ottomano per costruire,
sulla riva del Bosforo, un ricchissimo e decadente Palazzo Reale, il
Dolmabahce, in stile occidentale.
In questo palazzo dalle infinite stanze, piene di ricchezza
scintillante e spesso pacchiana, c’è un pazzesco salone della dimensione di
2000 mq, con un lampadario da 4,5 tonnellate, regalo della Regina inglese Vittoria.
(La guida ci ha tenuto a farci sapere quanto Silvio
Berlusconi amasse questa specie di piazza d’armi al coperto, e ci sia venuto in
visita ben quattro volte – forse a rubare spunti per l’harem…)
Ma, Sultani a parte, parliamo dei Turchi di oggi. Nel centro
moderno, dietro la Torre genovese di Galata, Istanbul è di fatto una grande
capitale europea.
La sua Via Roma, la Istiklal Cadesi, e percorsa giorno (per
i negozi) e notte (per i locali) da masse spaventose di ogni età, ed i
bellissimi palazzi barocchi e liberty dislocati fino alla piazza Taksim, cuore
della Istanbul moderna, non hanno mai quiete.
Nella via, venditori di caldarroste, pani e succhi di frutta
(soprattutto melograni, a ottobre), sono presenti a centinaia, con i loro
carretti.
I turchi, pur dichiandosi per il 55% musulmani, sono
secolarizzatissimi, e vestono all’europea e normalmente restano indifferenti ai
cinque richiami quotidiani alla preghiera che le voci registrate dei muezzin
fanno dagli altoparlanti dei minareti: appuntamenti peraltro utilissimi per
sapere che ora sia:-)
Quando, dopo il crollo dell’Impero Ottomano, alla fine della
Prima Guerra Mondiale, Kemal Ataturk rifondò la nuova Turchia come repubblica
(nel 1923, negli angusti confini attuali) la rese laica, e per
occidentalizzarla vietò l’uso del fez e dei caratteri arabi, sostituiti da
quelli latini. Spostò poi la capitale ad Ankara, perché il passato di Istanbul
era troppo ingombrante per la nuova giovane nazione.
Istanbul perse quindi rapidamente di importanza, tanto che
negli anni Sessanta sembrava soggetta ad un declino inesorabile. Salvo poi rinascere negli anni ’90 del XX
secolo, moltiplicando per 10 la sua estensione e gli abitanti che le erano
rimasti…
Se ci si sposta per qualche chilometro dal centro, però, si
trovano i quartieri (come Fener), dove gli uomini indossano caffettani, barbe
lunghe e turbanti, e dove le donne sono vestite di nero integralmente con
quella inquietante retina a nascondere anche gli occhi.
Gironzolando per quei quartieri (poverissimi e tutti in
salita), dove vivono ancora i discendenti degli ebrei espulsi dalla Spagna nel
XV secolo e che parlano ancora spagnolo, dopo un po’ ci si sente, come
occidentali, davvero a disagio: non per una evidente ostilità – che non si
percepisce, ma per la netta sensazione
di essere qualcosa di altro e incompatibile rispetto all’ambiente.
Si mangia molto kebab, che qui si presenta normalmente nella
forma di piatti di carne alla griglia, e si beve moltissimo tè (bevanda a cui è
difficile sfuggire, viene venduta ovunque da chiunque passi con un thermos…) e
tantissimo raki (liquore nazionale al gusto di anice, tipo pastis, che si usa
anche pasteggiando, con molta acqua fresca…)
Si passano belle serate nei bar all’aperto, bevendo tè e
giocando a backgammon (loro fanno entrambe le cose con una velocità che stordisce!).
Le moschee sono bellissime, in particolare la celeberrima
Moschea Blu. Poiché il Corano impedisce rappresentazioni di esseri viventi
(animali o umani), l’arte ottomana si è sviluppata soprattutto nel campo della
calligrafia, e palazzi e moschee sono decorate da scritte di una bellezza da
restare affascinati, a bocca aperta, a guardarle per ore.
Poi c’è il Gran Bazar (ci ha girato le scene iniziali di
“Skyfall”, l’ultimo 007): turistico e poco interessante nei percorsi classici,
è invece fantastico nelle sue estensioni “popolari”. Ci sono negozi che vendono
esclusivamente manichini per negozi, o solo catene, o solo backgammon…
Il traffico del centro (sempre congestionato, e costituito
all’80% da taxi gialli modello Fiat Albea (una sorta di Bravo a tre volumi) è
stordente, soprattutto per l’incessante suono dei clacson: suonano SEEEEMPREEE!
La raccolta dei rifiuti (impossibile differenziare!) è
attiva 24 ore al giorno.
Ci sono poi i taxi collettivi, i Dolmus, che intercetti solo
alla partenza (l’orario di partenza è “quando è pieno”; le fermate sono a
richiesta di chi c’è sopra, la destinazione è sicura ma il percorso
imprevedibile per tempi, quindi non ci son certezze di orari e fermate…)
Poi ci sono le pasticcerie, stupende, con le piramidi di baclava
– stucchevoli ma irresistibili ed ipercalorici dolci di miele e noci, e
migliaia di caramelle gommose e colorate ad ogni gusto possibile – dal
melograno alla rosa…
E poi le spezie colorate e profumate, in giganteschi sacchi
di juta, e la birra “Efes”, e la pide che è una sorta di pizza, e l’Ayram che è
yogurt acido e spumoso e bianchissimo servito in boccali da birra – nei locali
“islamici” che non vendono alcool, ma Coca Cola…
Che dire ancora?
Che arrivati in Turchia, all’aereoporto di Istanbul, modernissimo
e perfetto, ci abbiamo messo molto meno ad entrare nel paese rispetto ai tempi
biblici riscontrati al controllo passaporti al rientro a Torino, grazie a due
poliziotti indefinibili – guardavamo con imbarazzo la lunga fila di turchi
maltrattati come “extracomunitari”.
Che in tutti gli alberghi (con camere ampie, pulite e
dignitose) c’era il wifi gratis.
Che i turchi sono attivi ed entusiasti, costruiscono i
grattacieli di notte e se entreranno in Europa…ci distruggeranno a colpi di
modernità ed efficienza.
E, infine, che “fumare come un turco” è ormai una leggenda, perché nemmeno
lì va più di moda – e non hanno nemmeno bisogno di minchiate elettroniche.
Quelli che…
Quello con il carretto che fa le caldarroste, aprendole a
mano una per una.
Quello con il carretto che vende quella specie di pane che
si chiama…
Quello con il thermos che vende tè e caffè.
Quello che vende le bottiglie d’acqua fresca da 0,5 L a 0,50
lire turche.
Quello che porta pacchi di bottiglie d’acqua sullo scooter.
Quello che suona il corno in Istiklal Cadesi.
Quello che suona il clacson: sempre, ovunque.
Quella con il velo colorato, l’abito colorato, il trucco. Ed
un viso bellissimo.
Quello che cerca di fregarti portandoti il resto, e ti porta
23 lire anziché 36; e quando glielo fai notare, ti riporta il resto giusto. E
non fa un plisset.
Quello che conduce il tram rosso da Taksim a Tunnel e
viceversa, sull’unico binario che passa giusto in mezzo a Istiklal Cadesi.
Quelli che hanno i locali finto francesi sulla salita di
Cezyr.
Quelli che bevono l’Ayran e mangiano la pide.
Quelli che vendono la Efes a 50 CL a 8 lire turche, quella
da 30 CL a 6 lire turche. E quelli che fanno i furbi e la vendono più chiara.
Quelli che all’ora della preghiera islamica diffondono dagli
altoparlanti dei minareti i richiami dei muezzin.
Quello che porta a tracolla sulla spalla destra due
voluminosi sacchi neri della spazzatura pieni di chissà cosa.
Quelli che trasportano le merci su e giù per le salite.
Quelli (ragazzini) che giocano a calcio sotto le arcate
dell’Acquedotto romano di Valente.
Quelli (la famigliola) che costruiscono il gradino di casa,
nella casa sotto l’Acquedotto romano di Valente.
Quelle che portano il velo, fumano e consultano l’iphone.
Quelli che fanno le spremute di melograna, arancia, carota
(da 3,2,1 lire turche a bicchiere piccolo).
Quelli che, all’aperto, fanno la pasta per la baclava.
Quelli che fanno le piramidi di baclava.
Quelli che vanno in traghetto dall’Europa all’Asia e poi
viceversa, in dieci minuti e per sole 3 lire turche.